L’occhio del
sole
di Antonio Bellomi
Apparso in appendice a Perry Rhodan n. 1 (1976)
Il fuoco crepitava nel caminetto. I rami secchi e nodosi si drizzavano sotto la sferza infuocata delle fiamme, si stendevano in un vano abbraccio scoppiettante per poi ricadere, vinti, sulla brace del fondo con un ultimo guizzo di vitalità che alzava miriadi di scintille. Era già primavera avanzata, ma la temperatura era ancora fredda, troppo fredda per quel periodo.
Koro allungò le mani verso le fiamme e sentì il calore penetrargli nei pori della pelle, spandendosi velocemente su per le braccia. Sorrise. Come un bambino che scopre per la prima volta un gioco e si diverte a prolungarlo. Ripeté il gioco varie volte e ogni volta c’era qualcosa di diverso nel calore che riceveva a vampe rossastre.
Era il calore del grembo materno che lo proteggeva durante la vita prenatale. Un calore morbido e ovattato in cui ci si poteva abbandonare con tranquilla beatitudine. Poi era il calore delle braccia di sua madre quando lo avevano stretto per la prima volta. E poi ancora era il calore del primo amore, della tenera e dolce Jahla che non c’era più con i suoi capelli di fiamma verde nei pomeriggi assolati.
E poi improvvisamente fu il calore meravigliosamente dorato del sole, di quel sole che splendeva sui campi in fiore, sugli alberi, sui fiumi scintillanti di acqua limpida, sui mari sterminati e sugli abitanti di Sitar.
Le fiamme danzavano nel camino in una selvaggia ballata senza ritmo e continuità, eppure in mezzo alle lingue di fuoco che si torcevano in complicati intrecci si levava una sinfonia di colori meravigliosamente sublime come il brillare del sole.
Sì, il sole.
Di nuovo ritornava insistente quell’immagine meravigliosa che pareva non lo volesse abbandonare.
E nello stesso tempo si accorse che la camera era immersa in un buio completo, rotto solo dal fantastico intreccio delle fiamme che lanciavano sugli oggetti vicini dei mitici riverberi luminosi che nella sua mente assumevano le più svariate forme. Era passato e presente che si compenetravano in una entità immaginaria ma non per questo meno reale.
Presente.
Passato.
E futuro anche.
Quanto tempo era passato da quando si era seduto vicino al camino che era stato il confidente di suo padre e del padre di suo padre e del padre del padre di suo padre...?
Un vestigio dei tempi passati. Qualcosa di tangibile che aveva legato per tanti anni delle intere generazioni. Era difficile, forse impossibile, dire perché ciò si fosse verificato, ma come la maggioranza delle reazioni umane, anche questa cercava inutilmente la sua ragione in una semplice concatenazione logica dei fatti.
Era tardi, ma desiderava muoversi. Le fiamme lo tenevano incatenato con i suoi pensieri su sei generazioni che si erano susseguite tutte davanti a quel camino. Non sentiva premergli sulle spalle quel buio che lo circondava da tre lati con le sue fauci spalancate. Quel buio che in altri casi lo avrebbe soffocato come sarebbe successo se egli fosse uscito fuori ad esempio...
L’automa entrò senza far rumore. Koro se ne accorse solo perché trent’anni di vita con gli automi lo avevano reso tanto sensibile da avvertire comunque la loro presenza.
— La cena è pronta signore.
Per la prima volta in vita sua Koro notò che il tono di voce dell’automa non era semplicemente un tono servile, da domestico sia pure centenario. C’era qualcosa di più in quel tono... Sì, qualcosa di amichevole, di distaccato e di amichevole nello stesso tempo che lo rendevano tanto simile a un essere umano, pur nella sua completa diversità.
Si alzò a fatica dalla poltrona, riluttante a lasciare le infuocate lingue che attiravano ipnoticamente il suo sguardo. Per un attimo rimase in piedi combattuto tra due decisioni opposte poi ricadde di schianto nella poltrona con un sospiro che era di vinto. I suoi occhi furono di nuovo attirati dalle fiamme danzanti.
La voce dell’automa suonò quietamente nella stanza buia a le parole parvero rimbalzare sulle pareti.
— Devo servire qui la cena, signore?
