Capitolo 11

«Il cuore umano cela tesori, nel segreto tenuti, tra il silenzio sigillati; i pensieri, le speranze, i sogni, i piaceri, il cui incanto si infrangerebbe se venissero rivelati.»

- Charlotte Brontë

Jennifer

«Perché hai ringraziato quella donna orribile?» chiese Cletus, scartando il suo panino. Eravamo seduti a uno dei tavoli da picnic pubblici, vicino al vecchio sentiero di Cooper Road. Era caldo per essere ottobre. Io approfittai del tempo mite, scegliendo di lasciare il mio cardigan giallo in macchina.

«Chi? Parli di Scotia Simmons?» chiesi, pulendomi le dita su un tovagliolo.

«Già.» Cletus annuì, poi prese un gran morso del suo panino.

«L’ho ringraziata?» cercai di ricordare.

Dopo essere usciti nel parcheggio del centro commerciale, lui aveva indicato la sua auto, una Buick che non riconobbi, e mi aveva detto di seguirlo. Si era tenuto in ostaggio il mio panino, quando si era allontanato con passo tranquillo. Pensando che non avevo altra scelta, se avessi voluto consumare una cena con un minimo di personalità, mi arresi e seguii Cletus e la sua Buick nuova-per-me su per la strada di montagna fino alla svolta per il sentiero.

Parcheggiammo. Lui aveva atteso che uscissi dalla macchina, ci aveva condotti a un tavolo da picnic proprio di fianco al ruscello di montagna e ora eravamo lì.

«L’hai ringraziata davvero» rispose, dopo aver ingoiato il suo boccone. «Lei ha detto che eri ingrassata o qualcosa del genere e tu hai detto: ‘Grazie’.»

«Oh, quello.» Scrollai le spalle. «Ha detto che avevo preso peso, per cui ho pensato che volesse dire che ero in salute.»

Cletus alzò un sopracciglio sentendomi, e mi fissò come se fossi impazzita. «Perché mai? Chiaramente voleva sbandierare le sue ingiurie.»

«Sbandierare le sue ingiurie, che vorresti dire?»

«Che è una stronza odiosa.»

Sobbalzai e gli occhi mi si spalancarono, perché non ricordavo di averlo mai sentito usare un linguaggio tanto forte prima d’ora. Ciononostante, una parte di me si sentì sollevata e grata per la sua scelta di parole. Mi sentii stranamente vendicata e… appoggiata. Come se fosse dalla mia parte.

In ogni caso, non commentai le parole che aveva usato, spiegai invece il mio modo di agire. «Per me tutto è reso più gradevole, se trasformo gli insulti in complimenti.»

Lui posò il panino sul tavolo. «Lo fai spesso?»

«Sì. Sempre.»

«Quanto spesso? Una volta al mese?»

«No. Ogni giorno, di solito.» Risposi senza esitazione, con sincerità.

Ma poi, mentre lui continuava a fissarmi con le sopracciglia aggrottate in un cipiglio severo, io iniziai ad agitarmi un tantino sotto il peso di quello sguardo. Mi resi conto di colpo di come potesse interpretare le mie parole.

Ma non può essere vero. Non mi insultano ogni giorno... vero?

«Chi è che ti insulta ogni giorno?»

Lasciai cadere lo sguardo sul mio panino, cercando di fare un conto mentale dell’ultimo mese.

Ieri mattina, la mamma ha detto che “avevo litigato con lo specchio”. Il giorno prima, mio padre mi avevo detto che in testa avevo più capelli che cervello. Il giorno prima ancora, mio padre mi aveva chiesto se nel vocabolario ci fosse la mia foto accanto alla parola “stupido”.

Arrivai a ricordare fino a due settimane prima e, in effetti, non era passato giorno senza almeno uno o due episodi in cui mamma criticava il mio aspetto o papà commentava la mia mancanza di cervello. Mi accigliai di fronte a tale scoperta, perché era realmente una scoperta, e cercai di analizzare il quadro improvvisamente men che perfetto della mia vita familiare.

Era davvero quello il mio mondo?

Più ci pensavo più mi rendevo conto che sì, lo era. I miei genitori passavano un sacco di tempo a dirmi quanto fossi sgradevole. Perché mai facevano una cosa del genere?

