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Caine annusò nervosamente l'aria. Era fredda e sterile, con una lieve traccia di alcol. Passò le mani sulle lenzuola inamidate e capì di essere in ospedale. Aprì gli occhi piano piano, temendo che il mondo fosse ancora oblungo e distorto, ma era tutto in proporzione, solo un po' sfocato perché non aveva le lenti a contatto. Alzò il braccio per sfregarsi le palpebre appiccicose e notò l'ago della flebo infilato nel dorso della mano. Provò uno strano senso di déjà vu, come se si fosse già svegliato in quel letto altre volte e avesse pensato le stesse cose.

Si domandò da quanto tempo fosse lì.

“Da circa otto ore, fratellino. Andavi e venivi, parlavi nel sonno. Bentornato.”

Sbigottito, Caine girò la testa di scatto verso sinistra. Jasper gli stava facendo ciao con la mano. Caine trattenne il respiro, pensando: Ecco che faccia avrei se diventassi pazzo.

Jasper aveva un aspetto orribile. Era terreo e la pelle sembrava tesa sulle ossa della sua struttura allampanata. Nonostante ciò, il luccichio negli occhi verdi e infossati ricordò a David Caine l'intelletto fervido intrappolato nella mente tormentata del fratello.

“Non sapevo che...” a Caine mancavano le parole. “Cioè, accidenti, sei qui. E fantastico.”

“Non ti preoccupare, puoi dirlo” disse Jasper, spostando il peso da un piede all'altro. “Non sapevi che sono uscito dal manicomio.”

Caine sembrò imbarazzato, poi annuì. Suo fratello riusciva sempre a leggergli nel pensiero.

“Eh già” disse Jasper, con un tono stanco e divertito allo stesso tempo. “Quei bravi ragazzi del Mercy mi hanno dato il certificato di fine malattia venerdì scorso. Sono fuori da quasi una settimana ormai.”

“Cristo santo, ma perché non mi hai chiamato?”

Jasper alzò le spalle. “Non lo so. Forse prima volevo chiarirmi un po' le idee. A proposito, grazie per essere venuto a trovarmi.”

Caine ebbe un sussulto. “Jasper, mi...”

Jasper alzò una mano a mo' di stop. “Lascia stare.” Si girò dall'altro lato e rimase a fissare fuori dalla finestra prima di rompere il silenzio. “Scusa. Lo capisco. Probabilmente neppure a me sarebbe venuta voglia di andare a trovare qualcuno in quel postaccio.”

“Avrei dovuto venire lo stesso.”

“Be',” disse Jasper con un sorriso ammiccante, “c'è sempre una prossima volta.”

I due fratelli rimasero in silenzio per un attimo e poi, nello stesso momento come è tipico dei gemelli monozigotici scoppiarono a ridere. Era una bella sensazione. A Caine sembravano passati secoli dall'ultima volta che aveva riso davvero, e ancora di più da quando aveva riso col suo fratellone. Anche se era uscito dall'utero materno con un vantaggio di soli dieci minuti rispetto a David, Jasper non gli avrebbe mai permesso di dimenticare chi era il maggiore.

“Come facevi a sapere che ero qui?”

“Uno specializzando mi ha chiamato al cellulare dopo che ti hanno ricoverato. Quando sono arrivato l'infermiera mi ha detto che hai avuto una crisi epilettica.”

Caine annuì.

“Mi ha anche detto che è già un anno che ti capita. Evidentemente pensava che lo sapessi. Ti va di mettermi a parte-carte-marte-sarte?”

Caine guardò Jasper intimorito, ma il fratello iniziò a sghignazzare come se avesse appena fatto la battuta più buffa del mondo. Qualunque cosa gli avessero fatto all'istituto di Igiene mentale, non era stata sufficiente. In quel momento Caine riconobbe l'altra cosa che il luccichio nello sguardo del fratello gli ricordava: la malattia di Jasper.

“Che altro ha detto l'infermiera?” chiese, cercando di ignorare lo strano comportamento di Jasper.

“Non molto, tranne che è stato un episodio piuttosto grave. Secondo i tuoi amichetti russi, sei rimasto privo di sensi per una ventina di minuti prima che arrivasse l'ambulanza.”

“Merda” disse Caine, chiedendosi all'improvviso quale fosse stata la reazione di Nikolaev vedendolo crollare a terra. “Hanno dovuto chiamare il pronto intervento?”

“Esatto” rispose Jasper. “A proposito: che ci facevi in un ristorante russo sulla Avenue A alle due del mattino?”

Caine alzò le spalle con aria innocente. “Hanno una vodka fenomenale.”

“Certo, ci scommetto. O dovrei forse dire: ci scommetti?” Jasper alzò un sopracciglio.

