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Roma, 793 a.U.c., il giorno dopo le calende di dicembre (39 d.C., 2 dicembre)
Gli schiavi stavano raccogliendo i resti di cibo che gli invitati avevano disseminato sul pavimento.
Giulia Cassia si era alzata e l’aveva presa per mano, evitando per un soffio di andare a sbattere contro il ventre prominente di suo marito, il senatore Druso Manlio Cassiano.
«Avanti, Livia, non fare quella faccia» bisbigliò trascinandola nel giardino, in cui fiaccole e grandi bacili infuocati illuminavano le piante e le statue di riflessi d’oro e rosso.
Il rumoroso gozzovigliare degli invitati si attenuò e il profumo di gelsomino, sprigionato da coni di grasso appesi ai rami, sostituì quello nauseante del cibo e della carne arrostita.
Una moltitudine di petali di rosa e iris, di un blu violaceo, sfiorarono le caviglie delle due donne, mentre i loro passi le portavano lontano dalla confusione.
Sua cugina Giulia si appoggiò al bordo della fontana, il fauno al centro reggeva un’anfora da cui stillava un getto cristallino. Allungò la mano adorna di anelli, sfiorò l’acqua gelata e uno spruzzo le bagnò la tunica.
«Perché hai tenuto il muso tutta la sera? Hai parlato con tua madre?» le chiese, imbronciata.
Livia fissò la cugina che giocava con il liquido fosco. La mano bianca, i cerchi concentrici che si allargavano per frantumarsi contro il bordo di pietra e quel muschio, che cresceva sul bordo, di un verde impossibile.
«Non ho il muso,» rispose ritrovando a fatica la concentrazione «pensavo a come cambierà la mia vita con un uomo accanto.»
«Settimio Aulo Flacco è bello, non è come quel mostro che hanno fatto sposare a me. Non sarai adirata perché l’ho detto a tua madre, vero? Non ho potuto resistere quando ho visto che ti guardava famelico, nei giardini.» Livia avrebbe voluto afferrarle la mano, impedirle quel movimento ipnotico.
«Non potrei mai rimproverarti per questo, Giulia.» Il suono di un liuto, forte e melodioso, coprì il vociare degli ospiti, Giulia si asciugò la mano contro la tunica.
L’immagine di Settimio al Campo Marzio le riempì la mente. Il giovane sarebbe stato all’altezza della situazione anche se, solo col tempo, Livia ne avrebbe avuto la prova. Al momento, tutto ciò che ricordava era il volto in cui spiccavano gli occhi di un azzurro intenso, i capelli d’oro ricciuti, l’espressione aristocratica. Si erano scambiati un lungo sguardo e Livia sospirò alle note sconnesse dei sistri.
Dopo tutti i conflitti interiori, le incertezze, le riflessioni infruttuose sul suo passato, Livia sperava che il suo dilemma si risolvesse nel modo più naturale possibile: innamorandosi di lui.
Forse era già innamorata di quell’uomo che le avrebbe dato sicurezza, conforto, protezione.
Giulia le sorrise e si allontanò, sparendo nel giardino. Livia vide la luna bella, struggente, piena. La musica salì di tono, si portò via l’angoscia e lei si avviò verso la sua stanza.
L’ululato di un lupo ruppe il silenzio e un brivido di nuovo terrore le attraversò il corpo. Livia aveva difficoltà a deglutire e si guardò intorno. Che cosa poteva fare per sfuggirgli?
L’odore silvestre della foresta le penetrò nelle narici.
Un albero.
Avrebbe potuto arrampicarsi su un albero, ma intorno a lei erano troppo alti, tronchi larghi ricoperti di muschio, radici contorte che si infilavano nel terreno rugoso, tra foglie marcite e scivolose. La disperazione la ghermì con dita artigliate.
Si voltò all’improvviso e colpì qualcosa di duro.
Un uomo.
Fece un salto indietro, grandi mani l’afferrarono per le spalle prima che cadesse. Lui la strinse contro il suo corpo saldo, imponente.
