Il Graeculus in Grecia
Quando Adriano venne al mondo (tav. 1), il 24 gennaio del 76 d.C., già da un paio di secoli l’aristocrazia romana esibiva la greco-mania per distinguersi in società. Prendiamo per esempio Cicerone. Il suo più caro amico era Titus Pomponius, soprannominato Atticus per aver trascorso quasi vent’anni ad Atene. Cicerone non era nobile di nascita ma desiderava apparire in tutto e per tutto come aristocratico, anche attraverso l’amore (certamente genuino) per la Grecia. Nel 79 a.C. aveva soggiornato per sei mesi ad Atene con un gruppo di parenti e amici, aveva frequentato filosofi e oratori e si era fatto iniziare ai Misteri di Eleusi. Eleusi era uno dei più famosi santuari della Grecia dedicato alla dea Demetra, nel quale si svolgevano segreti e inconfessabili rituali: Cicerone disse che quell’esperienza gli aveva fatto capire i principi delle cose e delle vita, insieme alle ragioni per vivere bene e per morire con una speranza. Nelle sue proprietà faceva costruire edifici alla greca e li chiamava con nomi greci, come il Laconicum nella residenza sul Palatino (una sauna o un giardino, da Laconia: la regione dove si trova Sparta) o come l’Academia e il Lyceum nella sua villa di Tuscolo (i più famosi ginnasi di Atene dove Platone e Aristotele avevano fondato e insegnato le loro filosofie). Anche l’acquisto di statue greche era una fissazione, come si sa da diverse lettere ad Attico nelle quali si dimostra più preoccupato dell’arredamento che delle questioni politiche del suo tempo, alle quali si dedicava con ardore. Parlava, citava e scriveva in greco. Mandò il figlio a studiare ad Atene insieme ad altri rampolli romani (sperava diventasse filosofo ma scelse invece la carriera militare).
In una lettera ad Attico del 61 a.C. scrisse una frase diventata famosa: «Più di tutti gli altri siamo e siamo considerati filelleni» (et praeter ceteros philellenes et sumus et habemur). I romani avevano con i greci un rapporto ambiguo di amore e odio (e viceversa) e non facevano differenza tra greci, che erano anche quelli della Magna Graecia e della Sicilia, dell’Asia Minore, del Levante e dell’Egitto. Da una parte ammiravano i giganti del passato e si sentivano inferiori a loro, privi com’erano di un’eredità culturale comparabile (nell’Ellade avevano avuto inizio tutti i saperi e tutte le arti e c’erano ancora intellettuali, artisti, scrittori e sapienti molto rispettati). Dall’altra parte facevano di ogni erba un fascio, snobbavano i greci e gli orientali del presente, e se li figuravano superficiali, inaffidabili, corrotti, chiacchieroni, arroganti, molli, seduttori e pessimi soldati. Graecus e ancor più graeculus (grechetto) erano due parole che suonavano dispregiative e quando Roma conquistò la Grecia nel 146 a.C. il nome del nuovo possedimento non fu Graecia o Hellas ma Achaia.
I greci erano comunque utili come maestri, segretari e bibliotecari, come dotti da tenere in casa o da possedere come schiavi, da esibire all’occasione o da scambiarsi tra amici. Come esempio, vediamo ancora Cicerone e i suoi greci. Aveva seguito con entusiasmo i corsi di Filone di Larissa (la capitale della Tessaglia), un filosofo che era stato direttore dell’Accademia platonica di Atene e che si era trasferito a Roma. Ospitava un filosofo e matematico cieco, Diodoto, da cui ricevette anche centomila sesterzi in eredità. Attico gli aveva passato un ex schiavo, Marcus Pomponius Dionysus, per fare da tutore al figlio (insieme a uno schiavo ciceroniano di nome Crysippus) e per fargli da assistente. Aveva come bibliotecario Tirannione, un prigioniero di guerra da Amiso sul Mar Nero, che aveva anche competenze in filosofia, grammatica e geografia.
Molti di questi sedicenti filelleni rimanevano però profondamente romani e la cultura greca era spesso solo una posa per fare bella figura o uno smalto che veniva via facilmente, come accadeva per la nobiltà russa pre-rivoluzionaria che rimaneva slava nonostante usasse il francese nelle conversazioni e nelle lettere, passasse molto tempo a Parigi o in Costa Azzurra e impiegasse precettori francesi per istruire i figli.
