Capitolo 17

“Gli uomini cambiano, sì, e il cambiamento arriva come una brezza che increspa le tende all’alba, e arriva come il profumo furtivo dei fiori di campo nascosti tra l’erba.”

- John Steinbeck

Cletus

«Ok, ora che siamo solo noi tre, voglio sapere.» Jessica si girò sul suo sedile e sollevò le sopracciglia nella mia direzione. Era un’alzata di sopracciglia entusiasta, per cui sapevo che le prossime parole che le sarebbero uscite dalla bocca sarebbero state una domanda. «Cosa c’è tra Jennifer Sylvester e Billy? O sta con Beau, invece? O, cosa sta succedendo?»

Incrociai lo sguardo di Duane nello specchietto retrovisore. Stava guidando la mia nuova macchina da Nashville. Jess era seduta di fianco a lui nel sedile anteriore a panca e io viaggiavo su quello posteriore, come se avessi l’autista. Gli altri, inclusa la signorina in questione, erano già partiti per Green Valley sull’aereo di Sienna.

Duane era - di gran lunga - il migliore pilota della famiglia. Io sospettavo persino del Tennessee. Ogni volta che mi serviva una fuga veloce su quattro ruote, lui era il mio uomo. Il che significava che quando sarebbe partito per l’Italia e altre grandi avventure, sarei rimasto senza pilota per le mie fughe. Era un pensiero deprimente.

Duane si schiarì la gola, si agitò un poco sul suo sedile, ma non disse nulla. Riportò velocemente la sua attenzione sulla strada.

Non mi era d’aiuto. O, forse, anche lui era curioso.

«Dai, Cletus.» Jessica allungò il braccio oltre il sedile e mi spinse il ginocchio con la punta delle dita. «Devo tirare a indovinare? Non farmi tirare a indovinare.»

«Non ha alcun legame affettivo né con Billy né con Beau.»

«Ne sei sicuro?» Insistette Jessica. «Perché Beau sembrava parecchio amichevole.»

Spostai l’attenzione sul finestrino al mio fianco per non permettere a Jessica di scorgere il mio malcontento alla notizia. La verità era che da settimane ero assillato da pensieri su Jennifer.

Io ero… attratto da lei. Fisicamente. Moltissimo.

La sua immagine infestava i miei sogni notturni e a occhi aperti. La maggior parte era del genere indecente, perché il corpo di quella donna mi portava a distrarmi. Ma alcune fantasie erano solo immagini di noi insieme, a parlare e toccarci. Ci toccavamo sempre.

Mi stavo ossessionando per lei sin dalla nostra ultima lezione. Non aiutava la situazione il fatto che ci avesse recapitato i migliori muffin mai concepiti nella storia dei muffin.

«Beau è amichevole con tutti.» Imposi alla mia voce di mantenersi calma e controllai l’espressione sul mio viso prima di voltarmi di nuovo verso Jess.

«Allora che ci faceva con noi stasera? E l’altro giorno a casa?»

«È un’amica di famiglia.»

Quella donna mi aveva decisamente fatto qualcosa. Il suo incantesimo mi spingeva a fare e dire cose senza aver prima riflettuto e premeditato. Avevamo fatto conversazione. Avevamo parlato di eventi, e delle nostre vite. Io condividevo cose su me stesso senza che stessi conducendo una partita mentale a scacchi o avessi ponderato come sfruttare al meglio le informazioni che mi comunicava a mio vantaggio.

Volevo stare con lei, passare del tempo in sua compagnia per il solo piacere della sua compagnia, un sentimento che era sia nuovo e inusuale che assolutamente sgradito.

Jessica affilò lo sguardo. «Da quando?»

«I nostri nonni erano amici. Quindi immagino sia un’amica di famiglia da quando Don Donner e nonno Oliver si incontrarono per la prima volta.»

Jess sbuffò d’impazienza e mi schiaffeggiò il ginocchio. «Fai l’evasivo, Cletus. E quando fai l’evasivo, significa che non vuoi parlare di qualcosa. E quando non vuoi parlare di qualcosa, di solito significa che quel qualcosa è davvero interessante.»