Era alto, i capelli nerissimi, impossibile distinguerne i lineamenti nella penombra, solo gli occhi espressivi risaltavano ravvivati da una luce feroce.
Catturarono la sua attenzione ma fu un istante: il terrore e la rabbia centuplicarono la sua forza e nonostante la fatica, la disperazione, l’angoscia, tentò di liberarsi. Lo colpì, avrebbe voluto staccarsi da lui, mettere una rassicurante distanza tra loro.
«No!» urlò e gli piantò le unghie nel torace nudo come una gatta selvatica, cercò di mordergli il bicipite muscoloso, di scalciare per sfuggire alla presa. In quel momento, si rese conto che era completamente nudo. Scioccata, Livia si immobilizzò.
«Non agitarti, è inutile.» E la voce profonda dell’uomo attraversò la nebbia di terrore, penetrò sotto la sua pelle.
Una parte di lei se ne rese conto all’istante, rilassò i muscoli e allora le mani rozze, callose divennero dolci, le dita che le avevano scavato la pelle l’accarezzarono, brividi piacevoli le attraversarono il corpo. Livia si rese conto di aver voglia di piangere.
«Ho paura» disse in un bisbiglio e l’ammissione le strappò un sospiro, come se il solo fatto di ammetterlo l’avesse cancellata di colpo.
«Non devi, sei al sicuro con me.» E la presa divenne un abbraccio, Livia lo sentì caldo, saldo, aderire al suo corpo. Il fatto di essere nuda, il fatto che i suoi capezzoli si strofinassero sul petto di lui, ricoperto da una soffice peluria, non la sconvolse come avrebbe dovuto.
Era giusto, perfetto.
Gli posò la testa sulla spalla e sistemò la guancia in quel punto che sembrava modellato apposta per lei, percepì l’alzarsi e l’abbassarsi del suo petto, le dita che le tracciarono un sensuale sentiero lungo la schiena, mentre lei ne aspirava l’odore. Le sfiorò i capelli sciolti, risalì fino alla nuca in un rilassante massaggio.
Era giusto, perfetto.
Anche lei allargò le mani sulla ruvida guancia, sulla maschia solennità dei suoi muscoli e qualcosa di primitivo, ancestrale, le urlò di non lasciarlo andare.
Nella fitta boscaglia la luce era flebile e Livia si affidò al tatto, all’olfatto.
Appoggiò le labbra su di lui, strofinò il naso contro la forte ossatura, socchiuse le labbra e lo assaggiò, mentre il corpo maschile si faceva duttile. Succhiò, leccò. Maschio, salato, opulento sapore.
«Livia...» E il suo nome su quelle labbra divenne un brivido.
Gettò indietro la testa offrendosi ai baci dell’amante, che sussurrava il suo nome ma del quale non scorgeva il volto.
Le foglie frusciarono, il vento li accarezzò, rotolò, portò fino a loro il fatale ululato del lupo.
Ma lei non aveva paura, non più.
Lui percorse con i pollici ruvidi la morbida rotondità dei seni, si attardò sui capezzoli.
«Adoro la sensazione della tua pelle sotto le mie mani» mormorò e Livia sentì ogni tendine del suo corpo sottomettersi a una sensazione dolente, della quale non avrebbe mai avuto abbastanza. Un formicolio, le labbra di lui scivolarono come gocce gemelle, il suo respiro divenne come la sfilacciata foschia che si snodava tra gli alberi, in impalpabili nastri. Livia rabbrividì di piacere fino alle vertebre, la sua brama crebbe, non poteva più attendere.
Lui sembrò capirlo. La sua coscia si insinuò fra le sue gambe fino a tenerla a cavalcioni, una mano le circondò il sedere e Livia strofinò con le parti intime la lunghezza muscolosa, ricoperta di soffice peluria.
«Sei bagnata» disse lui dolcemente.
Avrebbe voluto rispondergli ma le uscì solo un debole mormorio di piacere, mentre si abbandonava alla dolce frizione.
Lui si mosse, si appoggiò al tronco nodoso, il petto si sollevò in un lungo sospiro. Per un istante Livia cercò di mettere a fuoco il suo volto ma l’indeterminatezza della luce le impedì, ancora una volta, di vederlo in faccia.
