Capitolo 7

 

NO! LA POLIZIA NO!

 

 «No! La polizia no!»

 «Perché no?»

 «E me lo chiede?»

 «Spacciare cocaina in grandi quantità non è una ragazzata, signora Selman.»

 «Appunto. Non voglio che mio figlio finisca in galera.»

 «Non finirà in galera. In quanto minorenne, lo sottoporranno a una misura di messa alla prova e magari riusciranno a farlo tornare a scuola.»

 «E… dopo?»

 «Il reato verrà cancellato e la sua fedina penale resterà immacolata come un giglio.»

 «E se non dovesse rispettare le consegne del giudice?»

 «Temo che lei non abbia ben chiara la situazione: Giovanni sta facendo il galoppino per conto di uno spacciatore che potrebbe essere un outsider, un pusher fuori dal giro. Questi gli fornisce cocaina di una qualità superiore a quella che circola sul mercato. Lui la smercia nelle discoteche della Versilia e ogni notte tira su diverse migliaia di euro. Non escludo che questa attività comporti un serio rischio per la sua incolumità.»

 «Quale rischio?»

 «Se facesse concorrenza alla mafia, il pericolo sarebbe grave.»

 «La mafia? Cosa c’entra la mafia?»

 Ogni volta che alludo a un possibile collegamento di suo figlio con le piaghe sociali strombazzate dai media – il terrorismo, la mafia – Jacqueline rimane interdetta e rifiuta l’idea trattandomi come se fossi un visionario. Non deve avere avuto una vita facile e forse questo atteggiamento apparentemente ottuso l’ha aiutata a non soccombere. Il suo mondo ricorda quello del Candido di Voltaire. Mi chiedo se non sia stata questa attitudine evitante a spingerla verso l’architettura d’interni. Coltivare armonia e bellezza nel chiuso delle stanze, lasciando fuori dalla porta quanto di brutto succede nel mondo.

 «Nessuno le ha mai spiegato che il traffico di droga è nelle mani della camorra e della ’ndrangheta?»

 «Sì», balbetta.

 «Dunque i casi sono due: o Giovanni lavora per loro, oppure si è messo in un altro giro ? non mi chieda quale perché non lo so ? e allora rischia davvero grosso. Perciò bisogna rivolgersi subito alla polizia.»

 «No!» ripete alzando la voce. «La polizia no!»

 «Ha qualche altra idea per fermarlo?»

 È angosciata, ma dopo avere ingoiato un groppo d’ansia, quasi fosse un solido bolo di cibo, cambia espressione e mi fulmina guardandomi di traverso, da sotto in su, con gli occhi ravvivati da mascara e eyeliner, e da un guizzo di malizia. Sulle labbra semiaperte, perfettamente disegnate e appena colorite d’un velo di rossetto, sfrigola l’ombra d’un sorriso e risponde in un sussurro: «Ora che è tornato a casa, dobbiamo essere noi a risolvere il problema».

 Nella calura di mezzogiorno ho lasciato Giovanni e il suo pusher al Porto antico e mi sono incamminato fino a via San Lorenzo, battuta da uno spietato sole da tropici. Sotto i miei sandali da turista disperso e confuso il selciato friggeva come una padella rovente e in lontananza la chiesa del Gesù tremolava in un miraggio sahariano. Arrivato all’altezza del duomo ho svoltato in via Scurreria e ho raggiunto piazza San Matteo, l’antica enclave del potere, circoscritta dalla piccola chiesa gotica a bande bianche e nere e dalle case dei Doria, in una delle quali ha sede lo studio di progettazione Selman & Figlio. Speravo di trovarli entrambi, i miei clienti, invece ad accogliermi c’era solo lei, Jacqueline, in un ambiente illuminato da calde luci artificiali e refrigerato dall’aria condizionata intrisa del suo profumo, Chanel N. 5. Abbiamo attraversato un ampio salone open space con cinque o sei scrivanie multicolori dotate di computer fantascientifici ai quali lavoravano altrettanti giovani, uomini e donne, tutti attraenti, presumibilmente architetti e ingegneri con contratto a tempo determinato. In questo paese funziona così, chi fa un lavoro creativo e appassionante, che richieda studi di alta specializzazione, deve pagare lo scotto di tale privilegio accontentandosi di un lavoro precario e sottopagato. I compensi miliardari restano appannaggio dei calciatori e dei buffoni della televisione.

 Appena mi ha visto, la signora Selman mi ha lanciato uno sguardo sorpreso e divertito. «Come si è vestito stamattina?» ha domandato. «Sta partendo per un safari?»