Annuii con un cenno austero. «Una teoria molto affascinante.»

Jessica mi scrutò per qualche istante e io ricambiai il suo sguardo ficcanaso con uno amichevole dei miei.

Ma poi Duane, il traditore, disse: «Credo che Cletus stia aiutando Jennifer.»

«Duane.» Il mio tono trasudava avvertimento; scossi la testa.

Lui si rifiutò di guardarmi negli occhi dallo specchietto retrovisore. Invece, sorrise e aggiunse: «Billy l’ha portata fuori qualche settimana fa, per un appuntamento di prova o qualcosa del genere. Lei non ha mai avuto un ragazzo, non credo. Hai visto come i suoi genitori la tengono rinchiusa come Raperonzolo. Secondo me Cletus la sta aiutando a capire un po’ di cose, così che lei possa fuggire dalla follia dei suoi genitori».

Fissai a bocca aperta il retro della testa di mio fratello. «Beh! Non sapevo fossi diventato la pettegola del villaggio.»

Alzò le spalle. «Il prossimo mese partiamo per l’Italia, Cletus. A chi mai potremmo dirlo? E poi, magari Jess può dare una mano.»

«Voglio dare una mano!» Jessica saltellò sul sedile, rivolgendomi un sorriso enorme e supplichevole. «Ti prego, lascia che ti aiuti. Ho sempre pensato che lei fosse così carina e dolce. È un vero peccato che sua mamma la vesta come una banana. Ma adesso quanti anni ha? Ventitré?»

«Ventidue» la corressi.

«Ventidue anni sono troppi da vivere sotto il controllo dei propri genitori. Era ora che si liberasse. Potrei insegnarle un mucchio di cose. Ti prego, Cletus? Ti prego?» Jessica ripiegò le dita sotto il mento e mi guardò sbattendo le ciglia.

Io mi corrucciai, per Jessica e per la sua proposta inaspettata. Non mi piacevano le proposte inaspettate, come regola, ma Jessica era una brava persona. E aveva, senza dubbio, spina dorsale.

«Non sto dicendo di sì,» alzai un dito ammonitore tra noi, «ma, se lo facessi, cosa le insegneresti per prima cosa?»

Gli occhi di Jessica si sollevarono in su, verso destra, come se stesse recuperando delle informazioni conservate in qualche scompartimento femminile segreto del suo cervello.

Nel frattempo, io pensavo alla mia passeggiata con Jennifer lungo il ruscello Yuchi. Non avevo programmato di parlarle del mio fratellastro. Era semplicemente… successo. La relazione clandestina di suo padre, il suo disprezzo verso i voti nuziali, mi ricordavano il mio di padre fedifrago.

Quei due erano una bella coppia di stronzi.

«Non dare di matto» ordinò Jessica, riportando infine il suo sguardo nel mio.

«Perché dovrei dare di matto?»

«Perché, in tutta sincerità, la prima cosa che io farei sarebbe procurare a quella donna un vibratore.»

Nella macchina scese un silenzio scioccato. O per lo meno, io ero scioccato ed ero quasi sicuro che lo fosse anche Duane. Ma poi Duane esplose in una risata. Jessica non rise. Lei sorrideva speranzosa. Io non risi. Ero afflitto da improvvise e vivide immagini di Jennifer mentre si dava piacere.

Quel suggerimento era pessimo quasi quanto il sentito appello di Claire di qualche ora prima che Jennifer cercasse l’amore piuttosto che l’esperienza, come anche il materiale visivo che quella conversazione aveva evocato. Dannazione.

«Ascoltami un momento.» Jessica agitò le mani tra noi, come per comunicarmi di raffreddare i bollori. «Se ripenso a quando ero un’adolescente e non avevo la più pallida idea di cosa diavolo volessi, vorrei che qualcuno mi avesse dato un vibratore.»

«Io ti avrei dato ben più di quello» borbottò Duane.

«Oh buon Dio» mormorai e alzai lo sguardo al cielo.