Qualcosa gridò dentro di lui e inutilmente Koro provò la disperata volontà di sottrarsi a quel fascino che lo teneva inesorabilmente legato alle fiamme del camino e di infrangere quei legami che avviluppavano la sua mente in un campo pulsante di sensazioni contrastanti. Ma si rese conto che sarebbe stato comunque e sempre sconfitto.
Annuì mentre allungava ancora le mani verso il fuoco nel suo gioco assurdo, quasi volesse frenare una spaventosa realtà incalzante.
— Fa’ pure così, Tani. È meglio, molto meglio.
Rimase rigido senza sentire il calore del fuoco mentre l’automa retrocedeva verso la porta. Quando già stava per uscire lo chiamò improvvisamente.
— Il nostro ospite, ha confermato la sua venuta?
La voce dell’automa pareva aver perso quella traccia amichevole che aveva scoperto prima, ma egli sapeva che ciò era solo una illusione dovuta al fatto che conosceva già la risposta.
— No, signore, ha avvertito che gli è assolutamente impossibile.
Con un cigolio che forse esisteva solo nella sua immaginazione la porta si chiuse dietro le spalle dell’automa e Koro rimase stolidamente a fissare le fiamme danzanti con gli occhi vacui appuntati in avanti in una disperata solitudine.
Gli parve che il buio intorno fosse diventato gelidamente più compatto.
* * *
Eppure l’immagine del sole continuava ad ossessionarlo. Inutilmente le fiamme si levavano in contorte spire nel caminetto gettando dei bagliori rossastri sui mobili. Nel suo cuore c’era qualcosa che quel fuoco non poteva scaldare.
L’automa aveva ritirato i piatti ed era scivolato silenziosamente fuori dalla stanza lasciandolo solo nella penombra. Solo, con le sue angosce di uomo.
— Devo prepararle la stanza della musica, signore? — aveva chiesto come tutte le sere.
Ma Koro si era limitato a dire di no. Sarebbe stato inutile spiegare ad un automa il perché del suo agire. Anche se Tani era al servizio della sua famiglia da centinaia di anni, non avrebbe mai potuto comprendere un uomo né in mille, né in diecimila, né in un miliardo di anni, quando anche Sitar fosse stato un mondo ormai morto.
Perché un automa non aveva cuore né anima e il suo lucido intelletto con tutti i suoi complicati meccanismi non avrebbe mai potuto risolvere un problema a lui estraneo.
Koro fissò vacuamente le fiamme. Sarebbe stato inutile cercare di sostituirle con le apparecchiature più moderne di cui era dotata la casa. Perché la casa non era solo il rifugio dalle intemperie, ma anche un modo di pensare, di sentire e di agire. Avrebbe potuto far accendere le luci e illuminare la stanza a giorno. Bastava allungare la mano, anzi un dito e premere un pulsante e...
Ma sarebbe stato inutile. Lo sapeva perché aveva già provato altre infinite sere, quando al termine di una giornata passata in completa osservazione della superficie solare, senti va le ombre della notte scendere oscuramente sul pianeta. Non c’era la possibilità di sfuggire all’incalzare delle ombre. Non le ombre della notte, ma le ombre generate dalla mancanza del sole, il che era diverso. Solo le fiamme riuscivano a distrarlo in parte, perché erano qualcosa di vivo, non di inutilmente artificiale come l’illuminazione della casa.
Più tardi l’automa tornò silenziosamente come era uscito.
— C’è Johlan al visifono, — annunciò con la sua voce mormorante come un ruscello tra i sassi lungo le foreste di abeti.
Koro rabbrividì. Avrebbe dovuto alzarsi, attraversare la stanza percorrere un lungo corridoio ed entrare in un’altra stanza. Stare troppo a lungo lontano dalle fiamme, da quel pezzo di sole che gli scaldava l’anima persa in un baratro di tenebre. Non poteva. Proprio non poteva. Sentì le viscere torcersi in uno spasimo convulso al pensiero di quello che avrebbe dovuto fare.
— Tani, non posso, — sussurrò con voce incerta. — Non posso. Solo staccarmi da questa poltrona...
Ma l’automa era già scivolato via, silenziosamente come sempre.
Quando tornò con un visifono tra le braccia quasi umane Koro lo notò appena, i suoi occhi fissi sul rosso bagliore.
Poi lo schermo dell’apparecchio cominciò a colorarsi e Koro fu di nuovo solo. Un viso apparve sullo schermo, un viso che apparteneva a un vecchio amico.
