4.
Erano da poco passate le quattro del pomeriggio. Il caldo incombeva fra le vetture lucide di sole, le cartacce e i binari ferruginosi. Ma non fu precisamente questa l'immagine più netta che Robby percepì muovendo i primi incerti passi sul suolo di Rimini.
Faceva caldo, probabilmente attorno ai trentacinque-trentasette all'ombra. E questo caldo appiccicoso e denso, un caldo sporco, praticamente nient'altro che la traspirazione evaporata nell'atmosfera di quelle decine e decine di migliaia di bagnanti che in quello stesso momento prendevano il sole sulla striscia di sabbia della riviera, ecco, un caldo umano, non un caldo puro, e per questo già istintivamente insopportabile - benché tutto ciò costituisse una sensazione grave e a suo modo importante, non era minimamente paragonabile a quell'altra immagine-sensazione che gli aveva folgorato il cervello pochi istanti prima, mentre scendeva dalla carrozza del convoglio: "Ma questo è già un set." C'era dunque qualcosa di intimamente "artificiale" in ciò che aveva intorno, "totalmente" predisposto quasi come quel caldo opprimente e animalesco che fiutava nell'aria immobile della stazione. Era tutto non naturale. Tutto troppo dannatamente perfetto. Come sopraffatto da questo pensiero si arrestò all'inizio del sottopassaggio. Estrasse dalla tasca interna della giacca un kleenex e s'asciugò il viso. Spinse lo sguardo verso il primo binario per cercare Tony. Aveva un appuntamento preciso. Ma aveva già sforato di due ore. Centodieci minuti per l'esattezza.
Venne urtato e poi trascinato dalla calca nel sottopassaggio. Si trovò a sbattere contro la schiena scamiciata di una signora dai capelli corti e ossigenati color del marmo. La signora trasportava a fatica una valigia e una borsa voluminosa. Robby si scusò, ma la donna proseguì noncurante il suo cammino ondeggiando sotto il peso delle sacche e delle spinte della folla. Ai lati Robby era premuto da un vecchio che teneva per mano un ragazzino, e da una signora con il capo ricoperto da un fazzoletto bianco a pois gialli limone. La donna gli allungò un colpo con il gomito. Robby bestemmiò. La guardò feroce. Quella proseguì come seguisse un pensiero fisso, la fronte aggrottata e le sopracciglia contorte. Aveva braccia nude, flosce, bianchicce, rigate dal sudore; braccia larghe di contadina, braccia di pastafrolla. Attorno altra gente, ragazzi, ragazze, signore ancora giovani, zaini, valigie, sportine da supermercato, passeggini, freezer portatili, canestri da pic-nic, ombrelloni.
E tutti premevano addosso a lui ora sulle caviglie, o sulla schiena, o alla bocca dello stomaco.
Finalmente intravide la luce del sole che rischiarava l'uscita dal sottopassaggio. Prima di poterla raggiungere, si beccò un colpo in mezzo alle gambe. Guardò in basso e vide un bambino che reggeva una bottiglia di acqua minerale. Ebbe voglia di spaccargli la testa. Continuava a procedere ondeggiando e il traguardo di luce, là in fondo, sembrava irraggiungibile. Altre persone, parenti o amici, si erano ammassati ai lati della scalinata ingombrando così l'uscita. Non appena riconoscevano qualcuno, gli si gettavano al collo, lo abbracciavano. Le valigie prendevano a levarsi sulle teste degli altri. Il flusso dei viaggiatori così non soltanto defluiva all'esterno come i rivoli di un piccolo ruscello agonizzante percorrono il greto di un torrente, ma si gonfiava sempre più nello sbarramento della scalinata simile a una diga. Le grida della gente divennero ossessionanti, l'odore della grassona insopportabile. La macchina da scrivere che portava nella mano sinistra s'intrappolò nella tracolla di una sacca. Robby tirò, ma una forza uguale e opposta alla sua rispose. Sentì il braccio dolente per lo sforzo. Fu sul punto di mollare la presa. Diede uno strattone stringendo i denti e si liberò. Vide qualcuno, a un paio di metri da lui, vacillare. Gli augurò sinceramente di cadere e di essere calpestato fino alla fine dei suoi giorni.
