Zoo 2000

di Richard Curtis

 

 

Titolo originale: Zoo 2000 

Traduzione di Lella Cucchi 

© 1973 Richard Curtis

Apparso sul n. 789 di Urania (24 giugno 1979) 

 

 

 

Steven Barber tirò il padre per un braccio.

— Andiamo a vederne un altro? Questo qui non è per niente interessante. 

Nella gabbia spaziosa il grosso felino sonnecchiava su un piano di cemento, agitando fiaccamente orecchie e coda per scacciare le mosche. 

Dopo aver ammirato nella gabbia adiacente il giaguaro sudamericano che lacerava un pezzo di carne, la vista di un leone addormentato era decisamente una delusione. Inoltre, Steven cominciava a trovare opprimente l’odore acre dei felini. 

Ma suo padre ignorò lo strattone e rimase a studiare la targa fissata alla ringhiera di protezione.

— Solo un momento. Hai letto cosa dice qui? 

— No — sospirò il ragazzo. — A quanto pare, fino alla metà circa del ventunesimo secolo il leone africano era di colore marrone-rossiccio. 

Steven guardò la belva assopita.

— Com’è che è diventato grigio? 

Il signor Barber finì di leggere.

— Così come sono cambiati tutti gli altri animali. 

— La Grande Metamorfosi, vero? 

— Proprio così, la Grande Metamorfosi. 

Il figlio annuì, poi alzò le spalle. Che differenza c’era? Un leone addormentato color grigio è noioso quanto un leone addormentato color marrone-rossiccio. 

— Vorrei che si tirasse su e facesse qualcosa — piagnucolò Steven, tirando al leone una nocciolina, che finì sul liscio fianco grigio dell’animale. 

Un muscolo della belva si contrasse, ma ci voleva ben altra provocazione per svegliarla. 

— Vorrei che lasciassi in pace gli animali — disse seccamente il padre. — Ti piacerebbe che qualcuno ti tirasse le noccioline mentre cerchi di dormire? 

Fece per prendergli il sacchetto, ma Steven promise di non farlo più, e il signor Barber lasciò correre.

Passarono alla gabbia successiva.

— Era questo il colore dei leoni, una volta? 

Il signor Barber osservò l’agile felino marrone-rossiccio che si spostava velocemente tra le sbarre della gabbia, emettendo suoni minacciosi. 

— Questo è un leopardo — disse, chinandosi a leggere la targa. — Sì, direi che i leoni erano di questo colore. — Continuò a leggere. — Mmm, interessante. 

— Cosa? 

— Una volta i leopardi erano a macchie. Piccole macchie nere, rotonde. 

— Perché? 

— Per mimetizzarsi. Le macchie li aiutavano a confondersi tra le ombre della boscaglia. 

— Anche i leopardi hanno perso le macchie nella Grande Metamorfosi? 

— Sì. Ed è per questo che sono quasi estinti. Sparito il colore protettivo naturale, è diventato per loro sempre più difficile avvicinare la preda senza essere visti e nascondersi agli occhi dei cacciatori. 

Steven chiuse per un attimo gli occhi e immaginò di essere un cacciatore. Che effetto fa guardare un mirino in fondo alla canna di un fucile, mentre la morte, cento chili di forza e zanne affilate, ti carica con un gran balzo? Il ragazzo fu scosso da un tremito, e notando che il padre era ancora assorto nella lettura della targa, lanciò una nocciolina contro il leopardo. Il missile sfiorò il muso della belva provocando un agghiacciante ruggito. 

— Andiamo via — disse il ragazzo. E mentre si dirigevano verso l’uscita del padiglione dei felini, si guardò nervosamente alle spalle. 

Si incamminarono lentamente lungo il viale nella tiepida aria primaverile, in direzione di uno schiamazzo di sbuffi, grida gutturali, tonfi e risate di bambini. Oltre la siepe, c’era la vasca delle foche, circondata da una fitta folla di bambini e genitori. 

Padre e figlio presero posto ai margini della folla, aspettando che qualcuno se ne andasse per potersi avvicinare al parapetto.

Mentre aspettavano, senza vedere ancora niente, Steven chiese: — Cos’è stata esattamente la Grande Metamorfosi? Cioè, so che ha cambiato un mucchio di cose, come gli animali, qui, ma... 

— Ha cambiato tutto — lo interruppe il padre, con enfasi. — Con ogni probabilità è stato l’avvenimento più importante nella storia della Terra dalla fine dell’ultima glaciazione. 

— Però non so ancora cos’è successo, oltre al fatto che c’entravano le radiazioni. Sono state le bombe atomiche? 