— Johlan, — esclamò Koro con voce compiaciuta e dispiaciuta nello stesso tempo. — Ti aspettavo a cena. Mi avevi promesso che saresti venuto!
L’uomo dall’altra parte dello schermo corrugò le sopracciglia. Quello che colpiva in lui era un’aria di estrema sofferenza. Di qualcosa che sfuggiva a una analisi sommaria.
— Non ho potuto, Koro. — La sua voce era sommessa come se stesse confessando il più orribile dei peccati. — Mi devi credere in nome della nostra amicizia. Avrei voluto raggiungerti per una sera almeno come nei vecchi giorni. Sedere insieme a un tavolo e discutere, studiare, scherzare magari, ma alla fine è stato tutto più forte di me. Non chiedermi perché non sia riuscito a vincermi. È stato qualcosa di tremendo. La più tremenda esperienza che abbia provata da quindici anni a questa parte e non tenterò mai più di ripeterla.
Gli occhi di Koro scintillavano nel buio della stanza come due stelle solitarie nel cielo.
— Crederti Johlan? Forse che non sapevo quale prova avresti dovuto affrontare per giungere fino a me? Credi forse che io non mi trovi nella stessa condizione? — Le labbra di Koro avevano assunto una piega amara, come disgustato di tutto. — Ma sapevo che non avresti potuto uscire di casa ed affrontare nuovamente dopo quindici anni lo spaventoso baratro che ci circonda. Forse mi sono illuso per un attimo che avresti potuto spezzare questa barriera di nulla che ci circonda. Forse mi sono illuso per un attimo che avresti potuto spezzare questa barriera di nulla che ci incatena alle nostre case, ma è una speranza che è morta subito dopo, perché la barriera è più forte di noi, più terribile e tenace e, purtroppo, più duratura.
Per un attimo i due vecchi amici rimasero silenziosi a fissare le rispettive immagini sul visifono. C’era qualcosa che angustiava entrambi, ed entrambi sapevano che cosa tormentava l’altro.
— È molto importante vero, quello che volevi dirmi? — disse Johlan a voce bassa.
Koro annuì con tristezza. — Sì, molto. Troppo forse perché un essere solo come me potesse essere l’unico a saperla. Volevo un amico vicino per confidarmi, un essere come me che condividesse le mie pene e le mie angosce. E invece ho davanti solo una immagine e un sorriso lontano.
Gli occhi di Johlan fissarono le fiamme che danzavano freneticamente davanti a Koro. — Ho paura a chiedertelo, — disse.
— E io a dirtelo, — disse Koro. — Vi sono delle cose che più sono importanti meno chiedono di essere rivelate. L’uomo si sente troppo piccolo davanti ad esse.
— Ti sono molto grato della fiducia che riponi in me, — disse Johlan. — Non sono il tuo unico amico eppure hai pensato a me nel momento del bisogno.
La sua voce divenne improvvisamente triste tanto che la tristezza parve schiacciarlo. — Anche se io purtroppo non ho saputo rendermi degno della tua fiducia.
Koro alzò una mano per fermare quelle parole autoaccusatrici che Johlan non si meritava.
— No, Johlan, la colpa non è tua e la mia fiducia in te rimane immutata. Perché non avresti potuto fare altrimenti. C’è qualcosa di più della volontà dell’uomo. C’è il suo sub conscio dove le sue paure, i suoi terrori, le sue angosce prendono forma e lo legano in, una rete invisibile che non lo lascerà più libero. Una rete che l’uomo non può rompere nonostante la sua disperata volontà.
— Koro... — disse Johlan e non continuò perché la sua gola era stretta in un nodo di sofferenza che non conosceva limiti.
— Non devi fartene una colpa, — disse Koro, — sono io che ho presunto troppo da un essere simile a me.
— A che serve ora? — disse Johlan tristemente. — Non possiamo mutare la situazione. Si tratta di un equivoco inevitabile. Di troppa fiducia per troppo amore, di troppa speranza per troppa fiducia.
Troppa fiducia. Troppa! A Koro parve che una ventata gelida gli sfiorasse il viso e le braccia e il corpo.