Non potevo ammettere la verità a Cletus, perché la verità mi rendeva patetica, per cui scacciai il suo scrutinio con un gesto della mano e mi costrinsi a sorridere allegra. «Nessuno. Scusa, mi è uscita male. Non volevo dire questo. Nessuno mi insulta ogni giorno.»

Avevo il collo in fiamme e mi prudeva. Pensai di mangiare un altro boccone del panino, ma poi decisi di non farlo, preferii lasciare vagare lo sguardo sull’acqua fino al precipizio, sull’altra sponda.

«È tuo padre?»

Scossi la testa anche se, a ripensarci adesso, mio padre era la causa principale per cui avevo sviluppato quell’abitudine. «Non preoccuparti, mi sono espressa male.»

«Credo tu intendessi esattamente quello che hai detto. È tua mamma?» La sua voce si addolcì, ma questo mi fece solo sentire peggio, come un essere pietoso.

Strinsi i denti e mi schiarii la gola, poi mi alzai dal tavolo e passeggiai fino alla riva del ruscello.

«Jenn?» mi chiamò lui, insistendo per ottenere una risposta.

«Parliamo di qualcos’altro» dissi, senza girarmi.

Lui rimase in silenzio per un istante e poi sentii i suoi occhi sulla mia schiena. Per qualche motivo ero pericolosamente vicina a scoppiare in lacrime. Ma era una cosa stupida. Io ero stupida. Non mi sentivo ferita. Stavo bene. E fui immensamente sollevata quando Cletus esalò un sospiro teatrale e chiese stizzosamente: «E di cosa vuoi parlare?»

Senza pensarci troppo, risposi: «Se potessi essere in qualsiasi posto volessi, adesso, dove saresti?»

«Alaska» rispose lui immediatamente, riportando la mia attenzione sul suo bellissimo viso. Anche lui aveva abbandonato il suo cibo e si stava dirigendo verso di me.

«Alaska? Che c’è in Alaska?»

Lui incrociò le braccia sul petto e si fermò a solo un metro da dove mi trovavo, rivolto verso di me. «Il cielo.»

«Anche qui c’è il cielo.» Indicai con un cenno la distesa azzurra sopra le nostre teste. «Un bel pezzo, proprio di fronte a te.»

«Già, ma il cielo in Alaska è più grande, più vicino» rispose con una punta di impazienza. Avevo l’impressione che non avesse apprezzato la mia insistenza nel cambiare argomento. «Come se il paradiso fosse appena fuori dalla tua porta, e andare a farsi una passeggiata fra le nuvole fosse una possibilità assolutamente fattibile, se lo si desidera.»

Nonostante la nota di disappunto nel suo tono, la sua descrizione dell’Alaska mi fece sorridere. «Non avevo idea che il cielo ti piacesse tanto.»

«Sì, mi piace. Mi piace davvero il cielo. Mi piace alzare lo sguardo e farmi sorprendere da quello che vedo. Non succede molto spesso, ma quando succede…» fece una pausa, liberando il fiato, mentre il suo sguardo si muoveva sul mio volto, «quando mi succede, di solito sono in Alaska.»

«Il cielo qui non ti sorprende?» Pensai a cosa si potesse intendere per cielo sorprendente. Io di solito passavo tutta la giornata al chiuso, lavorando in pasticceria, e probabilmente mi perdevo tutti gli eventi celesti che avrebbero potuto definirsi sorprendenti.

«Di solito no. È bello, d’accordo.» Alzò le spalle. «Ma bello è noioso. Preferisco le sfumature sorprendenti di un crepuscolo in Alaska alla banale graziosità di un tramonto del Tennessee. Ecco cosa mi piace.»

La sua descrizione mi fece sorridere di più e anche avvicinarmi a lui. Mi piaceva come il suo volto si illuminava quando parlava del cielo dell’Alaska. «In che senso, sorprendente?» In realtà, volevo solo farlo continuare a parlare.

