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Quinto Decio Aquilato aggiustò la presa sull’impugnatura. Alzò il braccio destro e rivoli di sudore gli scivolarono verso l’ascella. Il martello calò con brutalità sul ferro incandescente, bloccato da una morsa. Un ventaglio di scintille si aprì, schizzando ovunque, prima di spegnersi sul suolo di paglia e terriccio.

Il rumore sordo del metallo ribattuto si mescolò al suo grugnito di fatica e al fluido movimento del braccio, che tornò verso l’alto.

Vibrò un altro colpo, più violento del primo.

Brinnone, dietro di lui, indossava un grembiale di cuoio dal petto alle caviglie e incrociò le possenti braccia.

Freddo come una brezza primaverile, ispezionò le mosse di Aquilato.

«Quanto più forte è il colpo, tanto più forte è il rimbalzo» disse e, con un paio di lunghe pinze, sollevò il pezzo rovente che Aquilato aveva lavorato.

Lo studiò.

«Potresti picchiarlo per tutto il giorno ma in questo modo sarebbe una perdita totale di tempo e fatica» disse.

Ripiegò su sé stesso il metallo più volte, fino a che fu ridotto a una striscia compatta e si fece consegnare il martello da Aquilato. Sollevò il braccio e il bicipite si gonfiò, la pelle tesa che faticava a contenerlo.

«Il polso morbido» fece una pausa per permettere al messaggio di arrivare all’amico e poi disse, a voce bassa: «Ci sono migliaia di nemici a culo nudo che sognano solo di tagliarci la gola. Noi dobbiamo avere armi più robuste ed efficaci.»

«Il filo del tuo gladio è sempre il più tagliente, Brinnone.»

«Non a caso, fratello. I fabbri romani pensano di sapere come si realizza una buona lama. Ma non lo sanno.»

«Glielo insegnerai tu.»

«Rufo rimarrà stupito per come salteranno via le teste, con una lama così affilata.» Il petto celato dal cuoio si gonfiò di un respiro. Brinnone era un ottimo fabbro e avrebbe tratto in inganno chiunque se, nei suoi occhi orgogliosi e freddi, non vi fosse stata una scintilla di violenza, che ne faceva un coraggioso guerriero.

Possedeva un volto squadrato, un naso diritto con narici che sembravano tagliate con il coltello e pareva un grosso rapace dalle ali possenti, con un’altezza che spiccava tra i barbari e sotto le insegne di Roma, i muscoli scaldati dal fuoco di brace e la pelle colorata dal sole della guerra.

 Tump! E l’acciaio si arrese alla potenza dei suoi colpi.

Le braccia lo percossero, ancora e ancora, finché fu duttile, si piegò alla risolutezza che avrebbe sempre protetto gli amici e perseguitato i nemici. Alla fine Brinnone sollevò la pinza, reggendo ben stretta la scaglia di ferro. Il riflesso del metallo arroventato si specchiò nelle iridi di un azzurro chiaro, coronate da un sottile cerchio più scuro.

«La riscalderò nella forgia a carbone, temprandola in acqua mentre è ancora incandescente e ripeterò il procedimento più volte, finché la renderò invincibile.» Aquilato assentì con un impercettibile movimento del capo e Brinnone si illuminò, i denti bianchi balenarono tra il rosseggiare delle braci, il sudore, il calore, simili alla luce di un faro nella livida tempesta.

«Non avrei potuto fare meglio io stesso, Brinnone» disse Aquilato compiaciuto.

«Principe Adalhard, questo è un gran complimento.»

«Non usare quel titolo, amico mio. Se ti sentono i romani potrebbero rispedirmi a Roma, per un ripasso della lezione che mi hanno impartito durante la giovinezza. Io sono Quinto Decio Aquilato.» E rise di gusto, gettando indietro la testa.

