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 Mogontiacum, 793 a.U.c., quindicesimo giorno prima delle calende di gennaio (39 d.C., 17 dicembre)


La sala delle adunanze della legione non era più riconoscibile. Scudi d’argento e d’oro erano appesi lungo le pareti e tra loro scendevano tendoni scarlatti.

La terra che centinaia, migliaia di calighe di legionari avevano calpestato era nascosta da tappeti, su cui Caligola aveva appena appoggiato i divini piedi.

Nell’abside di fronte all’ingresso, dove Getulico era solito arringare i suoi uomini, era stata fissata una gigantesca aquila con le ali spalancate di fulgido argento. L’aquila di Roma.

La statua del dio Saturno troneggiava alle spalle del divino Cesare, che osservava assorto le danzatrici scalze e seminude che stavano concludendo la danza.

I sacerdoti erano appena usciti lasciandosi dietro l’odore di incenso, gli àuguri, gli indovini che avevano letto le interiora dopo il sacrificio, avevano predetto una nuova età dell’oro.

Quel giorno, il primo delle celebrazioni dei Saturnalia, Caligola si sentiva ispirato. Generoso. Osservò la sorella Agrippina che aveva lo sguardo vacuo. Livilla invece non smetteva di agitarsi su quel seggio, quasi fosse seduta su spine anziché su un morbido cuscino.

Fece un cenno, un lieve cenno della mano. Si sentì sollevare e la sensazione gli diede le vertigini.

Calcolò ogni gesto, ogni occhiata intorno a lui.

Quando passò sotto il sole la lorica d’oro brillò, accecando per un istante chi gli stava più vicino.

Lui era un dio, luce, potere su quel branco di stolti. Quando uscì all’aria aperta, udì il boato festoso dell’intera legione.

Marco Quinto Rufo seguì il corteo imperiale con metà dei suoi batavi, subito dopo la Guardia Pretoriana.

Dietro di lui si incuneò la prima coorte, Getulico guidava il corteo in testa tra il seggio imperiale e una centuria di legionari, scelti tra quelli più anziani ed esperti.

La processione uscì dal castra sfilando tra ali di folla e si diresse al porto, dove attendevano la trireme e una decina di liburne, che avrebbero scortato Caligola nel breve tragitto fino al cenotafio di Druso, a un miglio dalla fortezza.

Qualcuno si schiarì la voce.

Nell’ombra dei cespugli, sull’isolotto in mezzo al fiume, stava un gruppetto di uomini.

Uno di loro si grattò la barba rossiccia e fissò la figuretta insignificante seduta sulla portantina. Sputò per terra.

Qualcuno dietro di lui pronunciò una sordida imprecazione.

«Zitti. Muovete solo le mani per incoccare le frecce quando vi darò il segnale.» Una striscia di pece correva davanti a loro e una piccola fiamma ardeva dentro a una lucerna, quella che avrebbe fornito di che incendiare i dardi destinati alla trireme imperiale.

«Quei bastardi avranno di che divertirsi, tra poco» borbottò un altro, incapace di trattenersi.

Ancora pochi istanti e dato che Getulico, il traditore, li aveva pagati con monete d’oro zecchino, sarebbero stati ricchi e introvabili.

Quello che sembrava il capo si voltò.

La canoa per la fuga era lì, a pochi passi, per solcare la corrente in un battito di ciglia. Sulla riva opposta, cinque cavalli pronti, uno per ciascuno.

Cavalli germani abituati ai terreni sconnessi, a correre per miglia e miglia come il vento.

Niente poteva fermarli. Nessuno.

Lo scompiglio provocato a bordo avrebbe permesso a Getulico di affondare una lama nel petto dell’imperatore e tagliare la testa al serpente.

Che si ammazzassero pure tra di loro, quegli sporchi romani. L’uomo si accucciò e, con un gesto brusco, intimò ancora una volta il silenzio.

Non si voltò più a guardarsi le spalle.