Cletus inclinò la testa in avanti e indietro con fare assorto. «In primavera, i tramonti sono rossi e arancio. Ma in autunno, sono viola scuro con striature di lavanda e indaco, il colore più bello che io abbia mai...» Cletus si accigliò lievemente, lasciò incompiuta la frase e il suo sguardo si fece lontano, come se stesse ponderando in silenzio una questione molto seria.

Poi, all’improvviso, annunciò: «I tuoi occhi non sono viola. Sono blu. Blu scuro».

Io li socchiusi e sbattei rapidamente le palpebre, tutt’a un tratto mi sentivo imbarazzata dai miei stessi occhi e feci un passo esitante all’indietro. «Lo so,» farfugliai. «Solo che a volte sembrano violetti.»

Cletus scattò in avanti e mi afferrò saldamente il mento con le dita, poi si fece più vicino ancora di un passo, tenendomi ferma. Mi esaminò le iridi. «Sono riflettenti.»

«Come, scusa?» Ora dovevo proprio assomigliare a un animaletto impaurito.

«Riflettono il colore opposto a quello che li circonda. Tu vesti di verde o giallo e quelli diventano violetti. Ma se ti vestissi di arancione, allora sarebbero probabilmente celesti come il cielo.»

Io annuii appena, facendo attenzione a non distogliere lo sguardo, non volevo che smettesse di toccarmi, non volevo perdere l’occasione di osservarlo da vicino. O forse, volevo solo stargli vicino. In ogni caso, mi piaceva come la sua vicinanza mi facesse sentire le farfalle nello stomaco e il petto che si stringeva.

«Qualcosa del genere.» La voce mi si spezzò e mi schiarii silenziosamente la gola. «Ma se indosso il bianco o il nero...»

«Allora sono del loro colore vero. Smettono di raccontare menzogne.» Il suo sguardo si concentrò nuovamente, iniziò a sondare più a fondo, a muoversi oltre la superficie del colore delle mie iridi fino alla persona dentro.

La piena potenza dello sguardo acuto di Cletus, specialmente a quella distanza ravvicinata era… sconvolgente. Trasalii, appena appena, ma non cedetti. Ciononostante, un rossore traditore mi salì alle guance. I suoi occhi viaggiarono sul mio volto, lo vidi prendere nota del mio colorito, un lato della sua bocca si sollevò in un movimento minuscolo, quasi impercettibile.

«Perché sei così rossa in viso?» sussurrò, i suoi occhi ora erano socchiusi mentre si spostavano sulla mia bocca.

«Fa caldo, qui» gracchiai, ordinando alle mie gambe di sostenere il mio peso.

O almeno, io ero tutta accaldata.

«Ti sto innervosendo?» La sua voce si abbassò di un’ottava.

«Sì» risposi con assoluta onestà.

Il suo sorrisetto si levò più in alto, mi liberò il mento dalle sue dita. Il pollice di Cletus sfiorò lievemente il mio collo in una carezza intenzionale, facendomi deglutire di riflesso, e lasciandosi dietro una scia di pelle d’oca. Ma quando lui si allontanò del tutto e tornò al tavolo da picnic, io avvertii la sua perdita. Quella perdita mi lasciò stordita. E quello stordimento mi disorientava.

«Te l’ho detto, prima o poi dovrai smettere di avere paura di me.» Cletus prese di nuovo il suo panino, lo addentò e poi parlò con la bocca piena. «Io ‘on fazzo pa’va, ‘ono ‘idicolo.»

Socchiusi gli occhi, la sensazione di stordimento acuto e la pelle d’oca che ancora rimaneva iniziarono a scemare, mentre cercavo di decifrare quel farfugliamento. «Cos’hai detto?»

Lui scosse la testa, masticò, mandò giù e poi ripeté: «Io non faccio paura, sono ridicolo».

Lo contraddissi sbuffando, tornando al tavolo per sedermi davanti a lui. «Cletus Winston, tu sei molte cose, ma non hai nulla di ridicolo.»

«Davvero?» Mi rivolse uno sguardo inquisitorio, un angolo della sua bocca si sollevò. «Che mi dici dei miei capelli?»

Spontaneamente, la mia attenzione si spostò sui suoi capelli. I suoi folli, lunghi, puliti, ma indomiti capelli.

Amo i tuoi capelli. «Che c’entrano i tuoi capelli?»