Raggiunse l'atrio della stazione. Appoggiò a terra la sacca e la macchina da scrivere. Accese una sigaretta. Aspirò il fumo talmente forte che la testa prese a girargli e lo stomaco brontolò strizzato come una spugna. Gettò la sigaretta. Era un sacco vuoto. Non mangiava dalla sera prima.
Attorno a lui bivaccava un gruppo di ragazzi dai capelli lunghi fino alle spalle vestiti solamente con canottiere e jeans ora tagliati al ginocchio, ora ridottissimi a guisa di shorts, ora lunghi e stretti al polpaccio. Un paio tra loro portava in testa cappellacci di cuoio grezzo cuciti con fettucce e laccetti di pelle. I ragazzi, una decina in tutto, erano distesi gli uni accanto agli altri e rollavano sigarette nello stesso identico modo in cui i coetanei di Robby di mezza Europa, e lui stesso, lo avevano fatto ad Amsterdam, al Vondel Park o al Dam, quindici anni prima: gli stessi gesti, la stessa maniera rituale di tranciare il tabacco erboso con le unghie lunghe e affilate, gli stessi sacchettini addirittura - del Samson, del Drums, del Clan, dell'Old Homburg… Dov'era allora la differenza fra quegli altri ragazzi dei primi anni settanta e questi? Gli stessi zoccolacci ai piedi, le sacche di stoffa indiana, gli orecchini, i piedi sozzi, le guance sporche di barba, i gilet di stoffa indossati sulla pelle nuda. Erano comparse o erano veri?
La voce di Tony lo chiamò in quel preciso momento. "Sono qui! Forza!" Robby si voltò verso l'uscita e vide Tony, in piedi sulla sua macchina che agitava le braccia sporgendosi dalla capote abbassata. Un vigile gli si era avvicinato minaccioso. Tony continuò a sbraitare: "Spicciati! Sali, dai!" Robby afferrò la portatile e la sacca e corse verso l'uscita. Non fece in tempo a salire che già Tony aveva ingranato la marcia e stava schizzando via.
"Ho avuto un sacco di grane, sono stravolto, non mangio da non so quanto, la mia giacca di lino è ridotta a uno straccetto da Porta Portese e quel cazzo di treno ha cominciato a fermarsi subito dopo Roma. E a Foligno…".
"Per chi mi hai preso?" lo interruppe burbero Tony. "Per l'ufficio reclami delle Ferrovie?".
"No, è che… Ti stavo spiegando i motivi del mio ritardo.".
"E a me che importa?" Robby mugolò qualcosa fra i denti. Probabilmente un vaff.
"E allora, come stai?" riprese Tony sorridendo e toccandolo sulle spalle. Aveva scherzato. Non era affatto un burbero. Era uno a cui piaceva scherzare. Soprattutto con il suo vecchio amico Robby.
"Bene. Sto bene," tagliò corto Robby.
"Da domani si comincia. Sei in forma?" Gli appoggiò una mano sulla coscia. Robby la tolse con una smorfia. "Voglio mangiare.".
"E vorrai anche bere." Esitò un istante. Si fece premuroso. "Come ti va con l'alcool?" Robby socchiuse gli occhi annoiato. Finse di guardare fuori dal finestrino con attenzione. "Pare stia tornando di gran moda.
"Ti trovo in gran forma," ridacchio Tony.
Con il miglior tono blasè che conosceva, Robby gli terminò l'osservazione con un "Nonostante tutto". E abbassò la testa e allargò le braccia in una grande riverenza.
Tony abitava presso una zia in un piccolo condominio a tre piani costruito nei tardi anni cinquanta come si poteva facilmente dedurre osservando le colonnine decorate di mosaici multicolori che ornavano l'ingresso principale e quella piccola vasca con pesci rossi e ninfee e un ippocampo in bronzo alto mezzo metro dalla cui bocca fuoriusciva ormai solo un rivoletto di acqua e non più un getto zampillante polverizzato attorno dalla pressione.
Il condominio era situato a un duecento metri dal mare, oltre il sottopassaggio della ferrovia che taglia in due tutti i grossi centri della costa adriatica. La zona, pur non appartenendo alla privilegiata prima linea, era fitta di pensioni a conduzione famigliare dai nomi quasi esclusivamente femminili:
Pensione Iris, Pensione Elvira, Pensione Afra, Pensione Tilde, Pensione Gabriella, Pensione Dolores, Pensione Ebe…
Tony portò Robby nell'appartamento. Dopo che ebbero mangiato, appesantiti dalle due bottiglie di sangiovese, si stesero in camera di Tony, Robby in poltrona e l'altro sul letto.