Brinnone si avvicinò al bacile, dove l’acqua pura di sorgente avrebbe spento il rovente pulsare del metallo. Vi calò la punta e si sentì lo sfrigolio, accompagnato da un getto di vapore e spruzzi che lo fecero indietreggiare di un passo.

Aquilato riprese a parlare.

«Avrei voglia di galoppare sulle spiagge del nostro villaggio, a metà tra mare e cielo, tra spruzzi salmastri.»

«E mandare al diavolo il tribuno dalla faccia truce, che ci pressa il fondoschiena dalla mattina alla sera?

Non sogni di tagliargli la gola, qualche volta? In fondo sarebbe solo sangue romano.» La battuta provocò la risata di entrambi. Brinnone rigirò la sua opera, cercando eventuali imperfezioni.

«Rufo tornerebbe dal regno dei morti per tormentarci, per tutti i Numi dell’Olimpo» mormorò Aquilato, credendoci davvero.

«Sicuro. Ci sono poche cose di cui sono certo in questa imprevedibile vita: una è il filo della mia lama, e l’altra è la lealtà che ci lega a quel pessimo romano.» Calò il silenzio e i due uomini si prepararono a lasciare la fucina.

L’odore di fuliggine e fumo era imprigionato nelle pietre grigie, squadrate.

Brinnone slacciò lo spesso grembiale avvicinandosi al muro e inspirò l’odore che lo faceva sentire bene. Lo lasciò appeso al chiodo piantato nel muro.

Quando uscirono all’aperto, entrambi guardarono verso il cielo, cercando le stelle tra le masse delle nubi rotolanti, ma tutto era nero. Le sentinelle urlarono scambiandosi il segnale convenuto, poi calò il silenzio.

«Fa abbastanza freddo da nevicare» disse Brinnone, avvolgendo la sciarpa di lana intorno alla parte bassa del volto.

Aquilato lo seguiva. Portava un paio di braghe lunghe sotto i calzoni di pelle, delle calze di lana gli avvolgevano i piedi protetti dalle calighe. Guardò verso destra, vide una finestra illuminata in uno degli alloggi degli ufficiali.

Il suolo scricchiolò sotto i loro passi.

«Rufo non dorme» disse sottovoce e Brinnone emise un verso simile a una risata.

«Le necessità di un uomo sono facili da soddisfare, in una notte come questa.

Scommetto che ha compagnia.»

«Se è quella che penso, per lui sarà più dovere che piacere.» E cambiò direzione con un brusco movimento.

«Dove vai?» gli chiese Brinnone, quando si accorse di camminare da solo.

«Tu vai a letto, io ho bisogno di parlare con Rufo.»

«Non sarà contento di questa tua interruzione.» Il volto fin troppo bello si illuminò di un perfido sorriso.

«Scommettiamo di sì?» Marco era sdraiato sulla branda, con indosso solo il subligaculum. Congedati gli schiavi aveva lasciato la lanterna accesa, fissava il soffitto di travi ordinate.

Era stata una giornata intensa e faticosa, conclusa con un rapporto a Caligola che gli aveva strappato mille promesse, fatto mille domande.

Getulico aveva sbraitato ordini a tutti, gli occhi iniettati di sangue, le sopracciglia cispose aggrottate. Più volte Marco aveva sorpreso l’occhiata rapace sull’imperatore, le labbra piegate in una smorfia malevola.

E poi, prima del tramonto, aveva incontrato il comandante della flotta, Tiberio Aulo Longino, a bordo della trireme su cui una moltitudine di operai stava lavorando, per renderla degna della presenza imperiale.

Longino amava le sue navi quasi quanto la moglie, ne parlava con un entusiasmo che rasentava il fanatismo.

«La vela è quasi pronta, Rufo. Ho fatto smontare la catapulta e Caligola potrà salire sulla torretta, dove sarà sistemato lo scranno. Sarà ricoperto di lamine dorate e pietre dure e potrà salutare chi sta sulla riva. Ehi tu, laggiù! Attento a quello che fai con quei chiodi di ferro!» Longino era schizzato come un fulmine verso un fabbro, che si dava da fare intorno alla balaustra.