Anche Adriano deve aver avuto insegnanti greci, come si conveniva ai figlioli delle famiglie più elevate (ma di loro niente sappiamo). Un biografo del IV secolo d.C. lo descrisse come un ragazzo molto zelante negli studi delle dottrine greche, di cui si era pienamente imbevuto e alle quali sembrava portato per predisposizione naturale: la sua ellenomania andava però oltre le righe e in diversi lo canzonavano con il classico nomignolo di graeculus. Nella tradizione ellenistica cavalli, cani e filosofia erano indispensabili nella formazione dei giovani nobili. Adriano era maniaco anche della caccia che, al pari del suo filellenismo, veniva giudicata eccessiva, tanto che l’imperatore Traiano (suo tutore da quando era diventato orfano di padre a dieci anni) fu costretto a richiamarlo a Roma dalla Spagna, dove era andato a fare il servizio militare. La passione per l’ippica gli rimase sempre: quando il cavallo favorito Boristene morì, lo seppellì in un sepolcro adeguatamente dotato di iscrizione e colonna.
Tra le città greche, soprattutto Atene godeva di una considerazione speciale, anche se negli affari internazionali di Roma o nelle guerre civili si era sempre messa dalla parte di chi aveva perso: con Mitridate contro Silla, con Pompeo contro Cesare, con Antonio contro Ottaviano. Silla la punì, Cesare fu più clemente: «Potete ringraziare i vostri antenati e non voi stessi», Augusto la trattò con freddezza. Molti romani mandavano i figli a studiare ad Atene. Altri si trasferivano per un periodo, o si ritiravano lì alla fine della carriera. I governatori di province orientali in viaggio per le loro sedi o sulla via del ritorno non mancavano di fare una sosta (Atene produceva negli animi saggezza e temperanza, come scrisse nel II secolo d.C. Luciano di Samosata). Seguivano corsi e conferenze, incontravano gli intellettuali, andavano in giro per monumenti o aspettavano che venisse il tempo per poter compiere le sacre cerimonie di Eleusi. All’occasione si portavano a casa anche qualche bel cimelio antico.
Adriano vide Atene per la prima volta a 36 anni nel 112-113 d.C., quattro o cinque anni prima di diventare imperatore (in Attica il calendario era diverso da quello di Roma: l’anno iniziava con la prima luna nuova dopo il solstizio d’estate e per questo le date dei soggiorni di Adriano ad Atene – non conoscendo i giorni precisi – possono oscillare in un biennio). Non sappiamo quanto tempo rimase in città, né da chi fosse accompagnato, dove abitasse e che cosa abbia fatto. Quel che si sa è che gli ateniesi furono onorati della sua presenza (forse anche gratificati in concreto) e che lo considerarono uno di loro, tanto da dargli la cittadinanza. Era il primo senatore romano della storia a diventare anche ateniese, fu onorato con la nomina ad arconte (il più importante magistrato locale che dava il nome all’anno) e con una pubblica statua di bronzo nel Teatro di Dioniso, con il basamento di marmo incassato nelle gradinate: l’iscrizione con la formula in latino declamava tutto il suo cursus honorum civile, militare e religioso mentre le righe finali in greco erano più tecniche e si riferivano a chi aveva preso l’iniziativa: il Popolo, il Consiglio dei Seicento e l’Areopago.
Come nuovo cittadino doveva iscriversi a un demo (gli antichi distretti amministrativi dell’Attica) che fu quello di Besa, una contrada lontana da Atene dove si trovavano le miniere di argento del Laurio. Allo stesso demo era iscritto anche Filopappo, in latino Caius Iulius Antiochus Epiphanes Philopappus: vale la pena di soffermarsi su questo soggetto, perché fu forse uno degli ispiratori di Adriano nel rapporto che stabilì con Atene.