 «Non voglio dare nell’occhio», ho risposto.

 «Non mi sembra la mise più adatta per non farsi notare.»

 «Al Porto antico, in mezzo alle comitive di turisti nordici, sì.»

 «Oh, dottor Pagano», ha ribattuto ammiccante. «Con la carnagione scura che si ritrova, nessuno la confonderà mai con uno svedese.»

 «Si sbaglia, signora. Suo figlio non mi ha riconosciuto.»

 Di colpo si è fatta seria e mi ha chiesto di seguirla fino allo studio, facendo ondeggiare sui tacchi un culo tonico, frutto di ore e ore di palestra e massaggi. Dopo avermi invitato a chiudere la porta, si è infilata dietro la scrivania ? moderna, colorata e munita di computer di ultima generazione ? abbandonandosi su una poltrona anatomica comoda come un inginocchiatoio penitenziale. Porta un vestitino azzurro che le arriva al ginocchio, parure con filo di perle e orecchini, e i capelli acconciati in una crocchia che lascia scoperti il volto e il collo abbronzati e impietosamente segnati dalle prime rughe dell’età.

 Le ho riferito per filo e per segno quanto ho scoperto e, man mano che il racconto procedeva, la sua postura e l’espressione del viso si sono afflosciati e un velo acquoso le ha offuscato lo sguardo. Solo alla fine si è ripresa, galvanizzata da un’idea spuntata fuori all’improvviso.

 «Allora mi spieghi», insisto, «come pensate di fermarlo?»

 «Grazie a lei, dottor Pagano.»

 «A me? Il mio lavoro è finito, signora: dovevo trovare Giovanni e l’ho fatto. Sono un detective privato, non un pedagogo.»

 «Giovanni ha bisogno di un padre, una figura maschile solida e autorevole. Insomma, uno come lei.»

 «Temo che si sbagli: da come si beve ogni parola del suo pusher, credo che un surrogato paterno l’abbia già trovato.»

 «Mi ha descritto un uomo ripugnante, un ex tossico sporco e con i denti marci. Come è possibile che…»

 Mi sfugge un sospiro di irritazione. «Vuole che le dica quello che penso?»

 «Sì, certo, naturalmente», risponde un po’ contrariata e un po’ spaventata da quello che si aspetta di sentire.

 «La avverto che non le farà piacere», insisto. La verità è che quanto sto per dirle non rientra nel mio mansionario. Io sono stato pagato per ritrovare un minorenne scomparso e non devo insegnare niente a nessuno, né agli adolescenti che scappano di casa e finiscono sulla cattiva strada né ai loro sprovveduti genitori.

 Jacqueline deve averlo intuito. Infatti si affretta a rispondere con un sorriso sofferto, carico di apprensione. «Che cosa potrà mai dirmi di peggio di quello che ho sentito fino a questo momento?»

 «Come desidera», attacco. «“Ripugnante, sporco e con i denti marci” sono criteri di valore della vostra classe sociale e della vostra cultura, ma hanno poco da spartire con quello che Giovanni ha vissuto fino a otto anni. Probabilmente lui è cresciuto con persone così: ripugnanti, sporche e con i denti marci. Uomini e donne che parlavano spagnolo e campavano di espedienti, in una zona grigia di illegalità, violenza e degradazione, perché questo era il solo modo che avevano per sopravvivere. È la sorte di tre quarti dell’umanità, signora Selman: non conoscere l’aria condizionata, il sapone e, talvolta, nemmeno cibo decente e il dentista.»

 Mi fissa come se stessi parlando una lingua sconosciuta, senza trovare le parole per rispondere. Si è ammutolita, ha aggrottato le sopracciglia e incassato la testa nelle spalle, ma non molla il mio sguardo e continua a scrutarmi, mezzo smarrita e mezzo contrariata. Finalmente trova la forza di dire: «Dove vuole arrivare? Dovevamo forse lasciarlo laggiù? Ha idea di cosa sia l’inferno?».

 «Eviti di parlare di corda a un impiccato. So bene cos’è l’inferno: due anni fa mi hanno sparato e sono rimasto sei mesi costretto in una gabbia di ferro, con il rischio di morire o restare tetraplegico. Se mi trovo qui il merito è di un chirurgo cinese che, in dieci ore di intervento, mi ha ricostruito le vertebre cervicali.»

 «È mai stato a Cali?»