— No. Si è trattato di una forma diversa di energia atomica. Devi sapere che negli ultimi trent’anni del ventesimo secolo, gli uomini costruirono centinaia di centrali a energia nucleare per produrre elettricità. Ci fu ovunque una forte opposizione, dato che molti si rendevano conto che le centrali nucleari producevano anche radiazioni pericolose. Ma il mondo aveva bisogno di energia e aveva bisogno di elettricità. Così le centrali nucleari vennero costruite e messe in funzione. 

— Ma perché gli uomini le hanno costruite, se erano tanto pericolose? 

— Credevano che per evitare il pericolo di contaminazione sarebbe bastato adottare opportune misure di sicurezza. E in effetti, per un certo periodo, le misure di sicurezza furono sufficienti. Ma intorno al millenovecentonovanta avvennero parecchi incidenti disastrosi, esplosioni e fughe, che contaminarono l’atmosfera con gas radioattivi. I livelli delle radiazioni raggiunsero il punto critico e... — Guardò il figlio per essere sicuro che la sua attenzione non si fosse rivolta altrove. 

Il ragazzo si era aperto un varco in uno spazio lasciato libero da una famiglia. Ma appena si furono sistemati, Steven alzò lo sguardo e disse — E poi...? 

— Poi le radiazioni cominciarono ad avere un effetto negativo sulla struttura genetica di tutto quello che viveva sulla Terra. Praticamente su tutto. 

Steven lo fissò con uno sguardo inespressivo. Il signor Barber tirò un breve sospiro e iniziò una spiegazione succinta. Le caratteristiche peculiari di ogni specie vivente sono governate dai geni del loro sistema riproduttivo. Questi geni sono estremamente sensibili alle radiazioni, e se vi rimangono esposti abbastanza a lungo, possono subire alterazioni. Talvolta drastiche.

— Così, per esempio — spiegò al figlio, — un leopardo che sarà nato senza macchie trasmetterà questa caratteristica ai suoi piccoli, finché l’intera specie non avrà una pelliccia uniforme. È proprio quello che è successo su scala mondiale. Naturalmente, non è successo da un giorno all’altro. In alcune specie i mutamenti sono avvenuti subito. In altre, ci sono volute intere generazioni. C’è un altro esempio — disse ancora, ma in quel momento una coppia vicino al parapetto si voltò per andarsene, lasciando loro la visuale completa delle foche guizzanti nella vasca. 

Per un attimo videro solo striature marrone argenteo sotto la superficie dell’acqua. Poi apparve un inserviente in uniforme verde con un grosso secchio pieno di pesce. L’uomo lanciò qualche assaggio nella vasca. La superficie dell’acqua si aprì in un’esplosione di schiuma, mentre le foche la fendevano veloci per afferrare il cibo. 

Era ancora impossibile vedere qualcosa, oltre a un muso, di tanto in tanto. Ma appena l’inserviente salì sulla piattaforma di cemento proprio di fronte a Steven e a suo padre, le foche si catapultarono fuori dall’acqua. In un attimo circondarono l’inserviente tra i mormorii estasiati della folla. Erano sei: un maschio, tre femmine e due piccoli. 

Steven le osservò mentre mangiavano. Stavano accoccolate sulle zampe posteriori e acchiappavano i pesci con la bocca, aiutandosi a volte con le zampe, come fanno gli scoiattoli.

— Com’erano le foche, prima? 

— Certo non così — disse il padre, ridendo. 

Gli parlò delle foche pre-Metamorfosi: avevano code pinnate al posto delle zampe posteriori palmate, e pinne striminzite al posto delle attuali zampe anteriori, abbastanza lunghe da arrivare alla bocca e terminanti con vere e proprie mani. 

L’inserviente vuotò il secchio e se ne andò. Esaurito il clou della giornata, la folla si disperse rapidamente, dirigendosi verso altre attrazioni. 

— Cosa ne diresti di andare a vedere gli orsi? — suggerì il signor Barber. 

— D’accordo — disse Steven, lanciando alla foca maschio il sacchetto di carta con i gusci delle noccioline, mentre il padre gli voltava le spalle. 

La foca si avvicinò dondolando al sacchetto, lo annusò e lo fece scivolare in acqua con il naso.

Gli orsi erano sistemati all’aperto in una zona con caverne e pendii di cemento, alberi e laghetti in miniatura. Il recinto era diviso in sezioni per ciascuna specie di orsi, e l’intera zona era protetta da una cancellata. Per ulteriore precauzione, tra la cancellata e la ringhiera protettiva presso cui sostavano gli spettatori era stato scavato un fossato. 

— Questi orsi sono diversi da quelli del ventesimo secolo? — chiese Steven. 

— L’orso polare no. E neppure l’orso bruno — rispose il signor Barber. — Ma quello là, il grizzly, cioè l’orso grigio, è molto diverso, ovviamente. 