«I miei capelli sono ridicoli. Si comportano male sin dalla mia nascita.»

Quello mi fece ridere e gli rivolsi un gran sorriso, al pensiero di lui da neonato con i suoi capelli disubbidienti. Immaginai che i capelli non fossero i soli a essere birbanti.

«È la verità» disse, come se la mia risata fosse una contraddizione alla sua affermazione. «Sono il solo dei miei fratelli ad aver ereditato i riccioli di nonna Oliver, oltre alla distichiasi.»

«Distichiasi? Che cos’è?»

«Una mutazione genetica che causa una doppia fila di ciglia.» Si indicò gli occhi e si sporse in avanti. Io seguii il suo esempio e mi sporsi sopra il tavolo, per studiare le sue ciglia. Aveva veramente una seconda fila di ciglia.

«Incredibile. Non ne avevo mai sentito parlare prima.» Di sicuro spiegava quanto fossero folte.

Lui prese un piccolo boccone del cibo, annuendo, masticando, infine deglutendo prima di aggiungere: «Anche Ashley e Billy hanno la distichiasi, ma non i capelli ricci. E io sono l’unico che aveva i capelli biondi da bambino.»

Lo studiai, riflettendo su questa nuova informazione. Conoscevo Cletus da quando era più giovane, ma naturalmente non l’avevo conosciuto da bambino, visto che era più grande di me di qualche anno.

«Avrai avuto un mare di guai crescendo, con i tuoi capelli biondi, ricci e fluenti e le tue doppie ciglia.»

Cletus sospirò, e annuì con austerità. «Sì. Quando ero proprio piccolo, a due, tre anni, la maggior parte delle persone pensava fossi una femmina. Mamma non fece granché per chiarire l’equivoco. Voleva una bambina da morire e io ebbi la sfortuna di nascere prima dell’arrivo di Ashley.»

«Cosa successe dopo la nascita di Ashley?»

«Non ci furono grossi cambiamenti, anche se mamma iniziò a chiarire l’errore con più convinzione. I capelli ricci attirano un sacco di cose, come gomme e nodi. Ma un ragazzino con i capelli lunghi, biondi e ricci e folte ciglia attira un sacco di stronzi.» L’atteggiamento di Cletus mutò, la sua voce si fece più profonda, dura, come se si stesse soffermando su un ricordo in particolare.

La mia attenzione venne catturata dalla sua barba e chiesi, senza riflettere: «Per questo ti sei fatto crescere la barba? Perché le persone non ti scambiassero per una femmina?»

Cletus rimase in silenzio, ma quando rialzai gli occhi nei suoi, li trovai velati e introspettivi, come se stesse riflettendo seriamente sulla mia domanda.

Infine, scosse la testa. «No. Mi sono fatto crescere la barba perché non c’era nessuno che insegnasse a noi ragazzi a raderci.»

…dai.

Resistetti a malapena all’impulso di alzarmi, andare dal suo lato del tavolo e stringerlo in un abbraccio. A malapena. Non perché fosse sembrato triste, non mi era sembrato triste, ma distaccato. E quello aveva reso la sua spiegazione ancora peggiore.

Il suo sguardo tornò a focalizzarsi sul mio, e Cletus mi rivolse un sorriso d’intesa, come se potesse leggermi nel pensiero. «Non essere triste per me. Ci sono state tante altre persone al mio fianco, mentre crescevo. Nonna visse con noi fino alla sua morte, e compensò ampiamente ogni mancanza causata da Darrell Winston. Era della vecchia generazione, quella che usava il grasso della pancetta per qualsiasi cosa, dal preparare i biscotti al fare il sapone.»

«Non credo di ricordare tua nonna.»

«Non potresti. Quando morì, dovevi avere appena sei anni o giù di lì.» Il suo sguardo si perse ancora, si posò oltre la mia spalla. «Era cresciuta poverissima, per cui era la regina dell’ingegno, quando si trattava di risparmiare e riutilizzare materiali. Descriveva così la sua infanzia: “ero talmente povera che non potevo nemmeno prestare

Sorrisi, a sentirlo. «Pensavo che i tuoi nonni fossero ricchi.»