 «No, ma conosco l’Africa subsahariana e le garantisco che le condizioni di vita dei suoi abitanti non sono migliori di quelle dei colombiani. Non mi fraintenda, sono sicuro che lei e suo marito avete fatto tutto il possibile per rendere felice vostro figlio. Il problema è stato credere che, per riuscirci, doveste cancellare l’inferno che ha vissuto prima che lo adottaste.»

 «E cos’altro…»

 «Non lo so, ma evidentemente in quella miseria c’era qualcosa di buono. Come spiegare altrimenti il fatto che si sia dato anima e corpo a una zecca che lo sfrutta senza alcuno scrupolo?»

 «Perché Giovanni è fatto così: non riesce a restituire affetto a chi lo ama. Non lo fa apposta, è più forte di lui.»

 «Se lo facesse, forse sentirebbe di tradire qualcuno.»

 «Chi? La madre che non ha mai conosciuto?»

 «Magari il padre narcotrafficante…»

 «Vuol dire che nello spacciatore sudamericano ha visto l’ombra di suo padre?»

 «Può darsi.»

 «Ecco allora quello che deve fare», riprende seguendo il filo dei suoi pensieri. «Parlare con il suo amico commissario e far arrestare quella zecca. Ma non basta: io la supplico, la imploro, dottor Pagano: si occupi di nostro figlio, lo prenda sotto la sua protezione e, se sarà necessario, gli rifili pure qualche ceffone.»

 «Non faccio il precettore, signora. Quanto al mio amico, le ho già spiegato che è andato in pensione.»

 «Oh, quante storie! Avrà mantenuto qualche contatto con i colleghi…»

 Scuoto la testa e alzo la voce: «No, no, no! Le cose non funzionano così! La polizia può perquisire la casa del pusher e, ammesso che trovi la coca, arrestarlo. Ma non fatevi illusioni: Giovanni si attaccherà ancora di più a lui. Non avete scelta: dovete denunciare vostro figlio, e dovete farlo per il suo bene. Non è uno stupido: sa benissimo quello che sta rischiando e, da quanto mi avete detto, non lo fa per soldi».

 «In che senso?»

 «In quella discoteca avrà raccolto almeno quattro, cinquemila euro in una notte. Quando si guadagna tanto, qualcosa rimane attaccato alle dita.»

 «E allora?»

 «Siete stati voi a dirmi che non gli avete mai trovato denaro nelle tasche.»

 «È la verità.»

 «I soldi li lascia tutti al suo fornitore. Dovevate vederli insieme, mentre passeggiavano per il Porto antico. Il ragazzo ha subito una vera e propria fascinazione da quell’uomo. È molto probabile che i problemi siano cominciati quando lo ha conosciuto.»

 «La psicologa ha detto che era l’adolescenza…»

 «Una cosa non esclude l’altra.»

 In quel momento la porta si spalanca e sull’uscio compare il signor Selman. Indossa un completo di lino chiaro sul quale il mio panama farebbe un figurone, e una polo bianca chiazzata di sudore. Appena mi vede resta sorpreso, forse anche contrariato. Il mio insolito abbigliamento gli strappa un sorriso a fior di labbra e, dopo avere salutato, domanda: «Come si è conciato, dottor Pagano?».

 «Ha trovato Giovanni», interviene la moglie. «Si è travestito così per pedinarlo senza essere notato.»

 «Immagino che avrà ottenuto l’effetto opposto.»

 «Mi sono imbucato in una comitiva di turisti stranieri e le assicuro che ero quasi invisibile.»

 «Nostro figlio spaccia cocaina in grande quantità», riprende Jacqueline, con la voce che si è fatta dura, come se recitasse un atto di accusa. «Pagano lo ha seguito la scorsa notte in una discoteca della Versilia. Lo rifornisce un pusher sudamericano che abita al Molo.»

 Giacomo Selman mi lancia un’occhiata atterrita, quasi una supplica di smentire la moglie, poi rivolge lo sguardo a quest’ultima e bofonchia qualcosa di incomprensibile. Quando è entrato, il suo corpo esile e allampanato svettava ritto come un fuso dentro il vestito di lino, ora lo vedo ammosciarsi a poco a poco, quasi piegarsi su sé stesso come se fosse stato raggiunto da un pugno allo stomaco. Agguanta la sedia libera e si siede di traverso, quindi passa la mano sugli occhi e trae un lungo respiro. «Mio Dio», sussurra, «non è possibile.»

 Non riesco a trattenermi e gli stringo un braccio. «Mi dispiace», dico. «Si tratta di una faccenda piuttosto seria.»

 Si volta di scatto e articola una smorfia tra addolorata e aggressiva. «Piuttosto seria dice? Io la chiamerei una tragedia.»