"Allora, qual è la tua grossa idea?" attaccò Robby aspirando finalmente con piacere un'ampia boccata di fumo.
"E la sceneggiatura?".
"L'ho portata, l'ho portata con me. Sta bene e non vede l'ora di crescere.".
"Bene… Mi spiace, sai che non potrai fermarti qui.".
"Che vuoi dire?" Robby si fece nervoso. "Come non posso restare qui! E dove vado?" Tony mantenne la sua calma. Aveva, naturalmente, previsto tutto. "Per i prossimi tre giorni potrai stare al Meublè Kelly qui di fronte. Poi cercheremo un'altra sistemazione. Credimi, non è facile trovare una stanza singola in alta stagione. Ho fatto del mio meglio.".
"Ma io sono scemo! Sono il più grande imbecille di questa terra. Il più idiota!" Robby si diede un pugno sulla fronte, e poi un altro, prima con la mano destra e poi con la sinistra. "S'è mai visto uno più rincretinito di me? Ho quasi trent'anni, ho lasciato perdere tutte le mie manie artistiche del cazzo, sono un buon sceneggiatore di fumetti, o.k., o.k., non è gran che, visto che ero partito per fare il grande autore, ma ora mi sta bene, ho un po' di lira, e niente! Mi imbarco in questa storia con il più perfido amico che abbia mai conosciuto!".
"Non farla tanto lunga. Sarà un ottimo film!".
"Un ottimo film, dice!" Aveva cominciato a gironzolare per la stanza andando avanti e indietro come un robot. Non appena cozzava contro il muro faceva marcia indietro e ricozzava dall'altra parte. "Un ottimo film! Ma se non abbiamo una lira. Se sono dieci mesi, venti, che scriviamo questa sceneggiatura e nessuno, nessuno si fida a darci il becco di un quattrino! Ma perché sono venuto qui! E poi mi sbattono in uno squallido albergo, per giunta! Camera e cesso sul pianerottolo e mogli traditrici e bambini e trucchi! Dio mio! La mia idiozia non ha limiti!" Tony lo guardò divertito: "Calmati, Robby… Sei il più grande scrittore di cinema da vent'anni e più a questa parte." Robby arrestò quella sua forsennata marcia muro a muro. Guardò l'amico così calmo e compassato, disteso sul letto, un braccio dietro la testa, le gambe accavallate. Fece un broncio e disse: "Sul serio?".
"Ma certo. Starei qui se avessi per le mani uno straccio di imbrattacarte a mio servizio?".
"Be', no… No, certamente.".
"E allora?".
"Allora un cazzo!" Robby precipitò di nuovo nell'isterismo. "E chi mi paga l'albergo? Avrei dovuto farmi le mie vacanzine con Silvia, in Spagna, altroché. E invece! Stupido! Stupido! Stupido!".
"Ti dirò una cosa, Robby," attaccò Tony, tirandosi su come per dare ancora più importanza alle sue parole. "Quando ci siamo conosciuti all'Istituto, tu mi stavi sulle palle, e sai perché?".
"Perché mi sbattevo più ragazze.".
"Perché tu sapevi tirar fuori una trama da qualsiasi cazzata ti dicessero. Sapevi imbastire in un'ora di lavoro dieci pagine fitte di dialoghi che raccontavano più di Guerra e Pace. Ecco perché mi stavi antipatico. Perché eri il migliore. E lo sapevi." Robby precipitò in poltrona sudato e sfatto. "Sono passati cinque anni, da allora. Faccio lo sceneggiatore di fumetti popolari. E mi pagano, per questo.".
"Ma puoi fare molto di più.".
"Senti, caruccio. Io non sono come te. Non ho una famiglia alle spalle che mi passa la lira per fare il contaballe. E non c'è lavoro per me. Ho scritto cinque sceneggiature e nessuno si è mai sognato di farne un film, mai!".
"E "Feeling"?".
"Lascia stare!" sbraitò Robby.