«Oh, mio nonno sì. Ma nonostante mio nonno Oliver, suo marito, fosse ricco di famiglia e guadagnasse bene, lei non è mai riuscita a tollerare gli sprechi. Era una donna che guardava la spazzatura e ne vedeva la potenziale utilità. Costruì un impianto per distillare il liquore in casa con tubi di gomma trovati in giro, due enormi marmitte e una fornace in pietra. È ancora nel nostro garage indipendente, e funziona.»

«Fece un alambicco per distillare liquori?» Adesso mi sentivo rilassata. E mi era tornata la fame. Recuperai il mio panino.

«Sì. Lo uso una volta l’anno, verso Natale.» I suoi occhi si spostarono su di me, come se volesse sondare il mio interesse. Dovette accorgersi che trovavo l’argomento di quella conversazione affascinante, perché continuò. «Ma non è tutto. I suoi vestiti dismessi, che erano più buchi che vestiti, trovavano una seconda vita come trapunte. Trasformava vecchie tende in tovaglioli, le bottiglie di plastica in palette giocattolo e una volta trasformò una ruota da trattore da 420 in una cassetta della sabbia per noi bambini.»

«Ah! Bell’idea.»

«Riparava anche le automobili e, devo essere sincero, è lei che più di tutti ci ha insegnato come cambiare olio e gomme, e ha fatto nascere il nostro interesse per le auto.»

«Forse hai ereditato il tuo talento meccanico e i geni dell’ingegnere da lei» suggerii, tra un morso e l’altro.

«Probabilmente.» Annuì, come se ritenesse che la mia affermazione avesse fondamento. «“Ma a volte”, diceva lei, “la spazzatura è solo spazzatura e andrebbe lasciata a lato della strada”. Di solito lo diceva quando mio padre era nei paraggi.» Abbassò gli occhi e si accigliò, guardando il suo cibo. La sua voce si fece distante. «Odiava mio padre, ma non alzò mai la voce. Mi ripeteva sempre “a volte una parola sussurrata è più impetuosa di un urlo”.»

Iniziai a riflettere su quello, a riflettere sulla sua affermazione rispetto al mio eterno silenzio. Il mio silenzio è impetuoso?

Non lo pensavo. Semmai, il mio silenzio rendeva eterni i miei problemi. Alimentava la mia infelicità.

Prima che potessi riflettere troppo a lungo su quelle parole, lui aggiunse: «Darrell la chiamava la signora della monnezza e metteva in ridicolo il suo riciclaggio. Non capiva perché una donna con così tanti soldi non comprasse cose nuove quando le servivano».

«E lei come rispondeva?»

Lo sguardo di Cletus tornò nel mio, il suo sorriso era dolce e triste, grazie a un qualche ricordo. «Rispondeva sempre allo stesso modo: “Le cose vecchie sono ricche di anima”. Poi si rivolgeva a me e aggiungeva, in un sussurro: “E le cose nuove sono ricche di spirito”.»

Quel modo di dire, così semplice e coinciso, mi toccò nell’anima. Lo sguardo mi cadde sul tavolo da picnic e mi chiesi se le sagge parole di sua nonna potessero valere anche per me. Avevo spirito?

Nel silenzio che seguì, mentre Cletus sembrava soddisfatto di finire il suo cibo perso nei suoi pensieri, io fui colta dalla malinconia. Non mi sentivo particolarmente ricca di spirito. E non mi sentivo neanche particolarmente ricca nell’anima.

Mi sentivo messa a tacere. Mi sentivo soffocata. Mi sentivo repressa e… ignorata. Non solo dai miei genitori e dalle loro aspettative, ma anche da me stessa. Mi ero ignorata a lungo. Avevo ignorato i miei stessi desideri e speranze.

Per cui decisi di sentirmi invece motivata, determinata, pronta e… emozionata.

Ero emozionata, pronta a trovare il mio spirito.

Il primo giorno, misi lo smalto bordeaux e non batterono ciglio.

Il secondo giorno, non mi truccai e mio padre mi guardò sconvolto, ma non disse nulla.

Il terzo giorno mi raccolsi i capelli in una crocchia e in cambio ottenni parecchie occhiate di disapprovazione da parte di mia madre, ma nessuna ramanzina.