Jess spostò l’attenzione su Duane, con il suo sorrisetto che cresceva allusivamente, poi ritornò su di me. «Dico davvero. Le ragazze non sanno niente di queste cose. Mia mamma non me ne ha mai parlato, per cui ti garantisco che nemmeno Diane Sylvester ha mai detto una parola al riguardo a Jennifer. Lei è stata educata in casa, per cui probabilmente ne sa ancora meno. E suo padre controlla le sue ricerche online sia sul portatile che sul cellulare. Se ne vantava sempre con noi insegnanti. Sono convinta che quell’uomo sia un sociopatico. Al confronto dei Sylvester, i miei genitori sembrano dei progressisti.»

Questa notizia non mi sorprendeva. La differenza principale tra mio padre e Kip Sylvester era che Darrell non aveva mai finto di essere un pio santarellino. Il padre di Jenn, invece, spargeva ovunque il suo letame santimonioso. La mamma una volta mi aveva confessato, con foga e furore, che Kip spesso citava in modo errato la Bibbia per tenere sotto controllo i figli. Jennifer e Isaac avrebbero meritato di meglio che crescere nell’ipocrisia bigotta del loro padre. E la loro madre meritava di meglio che essere tradita da quell’uomo.

«I tuoi genitori sembrano persone molto gentili.» Mi sporsi in avanti sul mio sedile. «Lo sceriffo mi è sempre sembrato un uomo molto ragionevole.»

«Tu gli piaci, Cletus.» Duane mi lanciò un’occhiata e poi tornò a concentrarsi sulla strada. «Il papà di Jess ti stima moltissimo.»

Fui sorpreso da quella notizia, non perché lo sceriffo mi avesse mai trattato male, al contrario. Mi aveva sempre trattato in modo imparziale, come trattava tutti gli altri.

Una strana fitta di senso di colpa mi si risvegliò tra le costole. Stavo trafugando prove dall’ufficio dello sceriffo James da mesi, per poi riposizionarle in ubicazioni strategiche assieme a elenchi contraffatti di attività di riciclaggio di denaro sporco e strozzinaggio.

A mia difesa, gli elenchi erano un resoconto accurato delle reali attività di riciclaggio di denaro sporco e usura del club di biker, ma i Wraiths erano disorganizzati in maniera irritante. La loro contabilità non aveva alcun metodo. Per cui io avevo riportato nero su bianco i dettagli per far sembrare il club più organizzato. Le prove rubate erano un bel fiocco con su scritto “intralcio alla giustizia” che serviva per tenere insieme il tutto.

Senza la mia interferenza, le prove rubate da sole avrebbero potuto condurre all’arresto di diversi membri degli Iron Wraiths. Quegli arresti sarebbero stati delle piccole vittorie per lo sceriffo. Ma si sarebbe trattato di vittorie momentanee, perché nessuna delle prove avrebbe condotto il club alla rovina. Io guardavo il quadro nell’insieme. Aiutare il club a sembrare più organizzato nelle sue attività criminali avrebbe portato alla loro rovina, perché un’accusa di associazione a delinquere non avrebbe solo rimosso il capo dell’organizzazione, ma chiunque fosse coinvolto.

Sarebbero andati tutti in prigione per tanto, tanto tempo quando io avrei terminato l’opera. Ogni. Singolo. Membro.

Anche Isaac… Questa realizzazione mi fece fermare a riflettere.

«Cletus?»

Tornai a prestarle attenzione, dato che il sorriso supplichevole di Jessica non si era spento.

«Forse penserai che sia pazza, ma non lo sono. Ho ragione. E tu sei intelligente. Quindi sai che ho ragione. Dai un pesce a un uomo e lo sfamerai per un giorno, ma...»

«Dai un vibratore a una donna e godrà per tutta la vita. Ho capito.» Zittii Jessica con un cenno della mano, guardando fuori dal finestrino alla mia sinistra, mentre ponderavo il suo consiglio.

Mi sembrava un passo importante. Non volevo terrorizzare quella donna con giocattoli sessuali. «Non saprei, Jess. Non ho la più pallida idea di come potrebbe reagire. Mettiti nei suoi panni.»

«Vuoi aiutarla? La chiave per farlo è emanciparla.»