Non aveva importanza. Abbassò lo sguardo sul resto di lui.
I suoi muscoli sembravano modellati con l’argilla direttamente sulle ossa, la pelle miele dorato, lucente; adagiato sopra al sedile di terra e muschio, la testa reclinata all’indietro, le gambe divergenti, scoperto il pube e teso il pene lungo, tornito, venato di blu. Le caviglie forti, i piedi percorsi di tendini, stranamente aggraziati.
Con delicatezza, con dolcezza, le ruvide mani cominciarono a frugarla, quasi cercassero il posto in cui si erano addensate tutte le sue sensazioni.
La toccò: il seno, lungo i fianchi, la fessura segreta. Quando vi infilò due dita, Livia gemette.
Fu invasa da un languore pungente che si estendeva al di là delle parti che lui toccava, ramificandosi in tutto il suo corpo e udì il suono basso, simile al ringhio di un animale, che salì nella gola di lui: «Stai lacrimando per me.» Senza più forza Livia si abbandonò, le loro labbra si unirono, la lingua nelle reciproche bocche, le succhiò i capezzoli, coi denti le morse il ventre marchiandola come sua.
Livia pensò follemente di essere divenuta schiava del sensuale, selvatico uomo bruno. Lui comandava, non poteva opporsi alla sua forza, alla sua volontà, al suo desiderio.
Egli voleva sottomissione, lei divenne soffice come un tessuto prezioso e lui, nella sua morbidezza, sprofondò con esultanza.
Giusto, perfetto.
Era la sua prima volta ma aprì le cosce stupefatta della propria audacia, senza vergogna.
Avrebbe dovuto domandarsi perché questo scambio così intimo sembrasse così naturale ma ogni pensiero svanì quando la penetrò lento, quando lui, a ogni battito del suo cuore, guadagnava terreno.
Caldo, solido, deciso contro la sua carne. Uno scabroso piacere in quello scenario silvestre che pulsava intorno a loro, li circondava, li proteggeva.
Lui scivolò tra le soffici pieghe e lei udì avvicinarsi i latrati, gli ululati, i guaiti di un branco di lupi. Vibrò di paura ma anche di desiderio.
«Mi appartieni, nessuno ti farà mai del male» la blandì.
Lei sollevò le anche e fu ricambiata dalla pressione del corpo muscoloso contro il suo, più fragile e delicato.
Saccheggiò le labbra, la costrinse a separarle, prese possesso della sua bocca mentre la penetrava con un colpo di reni. La tensione aumentò allo stesso ritmo del fuoco del suo desiderio.
È mio, e questo pensiero turbinò nella sua testa, insieme alla sensazione di aver atteso quel momento per tutta la vita. Un voluttuoso lamento le sfuggì, nello stesso istante in cui lui si spingeva più profondamente dentro di lei.
Livia smise di respirare e il piacere si trasformò all’improvviso: spalancò gli occhi perché a un tratto ci fu il vuoto tra le sue braccia e di fronte a lei un lupo, pelo di tenebra, pupille d’oro, lingua rosa tra zanne taglienti.
Urlò. Urlò e si sollevò mugolando, si guardò intorno, il cuore che pulsava impazzito, smarrita, sgomenta.
Il bosco era svanito, non più l’umido profumo di muschio ma quello delle lucerne, da tempo spente, non più l’instabile barriera di foglie ma pareti solide, dipinte.
Era stato un sogno. Sconvolgente, ma così reale che sentiva ancora il centro del suo corpo pulsare di piacere.
Tornò a sdraiarsi stringendosi addosso la coperta che le si era aggrovigliata alle gambe, ancora scossa, troppo vigile per dormire di nuovo. Restò a lungo sveglia, consapevole che la notte era densa di illusioni, pericoli e di malvagi Lemuri. Per vincere la paura evocò l’immagine di Settimio dai riccioli d’oro che scacciò quella dell’uomo di tenebra che l’aveva posseduta nella foresta, selvaggio come un lupo.