Tuttavia, il vestitino nero che indossai il quarto giorno per il mio finto appuntamento con Billy…

«Cosa diavolo ti sei messa?» mi chiese mamma dalla soglia della mia stanza, con le mani sui fianchi e le sopracciglia unite in un cipiglio torvo.

Io mi guardai nello specchio. Mi piaceva ancora il vestito con la scollatura tonda, le maniche ad aletta e la fascia di pizzo all’orlo. Mi piaceva ancora di più con i capelli tirati all’indietro, come li avevo sistemati adesso, e le scarpe nere a punta col tacco che avevo comprato il giorno prima per l’occasione, dopo il lavoro.

«È un vestito» dissi con un’alzata di spalle, poi mi sedetti sul bordo del letto per mettermi le scarpe nuove.

Non sapevo come fosse possibile, ma il suo cipiglio si fece ancora più profondo. «Prima quell’orribile smalto e ora questo? È indecente.»

Io storsi il naso verso di lei, la punta di irritazione che avvertii nel sentire le sue parole mi costrinse a dover calmare il tono. «Perché è nero?»

Sbuffò. «Non c’è bisogno che mi spieghi. Non lo indosserai, punto. Indosserai il vestito che ti ho preparato. Scotia mi ha chiamata ieri, ha detto che ti ha vista al centro commerciale. Ora immagino di sapere perché ci eri andata.»

Io lanciai un’occhiata al vestito giallo che aveva steso sul mio letto. Maniche a tre quarti, colletto alto, un’ampia gonna che mi ricadeva fino al polpaccio.

Non l’avrei indossato. E se non le fosse andato bene, beh, allora tanto peggio per lei.

Alzai lo sguardo su mia madre e ricambiai la sua espressione aggrottata. Non ero immune al suo disappunto. Lo sguardo che mi stava rivolgendo mi feriva, mi faceva stringere il cuore dai sensi di colpa, mi faceva sudare un poco le mani. Ma, come avevo realizzato ieri, quegli sguardi erano un evento giornaliero, qualunque cosa facessi. Non l’avrei mai fatta felice e io non ero più felice di fare sempre quello che voleva lei. Era solo un vestito. Ma era il mio vestito e non era indecente. Era carino e mi piaceva e non c’era alcun motivo, proprio nessun motivo, per cui dovessi cambiarmi.

Scossi la testa e strinsi a pugno le mani in grembo. «No, mamma. Non mi metterò un vestito giallo.»

Lei sbuffò di nuovo. «Jennifer Anne Sylvester, stai mettendo alla prova la mia pazienza. Non mi piace che mi si rivolga...»

«Su, Diane, lasciala in pace.» La voce di mio padre risuonò dal fondo del corridoio e io sentii i suoi passi avvicinarsi. Poco dopo fu sulla soglia. Mi squadrò velocemente e annuì. «Sta davvero bene. Con un po’ di fortuna, lui sarà concentrato sul suo aspetto, così lei non dovrà parlare molto.»

Deglutii l’amarezza crescente nata dall’insulto implicito di mio padre, ero determinata a ignorarlo invece di fingere che fosse un complimento.

La bocca di mamma si spalancò, gli occhi le schizzarono dalle orbite. Ma non ebbe il tempo di parlare, perché il campanello suonò annunciando l’arrivo di Billy.

Io sentii un fremito di eccitazione, ma non era per via di Billy o dell’appuntamento. Billy non mi piaceva in quel modo, ma speravo davvero potessimo essere amici. Il fremito era dovuto interamente al vestito. Sarei uscita di casa indossando questo vestito nero, queste scarpe nere e sarei andata alla jam session. Forse ero un filo troppo elegante per la jam session e il centro comunitario, ma non per un appuntamento a cena con lo scapolo più appetibile della città. Mi sentivo come se stessi per uscire per la prima volta in pubblico come la vera me stessa.

Quindi sì, ero dannatamente eccitata.

Prima che mia madre si riprendesse, presi il mio scialle, sgusciai oltre i miei genitori e m’incamminai lungo il corridoio fino alla porta d’ingresso. Sentii le loro voci che sussurravano dietro di me: mia madre era infuriata, mio padre era esasperato.