Si avvicinarono con cautela al recinto in cui era rinchiuso il terribile animale. Questa volta Steven non ebbe bisogno di chiedere spiegazioni. 

— Ehi, guarda! Ha tre occhi! 

Suo padre stava studiando la targa, come al solito.

— Qui dice che nelle epoche preistoriche molti erano probabilmente gli animali dotati di un terzo occhio posto al centro della fronte. Era un’estensione della ghiandola pineale situata nel cervello. Ma, a quanto pare, in seguito la natura aveva deciso che non era necessario e l’aveva gradualmente eliminato. Nel caso del grizzly, tuttavia, il terzo occhio ha avuto un rilancio insperato. Uh! Non è certo di mio gusto, te l’assicuro. 

Steven fissava affascinato il grizzly che, con la testa ballonzolante come quella di una tartaruga, arrancava verso la cancellata, si alzava sulle zampe posteriori e protendeva una zampa implorante. Il gruppetto degli spettatori indietreggiò, poi si rese conto che l’orso stava solo chiedendo qualcosa ad mangiare, e tornò ad avvicinarsi alla ringhiera di protezione. Gli spettatori cominciarono a gettargli bocconi. Steven si sarebbe preso a schiaffi per non avere conservato le noccioline. Poi notò che alcuni bocconi, caduti fuori della gabbia, si erano accumulati su una sporgenza della sponda opposta del fossato. Prima che il padre potesse fermarlo, Steven si era proteso sul fossato per raccogliere un pezzo di cibo. 

L’enorme zampa artigliata del grizzly calò su di lui, gli afferrò la mano e lo tirò con forza oltre il fossato. 

Il ragazzo lanciò un urlo di dolore mentre l’orso gli azzannava la mano e la maciullava con i suoi terribili denti. Tra gli spettatori, le donne lanciarono urla isteriche, e due uomini corsero a chiamare aiuto. 

Il signor Barber conservò sufficiente presenza di spirito da buttarsi in avanti e afferrare il figlio per le gambe. Qualcun altro prese a percuotere l’orso sul muso con un ombrello. Alla fine la bestia, infastidita, lasciò Steven, e mani premurose misero in salvo il ragazzo. 

Le ore successive furono un incubo confuso per il signor Barber. Un medico che si trovava tra la folla aveva improvvisato una benda e un laccio emostatico, facendo a pezzi la propria camicia. Finalmente, era arrivata un’ambulanza. Il signor Barber ricordava a malapena la folle corsa e il pronto soccorso dell’ospedale. A questo punto era svenuto. 

Tornò in sé nella penombra di una camera d’ospedale e per un attimo non riuscì a ricordare il perché della sua presenza in quel posto. Poi riacquistò la memoria e chiamò il figlio per nome. Un’infermiera che si trovava nel corridoio fece cenno a un medico, e un giovane barbuto entrò, bloccando la strada al signor Barber che stava per uscire. 

— Vi prego, signore, sedetevi. Vostro figlio è in buone mani. Le sue condizioni sono abbastanza serie, ma non è in pericolo di vita. — Il giovane medico fece cenno all’infermiera che gli porse un ago ipodermico. — La cosa migliore è che vi manteniate calmo. Questo vi aiuterà. 

Il signor Barber si sottopose all’iniezione e dopo un attimo avvertì l’azione sedativa del tranquillante propagarsi per il corpo. 

— Adesso mi sento bene. Vi prego, ditemi di Steven. 

L’espressione del medico era seria. — La mano ha subìto gravi lacerazioni, signor Barber. Abbiamo dovuto amputarla. 

— Oh, no! — gemette il signor Barber. — Mia moglie è stata... 

— Pare che non sia ancora tornata a casa, ma continueremo a cercarla. 

Ci fu un lungo silenzio, durante il quale il signor Barber lottò con le proprie emozioni e il medico con il proprio imbarazzo. Poi il medico disse — Non c’è molto da dire in occasioni come questa, purtroppo. Ma, ecco, non è la fine del mondo. Molte persone vivono bene anche senza una mano e, naturalmente, abbiamo ottimi metodi di riabilitazione. 

— Sì — disse il signor Barber, con aria scoraggiata e scettica. 

— E poi dovrebbe consolarvi il pensiero che il ragazzo ha ancora tre mani in condizioni perfette. Tendiamo a dimenticare spesso che per un milione di anni o giù di lì, l’uomo ha dovuto arrangiarsi con due mani sole. Steven è ancora in vantaggio di una. 

— Suppongo che sia così — disse il signor Barber. — Immagino che si debba sempre guardare al lato positivo delle cose. 

— Questo è lo stato d’animo giusto — disse allegramente il medico. — E adesso venite, che vi porto da vostro figlio.