«Lo so.» E lo sapevo davvero. Per questo il secondo compito a casa per lei era stato di apportare dei cambiamenti, ma solo i cambiamenti che lei desiderava.

Jess continuò a insistere. «È già cambiata. Il modo in cui si veste, in cui si pettina, in cui dice la sua. Ed è magnifico, è bellissimo da vedere. Sta prendendo il controllo della sua vita un passetto alla volta.»

«Io che mi presento con un dispositivo di stimolazione genitale, non mi sembra un passetto.»

«Allora lascia che lo faccia io.»

La guardai di traverso. «Cosa?»

«Lascia che lo faccia io. Tu la porti da Big Todd e io l’accompagno dentro. Così si potrà anche scegliere il colore!»

Gemetti, mentre un nuovo e vasto assortimento di immagini luride mi assaliva la psiche: Jennifer in bagno, in piedi, che usava il suo giocattolino; Jennifer in bagno, in piedi, mentre usava il suo giocattolino davanti allo specchio; Jennifer in bagno, in piedi, mentre usava il suo giocattolino davanti allo specchio mentre io le stavo dietro e… Gemetti di nuovo.

La domanda non era se Jennifer avrebbe saputo gestire o no la novità di un vibratore. La vera domanda era: ne sarei stato capace io?

«Cosa pensi di fare con quella?»

«Come scusa?»

Lanciai un’occhiata a Shelly. La ragazza stava in piedi di fronte a me, con le braccia conserte, e il suo sguardo acuto si spostava tra il mio volto e le mie mani.

«La chiave dinamometrica. Cosa ci vuoi fare con quella?»

Lanciai uno sguardo alla chiave a bussola nella mia mano e scoprii che Shelly aveva ragione. Non era una chiave a bussola. Avevo preso per sbaglio la chiave dinamometrica.

Maledizione. Dovevo concentrarmi.

Gli ultimi due giorni erano stati uno strazio continuo. Non solo Jessica era stata un tormento, ma anche il seme dell’idea che lei aveva piantato nel mio cervello aveva preso vita propria.

Sabato sera avevo passato l’intero viaggio di ritorno a Green Valley a pensare a Jennifer. A chiedermi se sarebbe andata in pasticceria per preparare per il giorno successivo o sarebbe tornata a casa. Mi ero torturato immaginandola mentre si infilava nel letto. Cosa avrebbe indossato? Cosa avrebbe sognato? Dormiva abbastanza? Stava facendo giardinaggio con addosso una salopette? Cosa aveva piantato nel suo giardino? Era tornata a passeggiare nei boschi?

Domenica piovve, e io sapevo che le piaceva leggere quando pioveva. Aveva letto un libro? Quale libro? Le era piaciuto? Cose ne aveva pensato?

Domenica, dopo la messa, Jessica si era presentata a casa e non aveva smesso di assillarmi finché non avevo acconsentito a seguire il suo piano. Ma non avevo accettato per la sua insistenza, avevo accettato perché era un buon piano. Era tempo che Jennifer allargasse i propri orizzonti. Era tempo che uscisse dal conforto di quanto già conosceva. Questo era un grosso passo.

Prima Jennifer Sylvester avesse imparato a stare in piedi sulle sue gambe, prima avrei potuto districarmi dalla sua vita e ristabilire la normalità e la calma nella mia. Stavo continuando a ossessionarmi.

Nel frattempo cose importanti – come mettere l’ultimo chiodo alla bara degli Iron Wraiths, la sistemazione del matrimonio di Jethro a cui mancavano due settimane, il Ringraziamento e la preparazione per la mia caccia al cinghiale in Texas – richiedevano la mia attenzione. Senza contare poi il mio lavoro ordinario, progetti vari ed eventuali, la gestione del fondo patrimoniale di mia mamma, assicurarmi che Shelly fosse adeguatamente addestrata e pronta prima della partenza di Duane e stare a gestire contemporaneamente il caratteraccio di Beau, e tutta l’altra carne che avevo al fuoco.

Gettai la chiave dinamometrica nel carrello degli attrezzi, dove atterrò sferragliando violentemente. «Le stavo solo facendo una visita.»