Li ignorai e aprii la porta.

Billy Winston, in tutta la sua alta, bruna e bellissima gloria, si girò; aveva un sorriso cortese dipinto sulle labbra, e subito dopo rimase a bocca aperta.

«Jenn?» chiese, come se non mi avesse riconosciuta.

Io sorrisi, sentendomi appena in imbarazzo, ma comunque eccitata. «Ciao.»

I suoi occhi viaggiarono in basso, risalirono e si abbassarono di nuovo. «Sei davvero...»

«Billy Winston, che piacere.» Mia mamma apparve al mio fianco, con un sorriso precario in volto. «Vuoi accomodarti un attimo?»

Mio padre apparve un momento dopo, allungando la mano per stringere quella di Billy. Il momento successivo, mi spinse fuori dalla porta.

«No, no. Non vogliamo trattenervi. Meglio se voi ragazzi andate, ora.»

«Ma...» Mia madre si tese per afferrarmi la mano, mio padre bloccò il suo tentativo passandole un braccio attorno alle spalle e tenendola così dove si trovava.

«Andate. Divertitevi. Ci vediamo dopo.» Salutò con un cenno della mano, poi chiuse la porta.

Billy fissò la porta per un momento, poi concentrò lo sguardo su di me. Io scrollai le spalle. Lui sembrava sbigottito o divertito, o entrambi. Ma si riprese in fretta.

Voltandosi verso la sua auto, mi offrì il braccio e un piccolo sorriso genuino. «Andiamo?»

Io intrecciai il braccio al suo e ricambiai il suo sorrisetto. «Andiamo.»

«Allora, Cletus mi ha detto che devo cambiare una cosa ogni giorno. Non ha specificato cosa dovrei cambiare, solo che dovrei decidere io stessa cosa.»

Billy annuì.

Continuai. «All’inizio non ne vedevo l’utilità. Ma sai una cosa? Cletus aveva ragione. Una cosa irrilevante come mettermi sulle unghie uno smalto di colore diverso mi ha fatto sentire come se potessi fare qualunque cosa, se mi metto in mente di farla.»

Billy sorrise.

Io continuai. «Cletus ha anche detto...»

Billy si schiarì la gola. «Vai spesso alla jam session? Credo di averti visto là solo qualche volta.»

«No, a dire il vero. Mi piacerebbe, ma i miei sabati sono molto impegnati. Di venerdì sera di solito preparo gli ordini speciali. Ti ho sentito cantare qualche volta, però. Dovresti farlo più spesso, hai proprio una bella voce.»

Billy sorrise di nuovo, i suoi occhi scivolarono su di me prima di allontanarsi. «Grazie.»

«E Cletus è fantastico al banjo. L’anno scorso, ad Halloween, ha suonato una versione folk di Thriller. È stata spettacolare.»

Billy sospirò.

Conversare con Billy Winston era sorprendentemente facile, una volta smesso di avere paura di dire la cosa sbagliata. Invece di preoccuparmi, semplicemente dicevo tutto quello che volevo. Lui non parlava molto, oltre a farmi qualche domanda, per cui riempii io i silenzi. A volte quello che dicevo lo faceva ridere. Altre volte, annuire. Altre, tossire.

Ma di solito, qualunque cosa dicessi, lo faceva sorridere. Ed era bello. Lui era bello.

Parcheggiò il suo pick-up nel parcheggio del centro comunitario, si capiva che eravamo arrivati proprio nel vivo della jam session. La sera era fresca, tutte le persone indossavano cappotti.

Mi avvolsi le spalle nello scialle e Billy mi aprì lo sportello, per aiutarmi a uscire dalla macchina. Io infilai di nuovo le dita nell’incavo del suo gomito, prendendolo a braccetto mentre cercavo di sopprimere un nuovo, e più potente, fremito di eccitazione mentre ci avvicinavamo al centro comunitario.

Mi chiedevo se Cletus fosse lì. Mi chiesi cosa avrebbe pensato del mio vestito, dei miei capelli raccolti nello chignon e del mio trucco volutamente leggero, del mio smalto. Nonostante il nervosismo, sorrisi al pensiero.