«Per il dio Nettuno, questa è una nave, capisci? Non una baracca per i dormitori, va trattata con deferenza.» Si era girato verso Rufo, il volto magro rosso di rabbia.

«Asini! Non posso distrarmi neppure un attimo.»

«Il Reno non è ancora ghiacciato, quest’anno» aveva constatato Marco fissando le acque tranquille e Longino si era affacciato, seguendo un ramo che galleggiava sulla corrente.

«Non credo che succederà, è un inverno mite. Sarà la presenza di Caligola, il prediletto degli dèi.»

«Quanto è profonda l’acqua?»

«Due pertiche, Rufo. Perché ti interessa?»

«Dov’è più forte la corrente? Vicino all’isola?» Longino lo aveva osservato sospettoso ma aveva risposto a tutte le domande con precisione.

«Rufo, vuoi dirmi che sta succedendo?» gli aveva chiesto mentre si congedava da lui, sulla passerella di legno.

«Il divino Cesare sarà sotto la tua responsabilità, Longino, dal momento in cui mette piede sulla trireme fino a quando sbarcherà. Io mi devo assicurare che tu sappia tutto, che tu sia in grado di tenere sotto controllo i tuoi uomini e la tua nave.» Il prefetto lo aveva guardato a lungo, in silenzio. Poi aveva fatto un suono secco, con le labbra.

«Tu sarai al suo fianco, Rufo. Quale sarà la tua, di responsabilità?»

«Quella di tenerlo in vita.» Un rumore raspante, sandali sul legno.

Nerba apparve sulla soglia, nero come la notte.

«Domine, hai una visita.»

«Chi è, Nerba?»

«Fai frustare questo stupido schiavo, Marco. Voleva impedirmi di entrare.» Agrippina portava una folta pelliccia e si liberò dal cappuccio con un gesto elegante. I capelli erano sciolti, il viso ben truccato.

Marco fece un cenno e Nerba sparì, lasciandoli soli. D’un tratto il suo letto gli parve troppo scomodo e si rimise in piedi.

«Vuoi del vino caldo?»

«Con tanto miele. Ho freddo, attizza il braciere.» Marco non fece commenti e ravvivò la fiamma.

Il suo alloggio era un edificio indipendente con stanze per gli schiavi, una sala d’armi, un tablinum e un bagno privato. Se lo poteva permettere, gli piaceva il suo spazio privato, intimo. Il fatto che quella donna si intrufolasse nella sua vita con tanta sfacciataggine lo irritò.

Agrippina era intoccabile, non poteva contrastarla né ferirla, un rischio che non poteva correre, ma ebbe l’impressione di aver a che fare con un tizzone incandescente: impossibile da gettar via e impossibile da stringere tra le dita.

Le mani di lei risalirono sulle sue spalle in una carezza inequivocabile.

«Lo sai che c’è sotto la pelliccia, Rufo?» Nerba riapparve con un vassoio, due coppe e un recipiente colmo di vino.

L’odore intenso e fruttato si diffuse nella stanza. Aveva preparato fette di pane caldo, una ciotola di miele e teneva in mano la verga di vite che posò, diligente, accanto al vassoio.

Agrippina si allungò per afferrarla ma Marco fu più veloce.

«Va’ a dormire, Nerba. Ti punirò domattina» disse allo schiavo, trattenendo il fragile polso di lei tra le dita.

Era caparbia, arrogante e nel suo sguardo lampeggiò una luce che avrebbe trovato affascinante, se non fosse stata tagliente come una lama. Tassus gli aveva detto che era saltata anche nel letto di Getulico e questo gli aveva fatto capire molte, moltissime cose.

«Voglio vedere il suo sangue» sibilò quella donna con un accanimento che gli fece alzare brividi nella schiena. Il suo corpo reagì e fu un bene perché, se avesse dato retta al cervello, se lei avesse potuto leggergli la mente, allora sarebbe morto ancor prima del suo imperatore.