Tony conosceva, il dannato dente, dove far sbattere la lingua. "E "Feeling"?".
"Non ne voglio più parlare, mai più. E quello non è nemmeno il mio titolo! Mi hanno fregato il soggetto, o.k. Hanno fatto un film da un miliardo e mezzo, o.k. E allora? Io sono lo scemo che non ha depositato la sceneggiatura. L'ho pagata cara. Sbagli di gioventù. Me l'hanno fregato e basta.
Avevo ventitré anni, che ne sapevo di trovarmi in mezzo a un branco di iene pronte solo a spolparti?
Il produttore dice: non ne voglio sapere. Io me ne sono andato. Ha chiamato quei due paraculi, gli ha raccontato il soggetto, ha aperto il rubinetto e hanno montato il film. Punto e basta. Idiota me.
L'avvocato si è messo a ridere quando sono andato a chiedergli di avviare la causa. Mi ha dato dell'imbecille anche lui. Ecco, basta. Finita.".
"La tua idea era buona. È questo che volevo dirti." Tony si alzò dal letto. "Seguimi," disse deciso.
Raggiunsero la cucina. Sul tavolo erano rimasti gli avanzi del pasto, le bottiglie vuote, i piatti sporchi ripieni dei gusci dei crostacei, qualche fetta di pane sbriciolato. Tony invitò Robby a sedersi. Era un buon regista, Tony. Dava ordini, sapeva cosa voleva e dove intendeva arrivare.
Robby obbedì. Si sedette al suo fianco.
"Vuol whisky?".
"Un po' di vino." Tony stappò un'altra bottiglia, aspettò che Robby bagnasse il becco e infine parlò. "Fingi che questa tavola sia il cinema italiano. E che noi vi sediamo pronti per mangiare qualcosa. Siamo affamati, vogliosi, pieni di desiderio di mettere le mani su questa tavola, perché sappiamo che è la nostra vita.
Che il nostro futuro dipende da quello che troveremo qui. È il nostro mestiere. Abbiamo studiato per questo, ci siamo sbattuti per anni e anni. E non per meritare la gloria o il denaro o cazzate di questo genere. Ma semplicemente perché lo sentiamo nel sangue. Perché lo sapremmo fare meglio di altri. Perché abbiamo più idee, più testa, e forse perché abbiamo anche sofferto, per arrivare qui, più di tanti altri. Veniamo dal nulla. Nessuno ci ha obbligato a scegliere questa strada, però l'abbiamo seguita inventandocela giorno per giorno sulla base esclusivamente del nostro talento.
Non vogliamo rubare niente a nessuno. Portiamo soltanto noi stessi. I nostri progetti, le nostre storie, le nostre letture, i nostri sogni, le nostre donne, le nostre fantasie. Questa è la novità. Non siamo parassiti. Siamo organismi assolutamente efficienti. Se noi ci sediamo qua non è per arraffare quello che d'altra parte non c'è più, ma per portare qualcosa di nuovo. Mi segui?" Robby terminò il vino. Avrebbe voluto mandarlo al diavolo, ma in fondo Tony stava magnificamente recitando la parte della sua stessa gioventù, dei suoi anni d'apprendistato quando una quantità enorme della sua adolescenziale energia veniva sprecata e buttata al vento solo per cercare di capire chi cazzo fosse lui, Roberto Tucci, e cosa volesse dalla sua vita. Come avrebbe allora potuto dirgli vai a farti fottere? Non aveva anche lui desiderato le stesse cose, trascorso in cineteca, fin da ragazzo, tutti i suoi pomeriggi, trascurato la scuola per attraversare la città fin dove un qualche cinema aperto fin dal mattino proiettasse qualcosa, qualunque cosa? Non aveva sputato sangue per ottenere l'ammissione all'Istituto Superiore di Studi Cinematografici dopo uno, due, tre rifiuti consecutivi, anno dopo anno? E con che si era mantenuto quella sua prima giovinezza, se non con la speranza di entrare a far parte un giorno del sogno? Certo, lui, Robby, aveva mollato. Silvia non avrebbe potuto mantenerlo e passargli i soldi per il resto della sua vita. E allora benvenuto ai fumetti popolari, se questo serviva a tirare avanti. E a diavolo il resto! Ma in fondo quelle parole lo stavano scaldando. Stavano riaccendendo un fuoco, quel fuoco che aveva scaldato la sua vita fino a poco tempo prima.