«Sei passato a fare visita alla tua chiave dinamometrica?» Shelly chiese, scettica.

«Sì. Ne abbiamo passate tante insieme.»

Continuò a scrutarmi. Lei era fatta così. Non si accigliava spesso e sorrideva ancora meno. Era calma e composta e brutalmente schietta.

«C’è qualcosa che non va in te.» Il suo tono era piatto, ma non meccanico. Era un’osservazione, non un giudizio.

Annuii, ma non risposi. La franchezza di Shelly Sullivan non mi metteva in agitazione, non come succedeva a Beau, che sembrava prenderla sul personale.

C’era ancora del lavoro da fare e il grande orologio sopra le scale indicava che l’orario di chiusura era passato da un pezzo. La mia produttività recentemente era stata deludente, eppure avevo passato tutta la giornata a fissare l’orologio, ansioso che arrivassero le otto in punto. Jennifer non sapeva quali macchinazioni avessi in serbo per la serata, dato che non l’avevo avvertita. Era una di quelle situazioni in cui si richiedeva un attacco a sorpresa.

«Devo andare.» Mi raddrizzai da dove ero piegato, sul mio banco di lavoro. «Puoi chiudere tu?»

Shelly annuì, pulendosi le mani con un panno. Fece un passo in avanti e usò il panno per recuperare la chiave dinamometrica che avevo gettato con noncuranza e la sistemò al suo posto nel carrello degli attrezzi. Poi ordinò velocemente gli inserti della chiave dal più piccolo al più grande e posizionò l’attacco in un angolo perfettamente perpendicolare.

Io guardai sorpreso Shelly intenta a riordinare, poi mi guardai intorno nel negozio con occhi nuovi, nati dal sospetto. Il garage non era immacolato, ma poco ci mancava. Ogni cosa era stata messa via al suo posto, in maniera perfettamente ordinata. I miei occhi tornarono veloci su di lei, con un’idea che mi balzava in mente. «Shelly?»

«Sì?»

«Perché sei ancora qui?»

La mascella le si contrasse e deglutì, i suoi occhi erano ancora incollati al carrello degli attrezzi che stava sistemando. «Aspettavo che finissi.»

«Perché?»

Shelly alzò il suo sguardo distaccato su di me. «Così, senza motivo.»

Shelly era davvero una donna bellissima, bellissima e fredda. Non bellissima e dolce, come Jennifer. Shelly era brutalmente schietta e la sua schiettezza era un’armatura, per tenere gli altri a debita distanza.

Invece la schiettezza di Jennifer era a fin di bene, e scaturiva da sentimenti di fiducia e speranza.

Forse perché io stesso stavo combattendo con le mie personali ossessioni, avvertii una corrente invisibile di tumulto provenire da Shelly quella sera, nonostante all’esterno desse a vedere solo distacco.

«Shelly.» Addolcii il tono. Questo la spinse a guardarmi a occhi stretti. «Stai aspettando che io finisca per mettere tutto in ordine, vero? Hai bisogno che tutte le cose siano al loro posto?»

Lei strinse i denti. I suoi occhi caddero al suolo e poi si rialzarono. L’intensità dell’ostilità nel suo sguardo mi fece sobbalzare.

«Non ne ho bisogno.» Il suo tono trasudava insolenza, era sulla difensiva.

Alzai le mani, volendo rassicurarla che non ero tipo da giudicare. E in più, non mi importava. Poteva riordinare quanto voleva, se ne aveva bisogno. Ma ero anche altamente frustrato con me stesso. Non riuscivo a credere di aver lavorato con Shelly per quasi due mesi senza essermi assolutamente reso conto che soffriva di un disturbo ossessivo compulsivo. Come avevo potuto non notare una cosa tanto ovvia?

Cos’altro non stavo notando? Cos’altro non stavo vedendo? Queste erano cose che avrei dovuto sapere riguardo la mia futura…

Il mio mondo ben ordinato era preda del caos, disfatto da una pasticciera di bassa statura.

«Ora vado.» Mi allontanai. «Tu fai quello che devi, dopodiché sentiti libera di mettere tutto in ordine come preferisci, oppure no.»

