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La consolazione di Fabiana era che quella era l’unica somiglianza fisica col padre e poteva essere nascosta nelle scarpe.
Forse ci posso mettere lo smalto.
Esmeralda, in bagno, ne aveva una collezione di tutti i colori.
Ma solo all’idea di tirarsi su, alzarsi, mettersi a cercare quello giusto le passò la voglia.
Intanto, alla radio, Bob Dylan attaccò a cantare Knockiri on Heaven’s Door.
«Mi piace questa canzone…» sbadigliò Fabiana.
«È un capolavoro» disse Esmeralda Guerra, seduta a gambe incrociate sulla scrivania. Anche lei era in reggipetto e mutande. Con la brace della canna faceva dei buchi sulla testa di una vecchia bambola, producendo un fumo nero e tossico che si mescolava a quello delle sigarette e dell’incenso che bruciava sul comodino tra cataste di riviste di moda.
«Chi la canta?» Fabiana girò lentamente la testa e vide che sul televisore muto c’era un film di una rapina che aveva già visto, con quell’attore famoso…
Al…? Al…? Al qualcosa.
«Uno famoso. Degli anni Ottanta… Mia madre ha il disco.»
«Ma che significano le parole?»
«Èven significa paradiso. Dor, porta. La porta del paradiso.»
«E nocchini»
L’amica lanciò la bambola nel cestino e ci pensò un po’ troppo.
Non lo sa, si disse Fabiana.
Esmeralda raccontava di essere mezza inglese perché da piccola era stata in California, ma quando le chiedevi il significato di una parola un po’ più complicata di window non c’era verso che la sapesse.
Sentiamo che stronzata spara… «Allora? Che vuol dire?»
«Vuol dire conoscendo… conoscendo la porta del paradiso.»
«E dopo?»
Esmeralda ascoltò a occhi chiusi la canzone e poi fece, seria: «Dice che conoscendo la porta del paradiso è facile trovarla. E quando la trovi ci puoi portare anche tua madre anche se è molto buio… Una roba così, insomma».
Fabiana prese un cuscino e se lo mise sotto la testa.
«Certo, però, che canzone idiota.»
Se lei avesse aperto una porta e ci avesse trovato il paradiso compreso di nuvolette e angeli svolazzanti probabilmente non ci sarebbe andata. E di sicuro non con sua madre.
Forse devo mettere la testa sotto al rubinetto. Si sentiva gli occhi gonfi come chicchi d’uva e il cranio pesante come se fosse pieno di ghiaia. Tutta colpa di quel limoncello giallo e dell’erba di un certo Manish Esposito, un amico della madre di Esmeralda che viveva in una comunità di arancioni vicino a Santa Maria di Leuca.
Esmeralda sbadigliò un: «Ci facciamo un bagno?».
«Cosa?»
«Un bagno. Ho un bagnoschiuma buonissimo al mughetto.»
Non era una cattiva idea. Ma che ore erano? Fabiana guardò il grosso orologio a forma di bottiglia di CocaCola appeso sopra la testata del letto.
Le dieci e tre quarti.
Erano chiuse in quella stanza da almeno otto ore.
Ci stiamo seppellendo vive.
All’inizio le era sembrato un progetto interessante.