— No, Johlan, — disse con forza, — la fiducia non è mai troppa perché anche adesso mi sei vicino come quindici anni fa. I tuoi consigli possono ancora raggiungermi, scaldarmi l’anima, darmi un appoggio che la perfezione cristallina di questa casa non può darmi.
— Perché ingannarci a vicenda, Koro? — disse Johlan.
— Ingannarci...
— Sì, ingannarci. Perché tu forse credi...
La voce dell’amico era un sussurro disperato di chi vuol convincersi e sa di non poter venir convinto.
— Sì, Johlan ne sono sicuro. Anche se non sei qui come speravo, sei sempre vicino e amico...
Johlan alzò una mano e gliela tese invitante attraverso lo schermo. La sua espressione divenne tesa e la ruga sulla fronte si approfondì.
— Di che cosa si tratta, Koro? — disse con semplicità.
Koro socchiuse gli occhi. Sofferente. Intimamente sofferente e improvvisamente sentì il peso dei suoi anni e si sentì vecchio e stanco.
— Il sole, Johlan, il sole! Diventa ogni giorno meno caldo. Dapprima pensavo che si trattasse di un abbassamento minimo del tutto temporaneo, ma poi... — ebbe un singhiozzo disperato. — Pensa Johlan, il sole che ogni giorno sottrae a Sitar una parte minima di calore, e un altro giorno un’altra, poi un’altra ancora...
Lo sguardo smarrito in lontane profondità, Johlan ebbe un sussulto. La ruga sulla fronte si accentuò.
— Ma per quanto Koro? — gridò disperatamente attraverso il visofono. — Quanto ancora deve durare questo decrescimento?
Lentamente Koro distolse il viso dalle fiamme che lo avevano di nuovo affascinato con il loro intreccio fallace.
— Per molto Johlan, per molto ancora. Abbastanza perché il gelo si stenda su Sitar e le piante muoiano e le erbe non crescano più e gli edifici si sminuzzino in polvere impalpabile sotto la morsa del freddo. Non ci saranno più primavere su Sitar, Johlan, né estati, solo un lungo inverno senza fine. E gli animali periranno e con loro quegli uomini le cui case non saranno sufficientemente protette. E con le stagioni e con le piante e con gli edifici e con gli uomini sarà la fine progressiva e ineluttabile di Sitar, una fine lenta perché il gelo avanza senza fretta quasi a darci il tempo di rimpiangere quello che stiamo perdendo.
— Quanto tempo occorrerà perché si raggiunga l’apice? — gridò Johlan quasi volesse ritardare con le sue parole l’avanzata inesorabile del gelo.
— Cinquecento anni Johlan, — disse Koro, — ma che importanza ha questo? Quando anche fossero mille o diecimila anni alla fine ci sarà sempre lo spettro di un Sitar ghiacciato che non potrà più dare la vita come era solito fare.
— Cinquecento anni!
Le parole di Johlan scivolarono via nella camera semibuia perdendosi nei recessi più segreti di quelle pareti che avevano protetto delle intere generazioni.
— Ma questo non deve succedere Johlan! — gridò Koro a sua volta in un disperato tentativo di fermare il destino. — Non deve succedere, capisci? Se agiamo subito senza ritardi si può ancora fare qualcosa per salvare una parte di Sitar!
Johlan sorrise amaramente e in quel sorriso c’era tutta l’amarezza di chi vorrebbe e non può.
— Fare? Che cosa credi di poter fare, Koro?
— Salvare Sitar! — gridò Koro tendendo le mani verso lo schermo. — Basterebbe costruire uno schermo trasparente che coprisse parte di Sitar per immagazzinare energia sufficiente a continuare la vita. E allora sotto di esso la vita non si spegnerebbe. Si può farlo Johlan! Si può!
La voce di Johlan parve venire da recessi lontanissimi. Da profondità senza fine e inumane nella loro freddezza.
— No, Koro, non si può. — La tristezza nella sua voce affondava nell’aria come un peso opprimente che si doveva scaricare in qualche luogo. — Lo sai fin troppo bene che è impossibile...
— No, — disse di nuovo Koro, — si deve potere...
Johlan proseguì con calma interrompendolo.
— Stai cercando solo di ingannare te stesso. Se fossi stato sicuro di questo non mi avresti chiamato, e per lo meno non avresti chiamato solo me, ma anche Terson, Ganadi e gli altri. Perché non l’hai fatto, Koro, perché? Rispondi se puoi!