«Fammi vedere cosa nascondi sotto la pelliccia, Agrippina» disse con tono basso, elusivo, e infilò la mano in uno spiraglio. Trovò carne nuda, cremosa e lei si rilassò.

«Voglio che mi lasci senza fiato stanotte, Rufo» disse con occhi sognanti.

«Perché dovrei farlo?»

«Perché ti piace, perché sei un amante magnifico e perché sono la sorella dell’imperatore e la tua vita è nelle mie mani.»

«Tu sai come conquistare un uomo» disse Marco, e lei, come risposta, gli fece strisciare le unghie lungo la pelle della schiena.

«Cosa vuoi che ti faccia, Rufo?»

«Stai con me fino a domani mattina.»

«Non posso» fu il roco sussurro.

La pelliccia si ammucchiò ai loro piedi e Marco sentì i capezzoli turgidi strofinargli il torace.

«Non posso, davvero» ripeté lei, le palpebre socchiuse.

Certo, quella notte aveva un appuntamento e lui sapeva bene con chi.

«Davvero non puoi? O non vuoi?» chiese, e le strofinò i boccioli corallo tra pollice e indice. «Apri le gambe, fallo per me.» Un sospiro arrendevole che si trasformò in un gemito.

«Oh, sì.» Lui la spinse contro il letto, lei gli fece scivolare le mani lungo i pettorali, sfiorando il ventre teso fino alla sporgenza dura e grossa, che tendeva il subligaculum. Lo prese tra le dita attraverso la stoffa stimolandolo, poi lo strinse così forte che Marco sussultò.

Il respiro gli uscì sibilando tra i denti, scosso da un fremito di dolore e rabbia.

Aggrottò la fronte e allungò su di lei il palmo squadrato dalle dita lunghe, che usava con fermezza e decisione.

Agrippina gli offrì le labbra, non si avvide dello sfavillio malvagio, perché Marco fu lesto a celarlo dietro una finta concupiscenza, ma sbarrò gli occhi quando lui le spinse la testa all’indietro, con un movimento veloce come un lampo.

«Rufo...» mormorò sgomenta e lo fissò, spiritata.

Facile, sarebbe stato facile, pensò Marco e, prima che Agrippina potesse rendersi conto del mortale pericolo, la lasciò sdraiare sul letto e ruppe il silenzio con un grugnito sprezzante.

«Sei come una gatta in calore, tiri fuori gli artigli ma apri le cosce» disse soffocando la collera, trasformando la stretta in una brusca carezza e le sorrise con uno scintillio divertito, attraverso lo schermo delle lunghe ciglia corvine come i capelli.

Se lei pensava di dominarlo con le sue fusa, che lo credesse pure. Mantenersi distaccato mentre stava con una donna gli era capitato altre volte, sfogo carnale, la testa già sul campo di battaglia, tra le urla dei suoi uomini per pianificare il prossimo assalto.

No, non era difficile.

Con un gesto perverso si piazzò tra le sue gambe aperte e, ansimando di sollievo, si liberò della stoffa che lo conteneva.

Fremette, come se stesse per venire.

I polpastrelli di Agrippina scivolarono in basso e prese i suoi testicoli con la mano a coppa mentre con l’altra lo massaggiava avanti e indietro, per tutta la sua lunghezza.

Guardò sé stesso, rosso e gonfio, intrappolato nella sua mano. Un brivido gli percorse le vertebre raccogliendosi in un punto preciso e fu come vedere tutto da una certa distanza, come se quell’unione fosse lo scotto da pagare, per carpire segreti e misteri di quella congiura di cui lei teneva le fila.

Ciò che in lui viveva di aggressivo e indomito prese il sopravvento e ricordò ciò che era stato, il passato.

Lui che strappava la pelle all’uomo che aveva ucciso suo padre, senza indugio né pietà.

Lui davanti ai lupi, armato solo di un bastone.