Peggio per lui.

In quel momento, proprio dalla sponda su cui egli sperava di scomparire per sempre, una decina di uomini si stava immergendo nell’acqua in un tetro, sorprendente silenzio.

Erano teste coperte da cappucci scuri, che si confusero nel gorgoglio delle acque gelide. Corpi solidi, affini al freddo. Sotto i cappucci, i capelli dorati dei batavi di Rufo.

Caligola si voltò prima di appoggiare i piedi sulla passerella, sollevò un braccio verso la folla. Il cuore gli balzò nel petto. Lui era il padrone di quegli uomini forti e decisi, lui aveva il destino di Roma tra le mani. Chiuse i pugni e sentì le unghie nel palmo, l’acuto dolore gli riverberò tra costole e viscere. Da qui a Roma, tutto mio, tutto il mondo conosciuto, i soldati, la folla.

 Mio, tutto mio.

Getulico, l’inetto, sorrideva salutando con le braccia pelose; l’anello che portava al dito fu colpito da un raggio di sole.

Caligola gli scoccò un’occhiata tagliente. Se ne sarebbe liberato presto e, nauseato, distolse lo sguardo.

Troppo lontano da lui c’era Marco Quinto Rufo. Vaio, il mastino, lo teneva a bada indicandogli dove fosse il suo posto. Dove sarebbe stato relegato quel magnifico guerriero?

Un oltraggio. Voleva quel romano accanto, che sentiva quasi fratello.

«Getulico!» abbaiò e l’inetto si voltò, gli occhi inespressivi come le carpe che gli avevano servito nell’ultimo banchetto.

«Rufo. Lo voglio qui.»

«Ma divino Cesare, sarà più utile a bordo della liburna. Sulla trireme, accanto a te, ci siamo io e i miei uomini più fidati.»

«Qui. Ora.» La sua voce sembrava indifferente ma sapeva che il suo sguardo era sanguinario, vendicativo, quasi folle.

Getulico sentì uno spasimo stringergli lo stomaco, forse lo stesso di tutti quelli che a Roma erano morti suicidi ai piedi di quel giovane pazzo. Non riuscì a dirgli altro, il mantello eburneo di Caligola svolazzò via, i calzari tempestati di gemme sulla passerella che portava a bordo.

Imprecò ma fece un segno all’uomo tanto odiato, all’ostacolo dei suoi piani, l’ostacolo più temibile.

Marco Quinto Valerio Rufo.

Si consolò, pensando che non avrebbe mantenuto la promessa fatta alla puttana imperiale. Si sarebbe liberato di tutti loro, in un colpo solo. Lo spasimo si trasformò in un fremito eccitato, bruciante.

Il futuro era glorioso, davanti a lui.

«Aquilato, tu lungo il pontile insieme a Claudio e ai suoi uomini. Tieni a bada quelli di Getulico. Non sarà difficile, visto che quasi tutta la legione è dalla nostra parte.»

«Non mi piace, Marco. Vengo con te.»

«Non farmi perdere tempo, Quinto. Sai quello che devi fare.» Rufo fece per voltarsi ma Aquilato lo trattenne per un braccio.

«Sono peggio dei lupi, fratello romano. Ti sbraneranno come hanno tentato di fare quelli veri, nel mio villaggio.» Rufo gli sorrise, un sorriso senza allegria e si sottrasse alla presa.

«Non temere, amico mio. Ho un vantaggio su di loro e nessuno potrà sbranarmi, né me né l’uomo che abbiamo deciso di difendere.» Aquilato aprì la mano. Una rabbia cocente lo bruciò mentre osservava quel traditore di Getulico sorridere a Rufo, mentre gli ordinava di salire a bordo.

L’infame.

Presto la sua testa sarebbe stata infilzata su una picca, tagliata dalla lama perfetta di Brinnone, e il ghigno amaro della sconfitta avrebbe decorato il suo teschio. Per sempre.