 «Me l’aspettavo», lo rintuzza la moglie, quasi ringhiando. Poi, rivolta a me: «Vede com’è fatto mio marito? Si lascia soverchiare dall’emotività, perde la testa e qualunque evento assume i contorni del dramma». Serra i pugni e socchiude gli occhi. «Anzi, peggio: del melodramma. È identico a sua madre, che si appendeva alle tende non appena il suo bambino si buscava un raffreddore o prendeva un brutto voto a scuola! Ora capisce perché con Giovanni abbiamo fallito? Nella nostra famiglia ogni difficoltà diventa una sventura, un’apocalisse dalla quale è impossibile salvarsi!»

 «Spacciare cocaina è una sventura, Jacqueline», replica lui con la vocina alterata, ma con un tono meno acuto e sguaiato del solito. Sembra schiacciato dal dolore, tutto compreso nel pensiero del figlio. A un certo punto alza lo sguardo e torna a implorare una risposta negativa. «Crede che ne faccia anche uso?»

 «Non sono sicuro», dico. «Ma penso di no. Tutt’al più qualche canna, hashish o marijuana.»

 «Cosa glielo fa pensare?»

 «Mi sembra troppo interessato a venderla.»

 «Dio che vergogna!» sbotta Giacomo Selman nascondendo il volto fra le mani, rabbioso. «Mio figlio uno spacciatore!»

 «Potrebbe anche essere altro», ribatte lei ostentando un ottimismo fasullo.

 «Altro?»

 «Il colpo di testa di un adolescente che cerca di fare i conti con le sue origini.»

 Dopo quello che ci siamo detti, l’affermazione suona aria fritta, una lezioncina mandata a memoria alla quale mancano convinzione e cuore. Giacomo Selman scuote il capo, ma sembrano mancargli le forze per ribattere. Si rivolge a me e domanda: «Chi è questo pusher?».

 «Ancora non lo so. Dall’aspetto non si capisce cosa ne faccia dei soldi, perché veste come un miserabile e puzza come una capra. La sola cosa certa è che si tratta di un sudamericano, probabilmente viene dalla Colombia.»

 «Ho chiesto al dottor Pagano di continuare a lavorare per noi», mi interrompe Jacqueline con voce tremula. «Non può mollarci proprio adesso.»

 «Chiederò aiuto alla polizia per ottenere qualche informazione», replico.

 «Perché non lo fa arrestare?» domanda Selman.

 «Posso provarci, ma non sono sicuro che sia una mossa felice.»

 «Lasciarlo in circolazione mentre sfrutta nostro figlio le sembra invece una mossa felice?»

 Per quanto a malincuore, non posso tacergli la verità sui rapporti tra Giovanni e il sudamericano. Sto per rispondere, quando, ancora una volta, Jacqueline si mette di mezzo. Nelle sue parole colgo un palpito di soddisfazione, quasi il piacere sottile della vendetta.

 «Tuo figlio sembra infatuato di quell’uomo, neanche fosse il suo vero padre. Secondo Pagano farlo arrestare potrebbe legarlo ancora di più a lui…»

 «Sì», mi affretto a dire, «c’è il rischio di trasformarlo ai suoi occhi in una specie di martire.»

 «Giovanni non è stupido», ribatte lui a denti stretti. «Non può confondere uno spacciatore con un martire.»

 «Sì, invece, se proviene dalla sua terra.»

 «Il dottor Pagano teme che possa trattarsi di un pusher fuori dai giri della mafia…»

 «Che significa?»

 Ripeto quanto ho già spiegato alla donna riguardo alla eccellente qualità della coca smerciata da Giovanni e alla possibilità che si tratti di un traffico in concorrenza con quello gestito dalle mafie. E, mentre parlo, mi ritrovo a dare credito al sogno guerrigliero del misterioso Manuel BSG che su Facebook scrive: «Smerciare coca per finanziare la lotta è un atto rivoluzionario».

 Selman capisce al volo e il suo allarme diventa panico: «Questo significa che la vita di Giovanni potrebbe essere in pericolo?».

 «Bisogna fermarlo», conferma Jacqueline. «Perciò ho chiesto al dottor Pagano di occuparsi di nostro figlio.»

 L’uomo sembra perplesso. «Non è quello che ha fatto finora?»

 «Intendo che deve stargli vicino, parlargli e fargli capire che sta sbagliando.»

 «Sua moglie vorrebbe assumermi come balia…»

 «Convincerlo a cambiare strada», insiste lei. «Con le buone o con le cattive.»