Lui che non dava tregua a sé stesso, né ai nemici.

Ma fu il presente ad agitargli il sangue nelle vene, affondò due dita in lei e la costrinse a gemere, si piazzò su di lei e una vampata di calore gli riverberò nel ventre. Si concesse e poi si ritirò, controllando spietatamente le reazioni del suo corpo.

Assecondò la sua patetica supplica e allora vibrò una spinta vigorosa, le mani che la tenevano salda per i fianchi.

Calda, morbida, umida frizione di cui non aveva nessuna voglia.

La pelle del ventre liscia, color avorio, i seni tondi fieramente eretti, ma non provò nessun trasporto, nessuna emozione in quel rapporto misurato dal piacere ma dominato dall’egoismo.

Agrippina concedeva tutto senza modestia, con intelligenza criminale, e lottò con vigore famelico per trattenerlo.

Quando raggiunse il culmine gridò in estasi, con tutto il fiato che aveva nei polmoni, ma fu un solitario cataclisma perché Marco l’abbandonò proprio nel momento supremo, uscendo da lei ancora duro, deciso a strapparsi via con maschia caparbietà.

Serrò i denti mentre sentiva l’ansimare dell’orgasmo solitario, l’unico rumore che riempì la stanza mentre se ne andava, sbattendo la porta.

Uscì per cercare requie e solitudine nel freddo vento invernale. Camminò il tempo necessario per abituarsi alla notte senza luna, al cielo pieno di nubi, finché la sua mente si ribellò come uno stallone lanciato al galoppo, gli zoccoli a sollevare vampate di sabbia, su spiagge straniere senza confini, battute dai marosi.

Strinse i denti fino allo spasimo e i pugni, e irrigidì ogni muscolo, il gelo gli entrò nelle ossa ma lui era così caldo che avrebbe fuso un turbine di neve e ghiaccio.

L’aria fredda lo fece calmare, respirò a fondo, la furia che si dilatava in lui come la marea, con la stessa inarrestabile forza.

Si ritrovò immerso nei ricordi, in quella notte che aveva cambiato il suo Fato, che non poteva scordare.

Aquilato lo aveva raccolto in fin di vita, dopo le torture dei bructeri, e portato al suo villaggio, la guarigione sembrava lontana poiché le sue ferite, non solo quelle del corpo, andavano rimarginandosi con esasperante lentezza.

Il braccio sinistro, su cui la rossa cicatrice doleva ancora, era inservibile e il volto di suo padre, arso vivo, popolava le sue notti, insonni.

Quell’inverno era stato difficile nel villaggio dei batavi; i lupi si erano fatti arroganti, avevano ucciso una vecchia imprudente, credendo così di potersi sfamare con facili prede.

Gli uomini, tornati da una battuta di caccia, stavano macellando bisonti e cervi, celebrando con birra spessa e abbondante l’incetta di carne.

Marco, in un capanno spoglio ma pulito, passava il tempo fissando il tetto di paglia intrecciata. Aveva visto la luce del giorno affievolirsi e comparire il bagliore dei falò, seguito dai canti ebbri dei guerrieri.

Nonostante il cattivo umore per l’inattività forzata, unico uomo civile in un mondo di barbari, si era scoperto a sorridere. Tutti gli esseri umani erano uguali, gli stessi bisogni, le stesse paure e, mentre così pensava, un rumore gli era entrato nella testa in sordina, tra i gorgheggi degli ubriachi: un guaito.

Aveva smesso di respirare per ascoltare meglio, credendo di essersi ingannato, ma l’uggiolare si era ripetuto insieme a un ringhio basso, di avvertimento.

Si era alzato zoppicante, il braccio sinistro stretto al ventre e, sulla soglia, aveva scrutato la notte ombrosa.

Ed eccolo, un guizzo grigio e di nuovo il ringhio.

Lo aveva visto, ne era certo. Un lupo vicino al capanno dove dormivano i bambini.