La trireme si staccò dal molo con uno scossone ma né Marco né Caligola persero l’equilibrio, i piedi ben piantati sul ponte. I remi cominciarono a muoversi, dentro e fuori l’acqua, mentre la prua fendeva la corrente e dalla riva arrivavano ancora esaltanti grida di giubilo.

L’imperatore prese posto sul seggio che Tiberio Aulo Longino aveva fatto preparare, Marco individuò la sagoma affilata e cespugliosa dell’isolotto che stava per sfilare a sinistra.

Strinse le palpebre e si avvicinò di qualche passo alla balaustra, dopo una rapida occhiata a Getulico. Il legato lo stava studiando, la destra sul gladio, quando i loro sguardi si incrociarono, il legato si affiancò al trono di Caligola.

Il cuore di Marco cominciò a martellare nel petto.

Sullo sfondo del cielo invernale si stagliavano le torri del forte, le case del villaggio abbarbicato alle pendici del colle e, dall’altra parte del Reno, il castellum di avvistamento con lo sfondo occupato da una distesa di alberi e nient’altro.

Appena la trireme fu sulla stessa linea dell’isolotto, Longino si girò verso di lui e fece un cenno.

Marco si mosse e, proprio in quel momento, dal folto dei cespugli che coprivano il lembo di terra si levarono scie incandescenti, archi di fuoco sull’azzurro immacolato.

 Tump. Tump. Tump.

Le frecce si piantarono simultanee in punti diversi dello scafo e già un’altra raffica fendeva l’aria, poi un’altra, un’altra ancora. Poi la pioggia di fuoco, a un tratto, terminò.

Bene, pensò Rufo, i suoi batavi avevano provveduto e, da quel lembo di sabbia, non avrebbero più avuto nulla da temere.

Intorno a lui scoppiarono stupore e grida.

Due guardie pretoriane erano a terra, Vaio cominciò a urlare ordini mentre Longino si sbracciava verso i suoi uomini incitandoli a portare secchi di sabbia, per soffocare le fiamme.

La vela prese fuoco e il tessuto bruciò esalando un fumo spesso, che avvolse il ponte in un attimo.

Marco snudò il gladio e fece i pochi passi che lo separavano da Caligola.

L’imperatore stringeva spasmodico le mani sui braccioli intagliati, gli occhi sbarrati, increduli. La lorica d’oro e quel suo mantello candido furono per Rufo come il bagliore di una torcia, dentro a una caverna.

Qualcuno si parò davanti a lui, un corpo, una lama che cercò di impedirgli di avanzare ma era troppo furioso e, con un colpo di sbieco e un affondo dentro alla carne, si liberò.

Getulico aveva l’imperatore alle spalle, brandiva la spada contro un legionario con la palese intenzione di ucciderlo ma, dopo un colpo vibrato con tale forza che alcune scintille schizzarono dalle lame incrociate, si voltò alzando di scatto quella stessa arma sulla testa di Caligola.

«Getulico!» urlò Rufo con tutta la rabbia che aveva in corpo e, nello stesso istante, il traditore sussultò, commettendo un errore fatale: girò la testa verso di lui.

Marco non esitò a piantargli la lama là dove sapeva di eludere la resistenza della lorica, dal basso verso l’alto.

Il legato non urlò, il dolore era troppo grande, abbassò lo sguardo sul suo ventre.

Marco osservò le pupille dilatarsi di stupore, mentre spingeva la lama contro l’osso del bacino.

Lo lasciò così, per qualche istante, sostenuto dalla morte.

Poi non ci fu più tempo e tirò indietro il braccio, sentì un fiotto caldo bagnargli la mano, l’odore ramato gli colmò le narici, i sensi.

Non ci fu più tempo, no.

Perché qualcun altro si era avventato su Caligola, sbattendolo contro la balaustra.

Marco ruggì di rabbia mentre sentiva dietro di lui il rimbombo delle guardie pretoriane, che correvano sulla tolda della nave, fedeli ma in ritardo.