"Bene," proseguì Tony, "Ci sediamo a questo tavolo. Però… Come puoi vedere non ci hanno lasciato più niente. Le bottiglie sono a secco, i piatti sono sporchi. Un po' di insalata affogata nell'olio.
Hanno fatto baldoria prima di noi. Hanno consumato tutto. Hanno divorato tutto. Non si sono preoccupati di rifornire il frigorifero. Non hanno coltivato l'orto. Non hanno messo il vino in cantina. Non c'è più niente." Si fece solenne: "Noi ci sediamo qui davanti ai miseri resti di quello che è stato un buon pranzo. Ciò che hanno preparato l'hanno divorato fino in fondo." Fece una pausa. "Siamo arrivati tardi. Però siamo arrivati. Siamo seduti qui. Abbiamo le nostre idee e le nostre provviste come quel vino che tu ora stai bevendo. Abbiamo coraggio. E allora se guardiamo bene su questa tavola vediamo che in fondo, poi, c'è qualcosa. Qualcosa che non apparirà a prima vista, qualcosa che va oltre la desolazione e lo smarrimento di questa tavola depredata. Qualcosa per cui nessuno darebbe niente… Guarda bene." Trascinato dall'enfasi di Tony, Robby cominciò a fissare il tavolo. Ma non scorgeva nulla di così importante. Niente su cui si potesse - attenendosi alla metafora di Tony - costruire qualcosa. Niente da cui partire:
"Allora? Hai visto?".
"No," disse Robby.
"Guarda bene. Immagina che questa tavola rappresenti il capitale. Il danaro necessario per produrre un film. Il nostro film.".
"Niente. Non c'è niente.".
"Guarda bene. Sforzati! Fai lavorare il tuo cervello!".
"Piantala con queste balle!".
"Guarda bene! La tua fantasia!" incalzò Tony.
Robby scattò in piedi furioso: "Merda! Non c'è niente!".
"Apri gli occhi bastardo!".
"Niente, niente, niente!".
"Guarda meglio! Avanti!".
"Cristo! mi farai impazzire. Non c'è un cazzo su questa tavola. Solo briciole!" Tony si alzò in piedi a sua volta. Lo abbracciò. "Lo sapevo che potevo fidarmi di te.".
"Come?" balbettò Robby sfinito.
"Hai visto giusto. Abbiamo le briciole. E dalle briciole partiremo. Questa è la mia idea." Robby ammutolì. Si scostò con fastidio dall'abbraccio e andò verso la porta per uscire. Si fermò sulla soglia. Si voltò indietro lentamente. Guardò il tavolo spoglio, guardò Tony che raccoglieva quelle briciole fino a riempirsi il palmo della mano, lo vide innalzarlo come un'offerta al cielo e, scuotendo la testa, disse: "Tu sei pazzo, Tony. Completamente pazzo.".
"Meublè Kelly", ultimo piano. Robby se ne stava da un po' disteso sul letto della cameretta ricavata nel sottotetto di quello che fino a dieci anni prima, si vedeva, era stato un buon albergo e ora invece faceva pietà. Non accese la luce per evitare che le zanzare arrivassero attratte dal suo sangue dolce.
Il caldo era insopportabile, il soffitto troppo basso, il letto troppo corto. E lui era là, disteso e confuso, incapace di prendere una qualsiasi decisione. Aveva lasciato sgarbatamente Tony dopo quella discussione e aveva raggiunto l'albergo desiderando solamente di farsi una doccia, gettarsi a letto e chiarirsi le idee. Le complicazioni erano iniziate immediatamente. Quello che doveva essere il padrone, un uomo maturo ma con un viso ormai decrepito fiorito di venuzze spappolate sulle guance e sul naso, non aveva registrato la prenotazione. Robby insistette e fece casino finché non arrivò un ragazzo, il figlio, che ammise di aver ricevuto la telefonata di Tony e di aver potuto riservare solo quella cameretta in cima alle scale. Mentre salivano, Robby notò un odore strano, stantio, che usciva dalle pareti, dal passamano della scala, dai legni del pavimento.
"Cos'è," disse.