 «Non ci siete riusciti voi, perché dovrei farcela io?»

 «Perché non è il suo genitore adottivo», risponde Jacqueline di getto, e questa volta la frase le è uscita dal cuore, in un impeto di disperazione e sincerità. Mi chiedo se per diventare autentica questa donna non abbia bisogno di toccare il fondo.

 Giacomo Selman tiene di nuovo il volto nascosto tra le mani. «Spacciatore di cocaina», ripete sottovoce come una litania. «Mio figlio uno spacciatore di cocaina!»

 «Vede com’è fatto?» riattacca la moglie. «Lui si arrende prima ancora di combattere. Capisce perché abbiamo bisogno di lei?»

 L’uomo scopre il viso e le lancia un’occhiata piena di odio. «Io combatto da otto anni», scandisce sottovoce. Il tono è metallico, gelido, ma la stridula acutezza delle sue tirate impotenti è sparita. «Ora non ce la faccio più. Che intende fare, dottor Pagano?»

 «Dovete denunciare Giovanni e il suo pusher. Il ragazzo sarà sottoposto a procedimento penale, ma finché è minorenne non rischia molto. Gli verrà proposta una misura di messa alla prova, il giudice fisserà un periodo da trascorrere a casa o in una comunità e, se tutto filerà liscio, la cosa finirà lì.»

 «Lo abbiamo tolto da un orfanotrofio dove prendeva botte da tutti, inservienti e ragazzi, un postaccio popolato da topi e scarafaggi dove non aveva nulla, e gli abbiamo dimostrato il nostro amore accontentandolo in tutto…»

 «Aveva otto anni», lo interrompe la moglie.

 «Che vuoi dire?» le grida in faccia, furibondo. La voce è tornata quella di sempre, fastidiosa e stridula. «Che era bacato?»

 «Questo lo hai sempre pensato tu», ribatte secca. «La sua personalità era già formata.»

 «Ah sì? Ed è per questo che non ha trovato di meglio che restituirci disprezzo e umiliazioni? Più ci davamo da fare per farlo contento e più ci ricambiava deludendo ogni nostra aspettativa…»

 Non riesco a trattenermi e sparo: «Non mi dica che da un ragazzo così si aspettava gratitudine…».

 Resta interdetto, confuso. «Così come?»

 «Cresciuto nei sobborghi di una delle città più pericolose al mondo.»

 «Ebbene sì», ribatte risentito. «Forse me l’aspettavo, dottore.»

 «Non ha chiesto lui di diventare vostro figlio.»

 «Oh sì, invece. Avrebbe dovuto vedere con quali occhi guardava mia moglie… Sembrava un cucciolo abbandonato.»

 «Piantala di dire sciocchezze», lo interrompe Jacqueline. È arrossita, non so se per rabbia o imbarazzo. Quindi, rivolta a me: «Allora, dottor Pagano, accetta la mia proposta?».

 «Neanche per sogno.»

 «Almeno per un periodo di prova. Sarà ben pagato.»

 «Non è questione di soldi. Questa sera vedrò il mio amico commissario e gli chiederò di raccogliere informazioni sul pusher. Quanto a Giovanni…»

 «Quanto a Giovanni?» domandano all’unisono.

 «Anche se esula dal mio incarico, proverò ad acchiapparlo e a riportarlo a casa. In quell’occasione cercherò di parlargli. Ma anche voi dovrete fare qualcosa per me.»

 «Qualunque cosa», risponde Jacqueline.

 «Avete mantenuto qualche contatto con l’associazione che vi ha assistiti nell’adozione?»

 «Una nostra amica di famiglia lavora nella sede di Genova. In questi anni ci è stata vicina…»

 «Come si chiamava il padre di Bernardo?»

 Alla domanda segue un’impercettibile pausa di gelo. L’istinto mi suggerisce che Jacqueline ha ragione, dopo otto anni non sono ancora pronti ad accogliere davvero il loro figlio e hanno bisogno che qualcuno li aiuti.

 «Gliel’ho detto», risponde, «Sánchez.»

 «Mi serve il nome completo.»

 «Non lo sappiamo.»

 «Attraverso l’associazione potreste forse ottenerlo, insieme a qualche informazione sulla data e il luogo in cui è stato ucciso.»

 «Non può farlo la polizia?» domanda Giacomo.

 «Forse sì, ma dubito che il mio amico in pensione abbia mai intrattenuto rapporti camerateschi con la polizia colombiana.»

 «E perché?»

 «Perché Pertusiello è un irriducibile comunista.»