Non perse tempo a riflettere, con un balzo si protese sui due traditori che tentavano di portare a termine il compito ferale, gettando l’imperatore oltre la barriera di legno.

Scagliò il gladio con tutta la forza e questo sfiorò la gamba di uno dei due ma non fu sufficiente.

Caligola si dibatté, il suo corpo penzolò per qualche istante in una posa innaturale, la schiena e la testa oltre il parapetto. Bastò un altro gesto e precipitò giù, in una caduta impressionante.

Marco piantò nella gola di uno dei due il pugio affilato, che aveva sempre con sé. Uno schizzo di sangue gli bagnò la faccia e la gola quando recuperò il pugnale.

Un’ombra lo sovrastò.

Pronto per piantare il pugio nel collo dell’altro assalitore, fermò il gesto a mezz’aria: Longino aveva l’espressione, feroce e soddisfatta, di chi ha appena affondato con successo il gladio nel corpo di un nemico e gli fece un cenno di assenso.

Marco non perse altro tempo: tagliò con decisione i lacci che gli chiudevano la lorica, che cadde con un tonfo sul ponte di legno.

Longino lo afferrò per un braccio.

«Affogherà!» urlò disperato ma lui non si fece distrarre e, piegandosi, recise anche quelli che tenevano gli schinieri agganciati ai polpacci, tanto di fretta che si procurò una profonda ferita.

Non sentì nulla, salì in piedi sulla balaustra e guardò l’acqua che aveva ingoiato Caligola.

«Alzate i remi, alzate i remi!» Sentì ruggire Longino e, come un miracolo, le aste si alzarono all’unisono, come le braccia levate di un’immensa folla nell’ovazione agli dèi.

Allora si tuffò.

Strinse i denti in attesa dell’impatto.

Una scossa lo percosse dai piedi alla testa, un abbraccio così ghiacciato che gli sembrò rovente. Lasciò che le bolle svanissero verso l’alto ma non tornò in superficie. A un braccio da lui un bagliore, e in cuor suo – un cuore che gli era saltato nel petto – ringraziò gli dèi che Caligola indossasse quel fulgido oro.

Lo afferrò per i capelli mentre il mantello si gonfiava come un sudario e il suo peso immane lo attirava giù, verso il fondo.

 No, no!

Con un colpo di reni si oppose, con un ritmo forsennato mosse le gambe, mosse tutti i suoi muscoli che urlarono ‘no!’ insieme a lui.

Nettuno, proteggilo, pensò mentre il gelo gli strappava la carne.

Nettuno, aiutami, implorò ostinato, mentre con un ultimo sforzo usciva con la testa dall’acqua, poco prima di farsi scoppiare i polmoni.

Fu così traumatizzante respirare di nuovo che si accorse solo il quel momento che ancora stringeva il pugio, tra le dita.

La corrente li stava trascinando a valle e la trireme era dietro di loro, decorata di fili di fumo e facce attonite, troppo lontane per prestare soccorso.

Le liburne che si erano staccate dal molo pullulavano di uomini, ma nessuno di loro ebbe la prontezza, mentre i due naufraghi sfilavano tra gli scafi, di lanciare loro una cima.

Marco agguantò meglio Caligola per il collo, ancora svenuto.

Teneva i denti così serrati che gli facevano male.

Con la mano libera, tremante e quasi bloccata dal freddo, con quella lama, cercò di sganciare la maledetta lorica dorata che voleva farli a tutti i costi affondare.

Nettuno, dammi la forza!

La corazza si aprì come un’ostrica e affondò veloce, mentre Marco non smetteva neppure per un istante di muovere con frenesia le gambe e il bacino, tenendo sollevato l’uomo inerme, cercando col braccio libero di darsi una direzione.

Poi alzò lo sguardo. Alla sua destra vide il pontile e, in piedi come un dio pagano, Aquilato, una cima arrotolata intorno al braccio.