Il ragazzo che lo accompagnava finse di non capire. Si guardò intorno facendo una smorfia come per dire: Io non sento niente. L'odore si fece più forte. Non era solamente il puzzo del legno vecchio, della polvere, dell'aria chiusa e viziata. Era qualcosa di diverso. Si fermò. "Non sente una puzza strana," domandò Robby, "come… di bruciato?" Il ragazzo cominciò a ridere. "Ah, non si preoccupi. E solo il fumo del mio cervellino fritto." Robby ridacchiò in modo inquieto.
La seconda seccatura fu sotto la doccia. L'acqua non usciva se non a piccole gocce fredde. Aspettò qualche minuto, poi sfinito chiamò il ragazzo. Venne così a sapere che in quasi tutta Rimini non era possibile fare una doccia fra le sei e le otto di sera poiché tutti i bagnanti tornavano in quell'ora alle pensioni e si preparavano per la cena. L'acquedotto municipale - così improvvisamente prosciugato - non era in grado di erogare l'acqua ai piani alti e, in certi momenti di punta, nemmeno a quelli bassi. Robby si immaginò migliaia e migliaia di persone come lui, mezze insaponate, con i capelli pieni di schiuma, sorprese nude e sole davanti a quel getto d'acqua che languiva. Si sedette sul water e aspettò fino alle otto e mezza.
E ora, disteso su quel letto, un pensiero fisso l'aveva ormai conquistato: riprendersi i bagagli, raggiungere Genova e lì attendere il passaggio di Silvia. Era ancora in tempo per salire sull'auto degli amici di Roma e raggiungere la Spagna. E che Tony andasse al diavolo, lui e quel cazzo di film.
Cercò di dormire. Dalla strada proveniva il chiasso dei giardinetti davanti alle pensioni in cui le famiglie prendevano il gelato o i dolci con tutto il contorno di televisori accesi, radio, stereo, bambini in lacrime, nonne che non tacevano manco a strappargli la lingua, mamme isteriche che litigavano con i loro mariti su quale programma televisivo seguire. Qualcuno andava ossessivamente avanti e indietro su un dondolo cigolante. Lo scricchiolio giunse insopportabile alle orecchie di Robby battendogli il tempo, i minuti, i secondi di quel dormiveglia assurdo. Prendere una decisione. Abbandonare Tony, tuffarsi, di lì a qualche giorno, nel mare tranquillo di Mojacar, fare all'amore con Silvia sulla spiaggia granulosa della costa spagnola, ubriacarsi con la sangria scurissima, densa e ghiacciata. Giocare, la notte, alle slot-machines centinaia di pesetas in compagnia dei vecchi delle osterie e delle taverne. Chiacchierare con i punkettini di Barcellona e di Madrid, ballare, leggere, dormire, nuotare con Silvia… Oppure sfogliare ancora una volta quella maledetta sceneggiatura, riprendere tutte le osservazioni a matita che nel corso degli ultimi mesi vi aveva apposto con ritmo quasi maniacale, rimetterla a posto insieme a Tony, lanciarsi ancora una volta sperando in Dio, se mai un qualche Dio, ovunque fosse, potesse mai dare ascolto alle piccole fregole di due giovanotti che si erano ficcati in testa, fin da ragazzi, di sbancare lo schermo bianco.
Già, piccole fregole. A guardarle ora, in quella squallida camera arredata come per un bambino, con un inutile scrittoio in truciolato rivestito di plastica, una specchiera appesa alla porta, un comodino che doveva servire anche come armadio, una sedia di ferro verde, un lavandino, sul cui fondo il metallo ossidato irradiava screpolature verdastre. Ma allora, quindici anni prima?
Si passò una mano sulla fronte e la scoprì fradicia di sudore. Si alzò dal letto. Non avrebbe saputo con che forze continuare. Ma avrebbe continuato. E solo per un motivo: proprio il rispetto profondo, amoroso quasi, per quel ragazzino che era arrivato testardamente fino a quel punto estremo, in quella camera e in quel letto. In altre parole per rispetto e amore verso la propria storia. Aprì la finestra. Una leggera brezza salata entrò nello stanzino. Aspirò profondamente, prese la sceneggiatura, accese l'abat-jour e cominciò a leggere. Erano le tre del mattino. Intorno tutto, finalmente, taceva.