“Direi che non sarebbe del tutto impreciso.”

“Di quanto sei sotto?”

“Di niente, sono in pari” rispose Caine un po' troppo alla svelta.

“Se è così, come mai Vitalij Nikolaev ha telefonato tre volte per sapere come stavi?”

Le spalle di Caine si affossarono. “Dici sul serio?”

“Serissimo, fratellino. A meno che non voglia mandarti un po' di vodka per la convalescenza, mi sa che è preoccupato per i suoi soldi. Quindi te lo chiedo di nuovo: di quanto sei sotto?”

Caine chiuse gli occhi e cercò di ricordare quell'ultima mano. Mentre gli riaffiorava nella mente annebbiata, gemette. “Uno e uno” disse, senza aprire gli occhi.

“Mille e cento? Dai, poteva andare peggio. Mi sa che ho un certificato di deposito che potrei incassare...”

“No.”

“E dai, David, mi fa piacere aiutarti.”

“Sì, ma non gli devo mille e cento.”

“E quanto allora?” Caine si limitò a fissare la faccia stravolta del gemello. “Porca troia” disse infine Jasper quando si rese conto della somma. “Undici pali?”

Eh già.

“Cristo santo, David! Come hai fatto a perdere così tanto?”

“Il fatto è che non avrei dovuto perdere, era un colpo sicuro.”

“Mica tanto.”

“Senti, Jasper, ho già abbastanza rogne senza che tu venga a sputare sentenze. Ho scazzato. Lo ammetto, ok? L'ultima volta mi pare che sia stato tu a scazzare un paio di cosette.”

Jasper sospirò e si accasciò in una delle poltroncine arancione fluorescente dell'ospedale. “Cos'avevi in mano?” gli chiese, nel chiaro tentativo di appianare le cose dopo lo sfogo di Caine.

“Poker.”

“Basso?”

“No. Poker d'assi.”

Jasper fece un fischio. “Hai perso con quattro assi? Merda” disse con tutto rispetto. “Com'è possibile?”

“L'altro ha beccato una scala reale all'ultima girata.”

“Accidenti” disse Jasper, scuotendo la testa. “Quanto tempo hai per ridargli i soldi?”

“Conoscendo Vitalij, vorrà la prima rata per domani. Ma visto che sono un amico, magari mi lascerà slittare alla fine della settimana prima di ordinare a uno dei suoi scagnozzi di mandarmi in ospedale per più tempo.”

“A sentire l'infermiera ci stai già pensando da solo a farti un certo periodo in ospedale.”

“Eh già. Fondamentalmente, se non mi ammazza Nikolaev, ci penseranno le convulsioni.”

“Cristo santo” disse Jasper, con voce partecipe. “L'ultima volta che ti ho parlato eri sano come un pesce e non giocavi da quanto? Un anno? Che diavolo è successo?”

Caine non sapeva cosa rispondere. La realtà della sua situazione cominciava a opprimerlo. Quell'ultimo anno era stato un unico gigantesco deragliamento. Dio, era già passato un anno da quella prima crisi? Possibile che fosse così tanto? Poi si rese conto che si trattava invece di un anno e mezzo dall'ultima volta che si era trovato davanti a una classe come assistente. Provò un vuoto allo stomaco. Strano. Pensava che ci volesse più tempo per mandare a puttane una vita.

Si sbagliava, evidentemente.

 

Al contrario della maggior parte degli assistenti nel dipartimento di Statistica, Caine adorava insegnare. Dopo la sua prima lezione, scoprì che aveva il dono di trasmettere la propria passione per la statistica agli studenti in modo da affascinarli ed emozionarli al tempo stesso.

Anche se non era precisamente la stessa esaltazione che provava nel vincere forte a poker, aprire la mente dei suoi studenti al mondo della probabilità aveva un che di elettrizzante. Per una strana ironia della sorte, era stato proprio il fatto di perdere tutti i suoi soldi nelle bische clandestine in giro per la città che l'aveva portato in cattedra. Non aveva scelta: aveva bisogno di soldi e, come dottorando del quarto anno alla facoltà di Statistica della Columbia University, tenere il corso di Introduzione alla teoria della probabilità era l'unico lavoro che poteva trovare.

Visto che era completamente a secco sia di contante che di credito, non potè giocare a poker fino alla prima busta paga. Ma quando lo pagarono, Caine si rese conto che gli era passata la voglia di giocare. Quella sera, invece di sognare le carte, sognò la lezione del giorno dopo.

Fu allora che le cose cominciarono a girare in un altro modo. Certo, la mattina dopo si svegliò di nuovo con quella sete e struggimento che solo un vero giocatore può comprendere, ma si sforzò di scacciare quei pensieri e incanalarli nell'attività accademica. L'insegnamento gli aveva finalmente dato quello che decine di incontri con i Giocatori anonimi non erano riusciti ad assicurargli: la padronanza di sé.