Sfinito e quasi paralizzato dal freddo, Marco si abbandonò alla corrente col prezioso fardello, raccolse le forze, si concentrò.

 Nettuno, siamo nelle tue mani.

Vide il batavo fare un gesto e poi tornare immobile.

Uno, due, tre, contò e in quell’istante, con un impeto che avrebbe fatto impallidire un atleta di Olimpia, il batavo effettuò il suo lancio.

La cima si srotolò nel cielo fino a frustare l’acqua con un breve gorgoglio, a un palmo da lui. Marco allungò di scatto il braccio, aprì le dita, sentì la ruvida consistenza, strinse forte.

Strinse.

Strinse la salvezza, l’arrotolò frenetico attorno al polso e aveva appena terminato quando uno strattone brusco, violento, quasi gli disarticolò il braccio dalla spalla. La cima si tese sopra l’acqua, sgocciolante, unico legame che lo stava strappando al Reno.

Restò fermo, la mano serrata in una morsa dolorosa, non c’era più sangue, era tutto confluito al cuore che batteva e batteva, nella gola, nelle orecchie, nel suo polso; Numi immortali, quasi non lo sentiva più, stava per spezzarsi sconfitto dal gelo e dal dolore.

Si sarebbe frantumato e il braccio sarebbe saltato via, strappato, straziato.

 Stringi forte, non mollare, resisti.

Voglio uscire da qui, da questo gelo impossibile che mi intorpidisce le membra e il cervello, pensò.

Strattoni, lunghi e cadenzati, ancora e ancora.

D’un tratto, l’aria gelata sostituì l’acqua e si sentì afferrare da mani bollenti, tizzoni di fuoco, qualcuno gli tirò via il peso inanimato, un peso che non voleva mollare.

Faticarono non poco ad aprirgli il braccio, lui non lo sentiva più, non sentiva più niente se non una paralisi che gli stava annebbiando i sensi.

Si girò su sé stesso, i denti che battevano tra loro senza controllo, tutto il suo corpo fu investito da un fremito, da un tremore indicibile che voleva frantumargli le ossa.

Uno scalpiccio e il pontile vibrò sotto il suo corpo, qualcuno lo rivoltò, lo racchiuse in qualcosa di caldo e asciutto.

Sentì tossire e vide due batavi che mettevano Caligola su un fianco. Dalla bocca, dalla maschera pallida e impressionante uscì un fiotto liquido, tra devastanti sussulti, un rantolo ma non capì da dove venisse quel rumore gracchiante.

E poi la voce di Claudio Seiano Galbato e i legionari che tenevano lontana la folla, una barriera di scudi e di corpi e di gambe.

«Respira!» gridò un ufficiale chino sull’imperatore.

«È vivo!» E il cuore di Marco tornò a battere furioso e il sangue a scorrere, a mandargli fitte ovunque, negli arti, nel petto.

Era vivo! Ce l’aveva fatta.

Piedi e gambe si spostarono e lui vide il corpo del divino Cesare sostenuto da due pretoriani e Vaio che sorrideva, piegato su di lui.

Caligola dilatò le narici e l’aria fredda gli riempì i polmoni che bruciavano.

Dolore e rabbia si dilatarono nel suo respiro ma le mani su di lui erano calde, amiche. C’era stato il gelo ma ora sentiva il sole su di sé, voci, frenesia.

I denti battevano, non riusciva a controllarli.

Non aveva potuto opporsi, aveva avuto paura, molta paura. Il buio, la morte.

Spalancò gli occhi, cercò la luce, il calore, i suoi simili. Non smise di tremare e la prima cosa che vide, nella sua seconda vita, fu Rufo.

I loro sguardi si intrecciarono e sussultò perché in quello sguardo, fosco come il fondo del fiume che aveva appena cercato di ingoiarli, vide il guizzo di una feroce, irriducibile tenacia.

Lui era lì, lo aveva strappato dalle fauci ghiacciate.

Lui era lì, il suo lupo romano.