Il nonno di Filopappo (Philopappos in greco significa «affezionato al nonno») era Antioco IV di Commagene (un reame lungo l’Eufrate), imparentato con famiglie reali di mezzo Oriente; secondo certe usanze levantine aveva sposato la sorella. Era cresciuto a Roma, amico del popolo romano e fedele alleato degli imperatori ma a un certo punto si ribellò e fu costretto a un esilio dorato. Il padre di Filopappo si chiamava Giulio Epifane, la madre Claudia Capitolina e apparteneva a un’eminente casata greca di Alessandria (era anche imprenditrice e si firmava altezzosamente Regina Capitolina). Aveva una sorella, Giulia Balbilla, rinomata come poetessa che rifaceva il verso a Saffo. La famiglia di Filoppappo era ricca e internazionale, i membri vivevano separati e facevano la spola tra Roma, Alessandria e Atene. Filopappo stava più che altro ad Atene, dove era molto in vista, cittadino, arconte e agonoteta (presidente dei festival cittadini), frequentava l’intellighenzia dell’epoca, tra cui il poligrafo, serio e stimato Plutarco di Cheronea, un intellettuale di vecchio stampo che dedicò a lui l’opuscolo intitolato Come distinguere l’amico dall’adulatore. Plutarco morì poco dopo l’inizio del principato di Adriano che lo aveva nominato governatore della Grecia.
Nessuno scrittore antico ne parla e non abbiamo prove concrete, ma è molto probabile che Adriano e Filopappo si siano incontrati e frequentati ad Atene e poi forse già a Roma quando Filopappo era console nel 109 d.C. Il loro demo era lo stesso, Balbilla diventò molto amica di Sabina e nel 130 d.C. scortò la coppia imperiale in crociera sul Nilo, lasciando alcuni graffiti poetici sui colossi funerari di Tebe. Quando nel 116 d.C. Filopappo morì gli fu fatto un mausoleo (che è ancora al suo posto) in cima a un’alta collina di Atene, visibile dal mare e da terra come il Partenone. La sua storia personale e le tradizioni familiari, la considerazione di se stesso e la sua ricercata apparenza furono narrate nel monumento, per immagini e con scritte. In una quinta semicircolare in direzione dell’Acropoli compariva Filopappo al centro, seduto tra il nonno e il babbo, tutti e tre seminudi come fossero dèi o eroi orientali. Nel rilievo sottostante Filopappo era invece vestito con la toga del console, in piedi sopra un cocchio a quattro preceduto da littori, come fosse un trionfatore romano. Le iscrizioni che lo commemorano sono in greco e in latino, a segnare al pari delle immagini il suo bilinguismo culturale. Quella latina elenca tre momenti fondamentali della sua vita nell’apparato dello Stato romano e del suo curriculum: il consolato, l’appartenenza al collegio dei Fratelli Arvali (risaliva alla fondazione di Roma e si dedicava a culti agresti, accettava solo patrizi che ci rimanevano a vita), la nomina a senatore fatta da Traiano. Le iscrizioni in greco sono didascalie essenziali che identificano ogni membro della famiglia. Quella di Filopappo dice: «Re Antioco Filopappo (figlio) del re Epifane (figlio) del re Antioco». Ai romani si presentava come un alto funzionario, in Oriente e ad Atene come re (così lo chiama anche Plutarco), figlio di re e nipote di re (ma fino a un certo punto, se si pensa che solo il nonno aveva avuto uno status regale).
Il filellenismo di Adriano è diventato topos incrollabile. Non sappiamo fino a che punto la sua passione per la Grecia sia stata anche una posa esuberante e per alcuni un po’ comica (almeno in gioventù), considerando Atene e l’Ellade «il palcoscenico delle sue vanità». Cuius regio, eius religio: Adriano aveva un abito per ogni occasione. Ad Atene era arconte e a Roma vestiva i panni di Romolo o Numa, nel Lazio assumeva magistrature del passato remoto, a Napoli era demarchos (come si chiamavano i magistrati supremi), in Egitto era il faraone, in Etruria era etrusco e capo di una federazione di città-stato morte da secoli. Adriano è un fenomeno di cultural appropriation, come si direbbe oggi. Ma gli imperi devono essere onnicomprensivi e gestire un miscuglio di diversità etniche e culturali, che si riducono e si esauriscono solo con il tempo. Oggi gli imperi sono mal visti, considerati ordini politici che portano distruzione e sfruttamento e che vanno contro il principio sacrosanto dell’autodeterminazione dei popoli. Le élites imperiali utilizzano i profitti delle conquiste a vantaggio di se stesse e della popolazione dominante ma talvolta anche a beneficio di comunità favorite e più fortunate, come Atene durante il principato di Adriano. Il filellenismo di Adriano fu reso possibile e concreto anche per l’esistenza dell’impero e per la devoluzione di denaro imperiale.