I due mesi seguenti erano trascorsi quasi pacificamente a mano a mano che lui imparava a dominare la sua dipendenza. Per un po', Caine credette davvero che le cose stessero finalmente andando per il verso giusto: poi tutto andò in frantumi.

Ricordava ancora il momento esatto in cui la sua vita aveva iniziato a disfarsi. Era successo nello stesso posto in cui le cose avevano cominciato a ingranare: in classe. Se ne stava appoggiato alla lavagna, con un gessetto in una mano e un bicchiere di plastica pieno di caffé nell'altra. Era stato allora che si era lanciato nella sua improvvisata lezione di storia.

“Dunque, qualcuno di voi sa da cosa è nata la teoria della probabilità?”

Silenzio.

“Ok, provo a darvi più risposte. La teoria della probabilità nacque dal carteggio tra due matematici francesi che discutevano di: (a) fisica, (b) filosofia o (c) dadi.”

Silenzio. “Se nessuno alza la mano entro cinque secondi, questa domanda ve la ritroverete all'esame.” Venti mani schizzarono in aria. “Così va meglio. Jerri, secondo te?”

“Fisica?”

“No. La risposta esatta è (c): dadi.

“L'uomo che pose i principi della probabilità era nato nel 1623 e si chiamava Blaise Pascal. Come molti bambini privilegiati dell'epoca, Pascal venne istruito in casa, da suo padre e da una serie di precettori. Tuttavia, dato che il padre di Pascal non voleva che il figlio si spezzasse la schiena di lavoro, decise che Blaise doveva concentrarsi sulle lingue e ignorare la matematica.

“Come ogni bambino normale, il fatto di vedersi proibire la matematica non fece che alimentare la curiosità di Pascal che quindi decise di studiare geometria nel tempo libero.” Un paio di studenti alzarono gli occhi al cielo e Caine aggiunse: “Sentite, questo prima della Xbox e della PlayStation 2: non c'era molto che un ragazzo potesse fare per divertirsi”. Risatine.

“Quando il padre si accorse che Blaise aveva un dono naturale per i numeri, lo incoraggiò regalandogli gli Elementi di Euclide: ribadisco, all'epoca non c'era la tv né niente del genere perciò la gente leggeva delle cose chiamate libri.” Con questa strappò un paio di risate. “Comunque, dopo che lo vide divorare Euclide, il padre ingaggiò i migliori precettori di matematica, e questa si dimostrò una mossa saggia, dato che Blaise Pascal divenne uno dei più importanti matematici del XVII secolo.

“Tant'è vero che una delle sue invenzioni ha influito sulla vita di tutti i presenti. C'è nessuno che sa di cosa sto parlando?”

“L'abaco?” tirò a indovinare una ragazza dall'aria un po' scema.

“Temo che tu stia confondendo i francesi con gli antichi cinesi” rispose Caine. “Anche se eri sulla pista giusta. Pascal inventò la prima macchina aritmetica, che si è evoluta nei secoli fino a diventare la nostra moderna calcolatrice. Nel corso della vita studiò matematica e fisica, anche se per ironia della sorte qualche anno prima di morire rinunciò alla sua ossessione per i numeri, perché dimostrò con un metodo quantitativo che gli sarebbe convenuto impiegare il suo tempo a concentrarsi su religione e filosofia.”

“Come ha fatto?” domandò uno studente barbuto in ultima fila.

“Bella domanda, ci arriverò tra un attimo. Ora, dov'ero rimasto? Ah, sì. “ Caine bevve un sorso di caffé e proseguì. “Nel 1654, prima che Pascal abbandonasse i numeri, un aristocratico francese di nome Chevalier de Méré gli pose una serie di domande. Affascinato dai problemi matematici sollevati da tali domande, Pascal cominciò uno scambio epistolare con un vecchio amico di suo padre, un consigliere del governo in pensione di nome Pierre de Fermat.

“Il caso volle che de Méré fosse un giocatore d'azzardo incallito e la sua domanda riguardava un famoso gioco in cui bisognava lanciare quattro dadi. Se il giocatore riusciva a farlo senza che uscisse un sei, vinceva una somma pari a quella che aveva puntato, ma se invece usava un sei, vinceva il banco. De Méré voleva sapere se le probabilità erano a favore del banco o no.

“Ora, se vi resterà una sola cosa di questa lezione, spero che sia questa.” Caine andò alla lavagna e scrisse a lettere cubitali:

LE PROBABILITÀ SONO SEMPRE A FAVORE DEL BANCO.