«Cosa ti fa sorridere?» chiese Billy, sbirciandomi con la coda dell’occhio.

«Sono nervosa» risposi con sincerità, senza fiato. Poi, prima di potermi fermare, chiesi ancora: «Pensi ci sia anche Cletus?»

La bocca di Billy si alzò da un lato e osservò il mio volto. «Sono sicuro di sì. Perché?»

«Mi chiedo cosa penserà del mio vestito» ammisi eccitata.

Lui ridacchiò e scosse la testa.

«Cosa? Che c’è?» Insistetti, scrutando il suo volto di profilo per trovare un indizio sul perché stesse ridendo.

Lui ci fece fermare e si mise di fronte a me. «Dal momento che questo è un appuntamento di prova, vuoi che ti dia un consiglio?»

Io annuii con entusiasmo. «Sì, grazie. Ogni consiglio è ben accetto.»

«Ok. Allora te lo dico.» Prese un profondo respiro, come se si stesse preparando bene per qualcosa e continuò: «Quando esci con un uomo, probabilmente è meglio non parlare di altri uomini».

Le labbra mi si schiusero, la mia espressione crollò. «Mi dispiace. Continuo a parlare di tuo fratello.»

«No, no. Non c’è problema.» Mi prese la mano e me la strinse. «Questo è un allenamento, non c’è bisogno di scusarsi. Non sono seccato. Ma se questo fosse un vero appuntamento, allora parlare di Cletus e chiedersi cosa penserà del tuo vestito mi seccherebbe alquanto. Durante un appuntamento, voglio che la donna pensi solo a me. Ha senso?»

Annuii, perché aveva senso. «Come, tipo, a me non piacerebbe, se questo fosse un vero appuntamento, che tu continuassi a parlare di altre donne.»

«Esatto.» Riportò la mia mano sul suo braccio. «Meglio mantenere la conversazione solo su voi due.»

Riflettei sulla questione mentre camminavamo. «Grazie, Billy.»

«E per cosa?» Aprì le doppie porte per me, posandomi una mano in fondo alla schiena per invitarmi a entrare. Il corridoio era gremito di persone, ma io le notai appena.

«Grazie perché fai questo e per il consiglio. Grazie di aver sacrificato il tuo venerdì sera.»

Billy mi coprì le dita sul suo braccio con la sua mano. «Nessun sacrificio, Jennifer.»

«Immagino non sia un piacere.»

Lui fece un altro sorrisetto e mi rivolse un’occhiata incredula.

«Cosa? Cos’ho fatto stavolta? Hai qualche altro consiglio?» Dovevo sapere. Speravo che la serata fosse piena dei suoi consigli, in modo da essere una vera esperta quando fosse venuto il momento di un vero appuntamento.

Il sorrisetto di Billy svanì mentre i suoi occhi azzurri e penetranti si muovevano sul mio viso. Se l’avesse fatto appena la settimana scorsa, credo che sarei svenuta di colpo, mortificata, terrorizzata e sicura del mio fallimento.

Ma in una settimana erano cambiate così tante cose. Non lo temevo più. Stavo cambiando, stavo diventando più coraggiosa. Per cui sostenni direttamente il suo sguardo azzurro ghiaccio e alzai le sopracciglia per incoraggiarlo.

«Puoi dirmelo, qualunque cosa sia» sussurrai con entusiasmo, avvicinandomi a lui. «Come ho detto, ogni consiglio è ben accetto.»

Finalmente, lui disse: «Non hai proprio idea di quanto tu sia bellissima, vero?»

Io lo fissai a bocca spalancata, perché non era quello che mi aspettavo dicesse.

Ma prima che potessi riprendermi, una voce severa alla mia sinistra si intromise nella conversazione. «No, non ne ha la più pallida idea.»

Mi girai e trovai Cletus in piedi accanto alla mia spalla. Sorpresa, feci un passo incerto di lato, per poterlo guardare meglio. E quello che vidi mi stupì.

La sua mascella era serrata.

La sua bocca era piegata in una smorfia torva.

E gli occhi di Cletus, di un azzurro pericoloso e fiammeggiante, guardavano in cagnesco suo fratello.