C’era un bastone di quercia appoggiato a una parete: aveva allungato la mano fino a chiudere le dita sull’impugnatura nodosa e non aveva esitato, neppure quando nelle narici dilatate gli era entrato l’odore ripugnante che quegli animali si portavano dietro, di carogne e di morte.

Eccolo. Dietro di lui.

Marco si era girato per fissare il riflesso fosforescente sopra le fauci aperte. Il sordo, minaccioso brontolio era aumentato fino a quando, con un balzo, l’animale era scattato su di lui. Lo aveva colpito sul muso, un colpo secco, un guaito di dolore e gli altri, solidali, avevano smesso le esplorazioni per circondare la nuova preda.

Voci infantili, sulla soglia erano apparsi due bambini, i capelli chiari, gli occhi spalancati sullo straniero a cui non dovevano rivolgere parola, lo straniero circondato dai lupi.

Una vocetta dall’interno aveva chiesto cosa stesse accadendo.

«State indietro!» aveva ordinato lui in un misto di germanico e latino. «Tornate dentro!» Urla e poi un grido disperato e due animali che si proiettavano su una bimba che fuggiva via, terrorizzata.

Marco non aveva esitato, si era lanciato in sua difesa menando fendenti, a destra e a sinistra, sentendo rimbalzare il legno tra le mani ogni volta che andava a segno, che spaccava ossa.

Si era gettato sulla piccola che scalciava terrorizzata, aveva strappato via il braccino dalle fauci e poi le zanne erano scese, crudeli, su di lui, investito dall’alito caldo, fetido delle belve mentre la proteggeva col corpo e col misero bastone dagli attacchi indiavolati, dai balzi, dai morsi.

Sangue, odore di sangue e poi voci di altri uomini, sopra ai latrati e alle urla, gente che correva e qualcuno, dopo un po’, che lo afferrava e strappava dalla sua presa il corpicino insanguinato.

Tutto si era concluso in un vortice nero, di dolore e annientamento.

La luce del giorno, quando aveva ripreso conoscenza, aveva illuminato il gigante biondo al suo capezzale, lo stesso che una settimana prima lo aveva sollevato sulle spalle possenti e trasportato per miglia e miglia, come un peso morto.

«Lasciami qui» gli aveva detto a un certo punto, in uno dei rari momenti di quel tragitto terribile, tra tortura e salvezza.

Il volto dello sconosciuto, di una bellezza sorprendente, si era fissato su di lui, così aveva taciuto, certo di essere già morto, giunto nei Campi Elisi al cospetto di Apollo.

Aquilato, era quello il suo nome che aveva scoperto tempo dopo.

Aquilato testardo e pietoso, principe educato a Roma, decurione della XXI

Rapax, di stanza a Castra Vetera, in missione di reclutamento. Un romano in tutto e per tutto, tranne che nell’aspetto, così come quei cinque guerrieri che lo attorniavano e lo fissavano in quel momento.

Uno di loro, Brinnone dalla testa rasata, lo osservava con attenzione.

«All’inizio abbiamo pagato i tributi al tuo imperatore con il nostro sudore, romano,» gli aveva detto con voce irritata «e adesso saldiamo il conto con le nostre vite di guerrieri. Quando il mio principe ti ha portato al nostro villaggio, gli ho detto che la vita di uno di voi non valeva nessuna fatica.» Era seguito un istante di silenzio e qualche bocca si era tirata in un sinistro sorriso.

«Nessun romano aveva mai guadagnato la mia lealtà, prima d’ora.

Nessun romano mezzo morto aveva mai difeso i nostri figli come fossero suoi.» Brinnone aveva disteso la mano destra. Marco si era sollevato per essere in grado di afferrarla e, stringendo i denti, ce l’aveva fatta. Aggrapparsi al palmo fresco, asciutto, tenerlo nel suo ardente di febbre, era stato come vincere una sfida.

«Fino a questa notte» aveva aggiunto il batavo con un lampo nello sguardo.

Marco rabbrividì. La luna comparve d’improvviso, le stelle sostituirono le nuvole.

Il Fato aveva intrecciato i loro destini, il suo e quello di uomini magnifici e orgogliosi che avevano deciso di donargli la loro lealtà; chi era lui per opporsi?

Agrippina non era ancora uscita dal suo alloggio, senza dubbio era nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata.

Come poteva dormire la notte e, di giorno, tessere trame tanto odiose e disonorevoli?

Come poteva abbandonarsi tra le sue braccia sapendo che lui avrebbe difeso l’imperatore fino alla morte, perché Caligola era Roma, l’Impero, il destino del mondo?

Come poteva pensare di sovvertire l’ordine, la giustizia, il potere a cui lui, soldato di Roma, doveva fedeltà?

Fredda l’aria che lo investì, ripulendo i polmoni e il cielo sopra di lui. Sarebbe stato così facile ucciderla, pochi istanti prima.

Ma era un uomo d’onore e serrò i pugni, e le nocche sbiancarono. No, il male andava estirpato fino in fondo, doveva svellere del tutto il malefico albero, fino alla radice più marcia.

Voleva alla sua mercé quella donna poco arrendevole, ambigua e manipolatrice, che sapeva artefice e complice della più orribile e scellerata delle congiure. Desiderava umiliarla per dimostrarle che la sua era la più pericolosa delle ambizioni, risentito per la sua incoscienza, per il tradimento che avrebbe distrutto una vita e, forse, l’Impero.

Agrippina come Aracne che aveva sfidato la potenza di Atena, illusa di poter vincere una disputa persa in partenza. Sul filo di questi pensieri notò la sagoma familiare che si staccò dal buio e la consapevolezza di quella presenza lo colpì, come la scarica di un fulmine.

«Che cosa fai qui, invece di scaldarti con una lupa, Aquilato?» disse ignorando la folata di vento che gonfiò i loro mantelli. Il suo lo teneva stretto intorno al corpo, unica difesa che aveva afferrato al volo mentre usciva a precipizio, ma sotto era nudo.

«No, grazie. Sono molto schizzinoso e selettivo, in questo periodo» rispose il batavo che notò i suoi piedi scalzi, su cui alternava il peso sul terreno reso friabile dal gelo.

Lo studiò per un istante.

«Sei una visione, Marco. E sembri gelato» disse con un sorriso bieco.

«Non abbastanza» rispose lui.

«L’hai lasciata da sola.»

«Perché ho la sensazione che tu sappia chi sta sdraiata nel mio letto, stanotte?» Aquilato spalancò gli occhi, azzurri e innocenti.

«Quella donna è troppo scontata nella sua ovvietà. Prima dall’uomo forte, poi dall’uomo potente.» Marco ebbe una smorfia di disgusto.

«Non so se ci andrà a letto, con Getulico, ma di sicuro stanotte si incontreranno per gli ultimi, sordidi particolari.»

«Rideranno credendo di averti in pugno, crede di poterti controllare.»

«Si crogiolerà in questa patetica vittoria, non m’importa se lo fa. Presto o tardi le passerà la voglia di ridere, perché le verrà quella di piangere.» Rimasero lì, zitti, fermi nella notte ora stellata e Marco fiatò una nuvola di grigio vapore, scaldando le mani davanti al viso. La fioca luce della sua stanza tremolò, forse Agrippina si era svegliata.

«Non riuscirò a dormire» disse a voce bassa.

«Lei lo farà, dopo. Prendi un po’ di sciroppo di papavero» replicò Aquilato.

«Essene dice che ottenebra la mente e io ho bisogno di tutte le mie facoltà, per quando colpiranno.» Ormai stava tremando. Così si avviò su per la scalinata ma prima di aprire la porta, si fermò sotto il colonnato, fin quando il freddo non lo sospinse di nuovo verso la stanza da letto.

Aquilato era sparito, senza una parola.