Ottenne qualche risata di apprezzamento. “Qualcuno di voi sa dirmi il perché? Jim.”

Lo studente preferito di Caine si raddrizzò sulla sedia. “Perché se le probabilità non fossero a favore del banco, il banco perderebbe più soldi di quanti ne vincerebbe, e alla lunga addio banco.”

“Esatto” disse Caine. “A mio parere, de Mère avrebbe potuto arrivarci da solo già prima della nascita della teoria della probabilità, ma d'altra parte, se gli aristocratici francesi fossero stati svegli probabilmente non li avrebbero ghigliottinati in massa.

“A ogni modo, Pascal e Fermat diedero una dimostrazione matematica guarda, guarda del fatto che le probabilità erano, in effetti, a favore del banco. Dimostrarono che se un giocatore lanciava i dadi cento volte, probabilmente per 48 volte non gli sarebbe uscito un sei e avrebbe vinto, ma per 52 volte gli sarebbe uscito un sei e avrebbe perso. Quindi le probabilità erano a favore del banco: 52 a 48. E fu così che nacque la teoria della probabilità: perché un aristocratico francese voleva sapere se scommettere che non gli sarebbe uscito un sei su quattro dadi era una mossa intelligente o meno.”

Alcune teste annuirono, gesto che Caine aveva imparato a decifrare come mmm, interessante. Uno studente afroamericano in fondo all'aula alzò la mano. “Sì, Michael?” chiese Caine.

“Come ha fatto Pascal a provare che doveva dedicare la vita alla religione?”

“Ah, già, me n'ero quasi scordato” disse Caine. “Utilizzò una teoria che in seguito fu chiamata del valore atteso. Basta sommare i prodotti ottenuti moltiplicando le probabilità di una serie di eventi per quello che si ricaverebbe dal concretizzarsi di ciascuno di questi eventi.”

Caine fu accolto da sguardi vitrei. “Mmm, d'accordo, facciamo un esempio pratico: la lotteria. Quant'è il jackpot del Powerball di questa settimana? Qualcuno lo sa?”

“Dieci milioni di dollari” suggerì un ragazzotto in ultima fila.

“Ok, per il momento facciamo finta di vivere in un mondo immaginario in cui non si pagano tasse. Ora, si da il caso che io sappia che le probabilità di vincere quel jackpot sono circa una su centoventi milioni, visto che tante sono le combinazioni numeriche possibili del Powerball. Ed ecco come si fa a calcolare cosa mi aspetto di vincere se pago un dollaro per un biglietto della lotteria: moltiplico la probabilità di vincere per la quantità di denaro che vincerei e poi la sommo alla probabilità di perdere moltiplicata per zero, visto che se perdo non vinco niente.

Valore atteso (biglietto della lotteria)

= Prob(di vincere) x jackpot + Prob(di perdere) x ($0)

= (1/120.000.000) x ($10.000.000) + (119.999.999/120.000.000) x ($0)

= (0,00000083%) x ($10.000.000) + (99,99999917%) x ($0) = $0,083 + $0,000 = $0,083

“Ciò significa che se questa settimana giocate al Power ball, vi potete aspettare di vincere solo 8,3 centesimi. Tuttavia, dato che il biglietto costa un dollaro e il valore è di 8,3 centesimi, secondo la teoria della probabilità non avrebbe senso giocare, perché il costo è superiore al valore atteso.

“Perciò, anche se potreste pensare che valga la pena sborsare un dollaro per avere la possibilità di vincere dieci milioni, vi sbagliereste, perché in realtà non varrebbe nemmeno dieci centesimi.” Caine bevve un altro sorso di caffé mentre lasciava sedimentare la sua ultima affermazione. Quando si sentì sicuro che tutti avevano capito, pose una domanda: “Quando, allora, ha senso giocare? Madison”.

Una biondina esuberante si raddrizzò sulla sedia. “Uhm, solo quando il jackpot è superiore ai centoventi milioni di dollari.”

“Giusto. Perché?”

“Perché se il jackpot fosse, per esempio, di centoventicinque milioni e le probabilità di vincere fossero di una su centoventi milioni, allora il valore atteso di ogni biglietto sarebbe di...” Madison si interruppe per inserire i numeri nella calcolatrice. “Un dollaro e quattro centesimi, ovvero più del costo di un dollaro.”

“Esatto” disse Caine. “Dal punto di vista del valore atteso, ha senso giocare soltanto quando il valore è superiore al costo. Di conseguenza, in questo caso dovreste giocare solo quando potete vincere più di centoventi milioni.”

“E allora, la decisione di Pascal di dedicare la propria vita alla religione?” chiese di nuovo Michael.

“Pascal utilizzò il valore atteso per dimostrarlo. Da bravo matematico, ridusse il problema a un'equazione: