Tour de
France
di David
Galef
Titolo originale: Tour de France
Traduzione di Marco Pinna
© 1991 Mercury Press, Inc.
Apparso sul n. 1180 di Urania (31 maggio 1992)
Decimo giorno: salendo per l’arrampicata dell’Aubisque sento le gambe di gesso; mi sembra che i polmoni sfreghino fra loro. Ma il gruppo è alle mie spalle, ad almeno un minuto, e probabilmente loro stanno soffrendo anche più di me. Eccetto Mercier, che per qualche motivo non è venuto con me; Mercier, che alla Superbagnères dell’anno scorso ha fregato tutti quanti. Io rispetto Mercier (cioè, lo disprezzo) con quei taglienti comandi in francese alla sua squadra Klik: Broc, LeScalle e quel piccolo bastardo di Riscau che se ne va sempre in fuga per poi rientrare lentamente e furbescamente nel gruppo. Tutti che lavorano per il loro glorioso capitano, il quale, spero, si starà consumando il cuore a questa vertiginosa altitudine.
Mi sono staccato dal gruppo alla prima salita un po’ ripida, Eaux Bonnes, pensando che se non partivo allora, la Klik avrebbe controllato la gara fino in fondo. Nella mia squadra, la Xtra, vi sono alcuni gregari che sarebbero disposti a morire per me, ma non sono dei grandi arrampicatori, quindi, che altro potevo fare? La mia idea originale era di andarmene in fuga con Mercier e di affrontarlo nello sprint finale, solo che quando mi sono guardato alle spalle non l’ho trovato appiccicato alla mia ruota... anzi, non l’ho visto proprio. Allora mi sono sentito forte e ho pensato: che diavolo...
Un abbuono di tempo al prossimo traguardo volante e poi il traguardo di tappa in cima alla montagna, ma questa maledetta salita mi sta uccidendo. Sto pedalando con il rapporto più basso, un 42-21, ma è troppo tardi per cambiare ruota, e comunque non vedo l’auto ammiraglia della mia squadra; dove diavolo s’è cacciata? La folla c’è, eccome, e parecchi gridano «Brent!» al mio passaggio, che in francese risulta qualcosa di simile a «Bra!». Solo che parecchi di loro sembrano guardare avanti a me. Alcuni stanno urlando «Mercier! Mercier!», cosa più che prevedibile, ma non necessariamente di mio gradimento, e infatti non lo è. Alcuni mi si avvicinano fino al punto che riesco a sentire i loro aliti, come se volessero rallentarmi soffiandomi addosso. Ho un’improvvisa visione di me stesso fluttuante fra le nuvole, come l’elicottero della NewsSport che continua a ronzare sopra la mia testa, solo che io sono silenzioso e galleggiante.
Sento un clacson alle spalle; è l’ammiraglia della Xtra che tenta di raggiungermi, con il manager che si sporge dal finestrino come un attore al balcone in una rappresentazione teatrale. Sta gridando qualcosa mentre indica l’orologio. Ma la folla non arretra, e le macchine vengono inghiottite, o qualcosa di simile; non posso voltarmi a guardare, altrimenti non ce la farò mai. La salita è un po’ meno ripida ora, o forse sono solo io che mi sento un po’ più forte. Tuttavia vi è un’ultima rampa pressoché impossibile appena prima del traguardo, me la ricordo dalla mappa che abbiamo studiato, e dovrebbe arrivare... proprio adesso.
Improvvisamente la strada si trasforma in un muro. Sono costretto a fare uno zig-zag per non cadere. Alla mia sinistra c’è un vecchio pazzo con un berretto rosso che mi grida qualcosa in un orecchio – non so che cosa, non parla in francese, forse in basco – forse mi lancia una fattura, perché non mi ricordo che cosa è accaduto in seguito. So solo che quando riapro gli occhi sono salito di un centinaio di metri, e sono ormai in vista del traguardo. C’è una grande folla che acclama, ma ancora una volta ho la sensazione che non mi degnino nemmeno di uno sguardo. Sono a meno di venti metri dall’arrivo quando vedo Mercier che smonta dalla bici e scompare in una selva di braccia sollevate. Davanti a me. Stavo per sollevare le braccia, ma ora non posso far altro che scrollare le spalle con aria disgustata. L’ammiraglia della Xtra è già lì, e il manager mi punta addosso il suo grosso sigaro.
Non credo che descriverò il resto della giornata. Sono deluso, tutto qui. Lo sarebbe stato chiunque. Se domani monsieur le manager avrà due borse dell’acqua calda sotto gli occhi, la colpa sarà solo sua. E nessuno si è preso la briga di spiegarmi che cosa è accaduto. Men che meno Mercier. Mi ha concesso solo un sorriso gallico che vedo ancora adesso nella mia stanza d’albergo; illumina le tende da quattro soldi della finestra. Quel bastardo mi precede di 17 secondi. Quei secondi li ha rubati a me. In qualche modo, devo riprendermeli.
Undicesimo giorno: un’altra salita, non così ripida, ma lunga come una sentenza carceraria. Centoquarantasette chilometri fino alla cima del Cambasque, poi una discesa da novanta chilometri orari che ti fa domandare se ti sei ricordato di pagare la tua assicurazione sulla vita. A Cauterets il panorama è splendido; solo che io non riesco a pensare ad altro se non a tenere le mie nervose mani lontane dai freni. A quattro chilometri dalla cima sono partiti in fuga cinque corridori, ma non c’era nessun uomo di classifica, quindi nessuno si è dato la pena di inseguirli. Mercier era davanti a me nel gruppo che si scaldava le mani nella sua maglia gialla, affiancato dai suoi gregari. Diciassette secondi. Se me ne fossi andato in fuga col gruppetto, Mercier e i suoi si sarebbero lanciati all’inseguimento nel giro di un secondo, quindi sto bene così dove sono.
E cioè da nessuna parte, in pratica. Nel giro di mezz’ora la discesa si è appianata, il gruppo ha raggiunto i corridori in fuga, e si preannuncia uno sprint finale di massa. L’olandese Van Eyck affronta il rettilineo finale sulla sinistra, lanciato da un compagno di squadra. Mercier è quarto, e io riesco ad arrivare sesto. Tuttavia quasi tutti hanno lo stesso tempo, il che significa che abbiamo ancora 17 secondi di distacco. La cosa più strana è che, mentre Mercier inizia a pompare per lo sprint, giurerei che sta pedalando all’indietro.
Dodicesimo giorno: una tappa lunga; 249 chilometri da Toulose a Montpellier, attraverso tutti quei vigneti. L’odore dell’uva che matura è abbastanza pungente da farti cadere dalla bici; forse è per questo che i contadini puzzano tanto. È una di quelle giornate in cui il gruppo è disposto in formazione strettissima – forse per proteggersi dalla puzza – trasformato in una gigantesca e unica macchina che procede con un rapporto da 85 pollici. All’interno del gruppo, dove la velocità è relativa, non vi è quasi alcuna sensazione di movimento, solo una leggera brezza. So che si tratta di un’illusione, poiché stiamo procedendo a quaranta chilometri orari, ma si ha l’impressione di non fare alcuno sforzo.
Al primo traguardo volante dei cento chilometri, qualcuno toglie il coperchio alla pentola dell’illusione. Si sente fino alla quinta linea, dove mi trovo affiancato dai miei gregari della Xtra; un’improvvisa tensione; un uomo è scattato in fuga. È giunto il momento; deve essere Mercier che tenta di solidificare il suo vantaggio. Mi faccio strada attraverso le file del gruppo, superando i colombiani e attraversando quasi Rourke, il miracolo irlandese che ora indossa quella strana tuta Samsung. I corridori alla mia destra mi vedono spingere e ne approfittano per aumentare il passo a loro volta, e quando giungo in testa al gruppo, stiamo pedalando come ossessi.
Solo che non c’è nessuno davanti al gruppo. Siamo in rettilineo, e vedo la strada davanti a me per almeno un chilometro, completamente libera. Ora che sono scattato, uno dei belgi mi supera di gran carriera, tallonato da Rourke. Le loro gambe sono sincronizzate in maniera tale che ho l’impressione che stiano pedalando su un tandem, ma non ho il tempo per pensarci, perché i due si trascinano dietro una fila di corridori. C’è Thurlow con il suo casco con la palla da biliardo numero otto, e la Mosca Umana con i suoi doppi occhiali Bolex. La Mosca mi sfreccia accanto, ma le sue ruote non toccano il selciato. Sbatto le palpebre; la Mosca è a due bici di distanza davanti a me, ruote a terra. Dove diavolo è Mercier?
Ora la gara si è veramente aperta. Cambio rapporto, inserendo il 106, e inizio a pompare. Sfrecciamo attraverso i campi, come se tutte le vigne stessero scappando via da noi. Okay, è solo un’illusione ottica, ma non riesco a smettere di pensare a ciò che ho visto, e il fatto che il corridore davanti a me indossi una muta da sub non mi aiuta affatto. Sbatto le palpebre, ed è scomparso. Gira la voce che due corridori della Klik si siano lanciati in fuga davanti a noi e che abbiano preso più di un minuto sul gruppo. Non so se credere o meno a queste voci: in realtà non so più a che cosa credere.
La tappa finisce con uno sprint di massa, con tempi identici per tutti quanti. Il vincitore, un corridore della Kas, è venuto fuori dal nulla. Letteralmente, intendo. O forse non l’ho semplicemente visto. Sono completamente esausto, e non voglio far altro che infilarmi sotto il letto; cioè, nel letto. Domani prova a cronometro da Gap a Orières-Merlette. Bene; almeno sarò da solo.
Tredicesimo giorno: i corridori partono alle nove del mattino, a intervalli di due minuti l’uno dall’altro. Essendo il secondo in classifica generale, parto penultimo. Li vedo andar via uno per uno, seguendo la salita che diventa sempre più ripida fino a Les Garnands, punto in cui il percorso diviene addirittura mostruoso. È quel genere di percorso nel quale eccellono i colombiani; su e giù per le colline, ma l’unico uomo dalla maglia Café de Oro che può darmi preoccupazioni è Pedro Gado, che ha 2,34 di distacco. Non dovrei avere problemi.
Verso le dieci, inizia a cadere una leggera pioggerellina, e quando parto io, alle 10,34, la strada è troppo scivolosa per rischiare. Ma riesco ugualmente a spingere, tenendomi appena alla destra della linea gialla, cercando di raggiungere Rourke, che è davanti a me. Diciassette, diciassette, diciassette; non riesco a pensare ad altro. Mi vedo addirittura fermo sul ciglio della strada ad aspettare Mercier per tirarlo giù. Con un lazo, o con un fucile. Ma devo limitarmi a pedalare. A metà della prima collina, so già che otterrò un buon tempo; sento le gambe come d’acciaio, che pompano dure.
Alzo lo sguardo, e in quel momento vedo Rourke in una curva, che sfreccia giù per la collina dall’altra parte del divisorio stradale. Mi passa accanto come un lampo di Samsung giallo, e improvvisamente non sento più le gambe tanto forti. Sento l’impulso di scendere dalla maledetta bicicletta, di sedermi e per capire che diavolo sta succedendo. Non c’è tempo, non c’è tempo. Abbasso la testa e pompo come un matto per il resto della collina, uscendo quasi di strada al primo tratto pianeggiante.
Quando vedo altri tre corridori che sfrecciano nella direzione opposta, non alzo nemmeno lo sguardo. Nell’ultima salita vado quasi a finire nel sedere di un’autobotte; solo che scompare non appena sto per colpirla. Voglio dire, scompare letteralmente. Tutto questo non-si-sa-che-diavolo-è mi fa perdere tempo. 15, 16, 17 secondi? Tieni la testa bassa, maledizione.
Finisco in 53,12, il terzo tempo assoluto. Mercier fa esattamente lo stesso tempo. Il vantaggio è sempre lo stesso. Quando, quella sera, il manager della Xtra mi mette in una camera d’albergo con il numero 17 sulla porta, me la faccio cambiare immediatamente.
Quattordicesimo, quindicesimo e sedicesimo giorno: tappe da Gap a Briançon, poi l’Alpe d’Huez, Villards-de-Lans. All’inizio di una lunga salita su per il Col du Lautret, Rourke prende l’iniziativa e va in fuga con un corridore in tuta nera, che getta via la bottiglia dell’acqua per liberarsi del peso. Mezzo minuto dopo, si toglie il casco e butta via anche quello. Poi getta la leva dei freni, lo giuro, e poi altri pezzi della bici, compresa la sella. L’ultima cosa che vedo è che si sta togliendo la testa, mentre Rourke pedala davanti a lui, e poi non riesco a vedere altro che due schiene chinate. I due hanno aperto un varco di oltre cento metri, ma nessuno alza lo sguardo per seguirli. Allungano ulteriormente, e nel giro di cinque minuti scompaiono dalla vista. Alla fine della tappa, un compagno di squadra mi dice che Rourke non è partito quella mattina per via di un virus allo stomaco.
Non dormo più bene. Mi sono liberato della mia sveglia da viaggio perché il suo ticchettio mi infastidiva. A dir la verità l’ho buttata dalla finestra nel momento in cui la lancetta dei minuti passava sul 17. Stamattina la colazione fa fatica a rimanermi nello stomaco nel continuo su e giù per le colline, e forse qualcuno mi ha messo qualcosa nel caffè. Ma il momento peggiore viene quando alzo lo sguardo e non vedo più il gruppo; solo una strada vuota davanti a me, che serpeggia come una biscia. Non c’è nessun altro; nessun altro, e devo continuare a pedalare finchè non arriverò da qualche parte. Quando vedo due corridori della Kas che pedalano furiosamente rimanendo immobili su un camion al mio fianco... arrivo al punto di saturazione totale. Chiudo gli occhi e inizio a contare. Arrivato a 17, li riapro, e il gruppo è nuovamente attorno a me. Come se non fosse accaduto nulla; e, per il resto della giornata, non accade effettivamente nulla.
Verso la fine Mercier riesce effettivamente ad allontanarsi di diversi chilometri, e dentro di me penso che finalmente avremo un distacco diverso; è proprio quella vicinanza che rende la cosa così insopportabile. Ma poi i due corridori della Kas conducono una fuga che porta un gruppetto di quindici a raggiungere Mercier poco prima del traguardo, e alla fine lo raggiungiamo tutti quanti, e finiamo con il solito sprint, con Mercier ancora 17 secondi avanti a me, maledizione. Quando lo raggiungiamo, Mercier non sta neanche pedalando troppo forte, come se, anche a un solo chilometro dal traguardo, si aspettasse di essere raggiunto.
Sedicesima tappa: rimango volutamente indietro. Ma i miei compagni della Xtra mi trascinano fino al centro del gruppo. Come posso spiegare loro ciò che sto cercando di fare? Improvvisamente mi sento come un novellino al Tour che muore a ogni collina e che spera disperatamente in una ruota bucata o in un guasto meccanico per potersi ritirare senza disonore. Penso a un incidente volontario, ma proprio mentre lo penso avviene un incidente vero e proprio davanti a me; prima due, poi cinque, poi sette corridori vanno giù su una macchia d’olio che non dovrebbe esserci. Il gruppo frena, altri cadono addosso a quelli già a terra, e i corridori davanti approfittano immediatamente dello scompiglio. Senza neanche pensarci, mi butto sulla sinistra; il terreno del ciglio della strada è smosso ma ciclabile, e seguo un paio di corridori che sono riusciti a evitare il garbuglio; non appena ci liberiamo, iniziamo a pedalare come matti. Il gruppo è appena più avanti, e lo raggiungiamo con una certa facilità. Mi guardo attorno, e vedo Mercier alle mie spalle.
— Dix-sept — sussurra mentre la sua lunga bici nera sorpassa la mia. Mi sfiora appena, e forse in quel momento perdo conoscenza.
Diciassettesimo giorno: quando la pistola della partenza spara, sono l’unico corridore sulla linea. Il cielo grigio è come una caverna gigante nella quale sto pedalando, e un vento alpino proveniente dal nulla mi si insinua nel colletto. Sono in mutande, piegato sul manubrio, e fisso l’orizzonte lampeggiante mentre la strada si morde la coda e si trasforma in un anello. C’è una figura davanti a me, vaga nell’oscurità che si raduna tutt’attorno, con la sua lunga ombra che la raggiunge lentamente. Vedo me stesso che pedalo all’indietro, sconfiggendo il cronometro. Ma anche quando mi sorpasso, un corridore appare all’orizzonte. È Mercier, lo riconosco, anche se non so nient’altro di lui. È Mercier il corridore, e io sono la sua ombra che si allunga e che si accorcia, ma che rimane sempre attaccata alle sue spalle; io, il numero 17, in questa gara insopportabilmente solitaria.