Koro affondò nella poltrona come un peso morto. Non osò guardare l’amico in viso e nascose disperatamente il volto fra le mani.
— Vedi che non puoi rispondermi, — continuò Johlan con dolcezza. — Forse per un attimo hai conosciuto la pazza speranza che ci fosse una via di uscita, ma più tardi ti sei reso conto che ciò non era possibile.
Koro non rispose, il volto sempre nascosto tra le palme delle mani. Johlan continuò con tristezza infinita.
— E questa sera me ne sono accorto anch’io quando ho tentato di uscire di casa per rispondere al tuo appello. Eppure, Koro, nonostante il mio affetto non sono riuscito. Perché, vedi, c’è ormai una malattia in noi che ci impedisce di varcare la soglia della nostra abitazione. Non è solo la paura del vuoto e della immensità che ci sta intorno, ma qualcosa di più, la mancanza di una volontà costruttiva in noi. Siamo un popolo morto ormai; da quanti secoli non si sono più scoperte, invenzioni, creazioni di qualsiasi genere? Oh, abbiamo filosofato, discusso, ma tutto questo senza la minima base pratica, senza una realtà che ci fornisse il piedistallo per le nuove costruzioni. Il nostro è un mondo di ombre evanescenti che tentano di inseguire altre ombre e costruire per mezzo di ombre. No, Koro, siamo un popolo finito che non può più fare nulla, perché non può e non vuole dare nulla. Siamo prigionieri delle nostre case e non riusciamo più a varcarne le soglie. E tu vorresti costruire una cupola! Povero illuso che segui delle ombre più fallaci delle nostre!
Tra le mani convulsamente serrate Koro singhiozzò.
— Gli automi, Johlan, gli automi!
L’espressione triste di Johlan si accentuò. Scosse il capo.
— Automi, — disse con voce atona, — creature di metallo che agiscono secondo quanto è stato programmato in loro. Ma siamo noi uomini che li abbiamo programmati in un dato senso. Possiamo servirci di loro, ma solo a condizione di saperli dirigere. E chi li sa più programmare, Koro, hai mai provato a chiedertelo?
Koro non sollevò il viso dalla sua disperazione. Non osò rispondere alla domanda dell’amico.
— Non c’è nulla da fare, — disse Johlan, “perché nessuno è in grado di fare qualcosa. Chi conosce gli automi abbastanza bene da poterli programmare in tal senso? E se anche ci fosse qualcuno, credi che questo qualcuno avrebbe la volontà di farlo? Li strapperesti tu alla loro vita senza pensieri sotto l’influsso del “riposo psichico”? Prova a chiamarli per visifono e vedrai che solo i loro automi riceveranno le tue chiamate. Agli altri come noi non resta che raggiungerli. Immergerci nell’oblio senza sogni e senza domani, in un perpetuo letargo la cui fine è tanto lontana da sembrare inesistente.
— No, — disse disperatamente Koro. — Non possiamo fare così anche noi!
Johlan continuò. — No, Koro, non ci resta altro da fare. Vuoi forse provvedere tu alla cupola? E allora prova solo a uscire dalle mura della tua casa. Fa’ un passo all’aperto e raggiungi le celle delle case dove riposano coloro che forse sono in grado di risolvere il tuo problema. Oppure... — e la sua voce tremò a tal punto, — prova tu stesso a costruirla. Prova Koro...
Il silenzio tornò nella stanza mentre Johlan taceva. Koro non osò alzare la testa verso l’immagine dell’amico e stette con gli occhi fissi sulle fiamme che si divincolavano in tutte le direzioni, come rossi serpenti impazziti. Una fiamma si spezzò in due e un occhio simile a un sole lo parve guardare interrogativamente.
— Hai ragione Johlan, — disse Koro alla fine alzando il capo per guardare l’amico in viso, ma quando abbassò lo sguardo l’occhio era scomparso e le fiamme non erano più quelle di prima.
* * *
Ora su Sitar i venti hanno cessato di soffiare a raffiche. I mari sono stati ingoiati dalla terra e le piante e gli animali e gli uomini sono scomparsi con la primavera.
Qualche rovina rimane. Rovine che si frantumano in polvere impalpabile sotto la macina dei secoli. E lo sfregare della sabbia sulle lapidi martoriate narra la sua triste storia: la storia di MARTE.