Parte dell’ostilità nel suo sguardo torvo si dileguò e lei annuì con un cenno.

Lasciai Shelly alle sue pulizie, uscii direttamente dal garage senza passare a controllare l’ufficio. Ero inquieto e irritabile e indossavo ancora la mia tuta da meccanico coperta di grasso. Non potevo farci niente, per cui avrei dovuto aprirla e legare le maniche attorno ai miei fianchi. Altrimenti avrei lasciato macchie di grasso in tutta la macchina.

Nel tragitto verso la pasticceria mi costrinsi a rispettare i limiti di velocità. Non avevo alcuna ragione di affrettarmi. Proprio nessuna. Con Duane e Jess ci saremmo incontrati da Big Todd, il negozio di articoli per adulti meno squallido di tutta Knoxville, alle nove e mezza. Non ero nervoso. Ero… ansioso al posto di Jennifer.

Nonostante avessi rispettato il limite di velocità, arrivai con cinque minuti di anticipo. Odiavo arrivare in anticipo. Era come dover aspettare due volte per lo stesso evento. La macchina di Jenn era parcheggiata nel posteggio più vicino alla porta della cucina e riuscivo a vedere la sua ombra muoversi all’interno. Piuttosto che aspettare l’orario concordato, andai alla porta sul retro e bussai.

Sentii dei rumori da dietro la porta e ignorai l’impennata euforica del mio battito cardiaco. Mi piaceva il suo aspetto fisico, tutto qui. Non ero emozionato all’idea di vederla. Non avevo contato le ore che mancavano al nostro incontro. Non vedevo l’ora che il nostro accordo giungesse a conclusione. Non avevo bisogno di lei nella mia vita a distrarmi.

L’avrei portata da Big Todd. Lei si sarebbe comprata un sex toy. Lei si sarebbe sentita emancipata. L’avrebbe usato, e io non avrei pensato a lei mentre lo usava. E poi, con un pizzico di fortuna, questo passo importante sarebbe stato l’ultimo aiuto di cui avrebbe avuto bisogno da parte mia. Avrebbe tenuto testa a sua madre, detto quello che pensava e avrebbe goduto nei giorni di lavoro.

… goduto del frutto del suo lavoro. Non goduto goduto. Del suo lavoro. Godere del frutto del suo lavoro. Già.

Jennifer aprì la porta e io feci un passo indietro, prendendo una profonda boccata d’aria e incrociando le braccia sul petto. Ero pronto a farla finita con quella storia.

«Ciao, Cletus.» Lei sorrise, dolce e vulnerabile. I suoi occhi grandi e luminosi si spostarono nei miei e il suo intero volto si accese, come illuminato internamente da raggi di sole e polvere d’angelo.

Smarrii il filo dei miei pensieri perché fu rimpiazzato da uno solo: È troppo presto. Non sono pronto.

«Vieni dentro. Ho dei biscotti.» Jennifer mi prese per un braccio e mi tirò nella cucina, poi andò a chiudere la porta alle mie spalle. «Fa freddo fuori, perché non hai la giacca?»

«Io non...»

«Oh, non importa.» Jennifer mi girò intorno per mettersi davanti a me e mi strofinò le mani su e giù lungo le braccia. Poi intrecciò le nostre dita insieme e si portò i miei palmi alle sue guance, premendoveli contro. «Santo cielo, stai gelando.»

Alzò il viso e mi sorrise, tremando, condividendo il suo calore come se io ne avessi diritto. La fissai. In verità fissai le mie mani sul suo volto. Stavo provando un forte senso di déjà-vu. Avevo fatto un sogno così, in cui le tenevo il volto tra le mani e poi ci eravamo divorati a vicenda.

L’istinto mi fece leccare le labbra e il movimento attirò i suoi occhi sulla mia bocca.

Il suo sorriso vacillò.

Io le sollevai il mento.

Lei me lo permise.

Il suo respiro cambiò.

Feci un passo in avanti.

Odorava di vaniglia e noce moscata.

I suoi occhi si chiusero lentamente.

Io mi meravigliai di quanto fosse bella la sua fiducia in me, mentre la mia bocca rivendicava il possesso della sua.