L'insegna luminosa del night-club "Top In" finalmente si spense. Faceva ancora buio, ma Alberto sapeva che quando sarebbe arrivato davanti alla pensione le prime luci dell'alba avrebbero inaugurato il nuovo giorno provenendo dalla linea nebbiosa del mare. Ci si era abituato. Era già un mese che andava avanti così tutte le notti. E fra poco, non appena l'alta stagione avrebbe riversato altre decine di migliaia di turisti sulle traverse di Milano Marittima, sarebbe andato a letto ancora più tardi, avvolto già dalla luce del mattino. Salutò davanti all'ingresso del "Top In" gli altri suonatori. Gli offrirono un passaggio in auto. Alberto rifiutò. "Fumerò l'ultima sigaretta," disse.
Si incamminò sul lungomare, le mani infilate nei pantaloni da smoking, il bavero di raso nero alzato sulle guance ispide di barba, la super senza filtro fra i denti. Faceva fresco, il mare livido si era ritirato per la marea e scopriva i detriti di una giornata di vacanza infilzati nella sabbia sporca. Fra poco i bagnini sarebbero scesi in spiaggia con i loro attrezzi e avrebbero spazzato via la fanghiglia e i cumuli di alghe morte, le cicche delle sigarette, le lattine di birra, i kleenex stropicciati e sfilacciati dall'umidità, qualche preservativo sformato abbandonato quella stessa notte, forse solo pochi attimi prima.
Alberto guardò il mare. Il chiarore freddo del mattino si diffondeva nel cielo senza ancora illuminare. Ogni tanto incontrava una coppia di ragazzi ubriachi stesi sul marciapiede. Dormivano.
Russavano.
Attraversò il lungomare all'altezza della sedicesima traversa. La percorse per qualche decina di metri e imboccò il viale interno fiancheggiato dagli ultimi, intossicati, esemplari arborei di quella che per millenni, e fino solo a qualche decennio prima, stata la grande pineta ravennate. Faceva buio pesto lì, in quella via stretta fra gli alberghi e gli alberi, come fosse ancora notte. Le luci delle receptions illuminavano le entrate in cristallo e marmo rosa degli hotels di prima categoria rendendoli simili a tante palazzine di un gioco di società. Era tutto falso. Solo la sua stanchezza, sospesa fra la depressione e una zona di coscienza neutra, era vera. Gettò la cicca per strada. Portò gli indici delle dita alle orecchie come per stapparsele. Ronzavano, quella destra, in particolare, gli doleva. Non appena giunto a casa, avrebbe messo le gocce.
Avanzò ancora una cinquantina di metri fino a incrociare traversa della sua pensione. Mise le mani in tasca alla ricerca delle chiavi di ingresso. Ne aveva un duplicato. A quell'ora nessuno si sarebbe alzato per aprirgli. Arrivò pochi istanti dopo. Prese dal quadro la chiave numero 38 e salì a piedi fino al terzo piano. Raggiunse lentamente il pianerottolo e poi il corridoio in fondo al quale stava la sua stanza. Fu allora che uno squarcio di luce tagliò l'oscurità del piano. Proveniva dalla camera di fronte alla sua. Alberto fece qualche altro passo e la luce sparì. Tutto tornò buio.
Rinchiuse la porta alle sue spalle. Tolse la giacca, le scarpe, i pantaloni, i calzini. Andò in bagno.
Prese una lattina di birra dal lavandino in cui galleggiavano ormai solo un paio di cubetti di ghiaccio. La stappò. Ne bevve un lungo avido sorso sbrodolandosi di schiuma il mento e il torace.
Gli piaceva l'odore della birra. Si gettò sul letto chiudendo gli occhi. Le orecchie ronzavano. Non trovò la forza di alzarsi e cercare le gocce. Voleva soltanto ammazzare quella notte e addormentarsi.
Una immagine dapprima gli impedì di prendere sonno. Gli era parso, nell'istante in cui aveva voltato il capo verso quella fonte di luce, di aver intravisto un'ombra. Ma non poteva esserne sicuro.
Non era nemmeno certo di saper riconoscere - l'indomani - da quale camera era provenuta. Le dita si allentarono attorno alla lattina di birra. Si addormentò. Una zanzara lo infastidì per le otto ore del suo riposo.