Capitolo 4
TRACCE
Il profilo Facebook di Giovanni Selman si rivela una grossa delusione e, per qualche oscura ragione, la cosa mi indispettisce. Mi sento preso per i fondelli e mi accorgo che – pur non avendolo mai conosciuto – sono arrabbiato con lui, tale e quale suo padre.
Il solo particolare interessante è la foto di copertina: rappresenta una montagna innevata che si erge come un totem sulla distesa verde della selva equatoriale. Ricorda un paesaggio andino, e potrebbe trattarsi della sua Colombia. L’immagine del profilo è scontata e mostra il supereroe dei fumetti oggi più in voga, Spiderman. Ai miei tempi lo chiamavamo l’Uomo Ragno, così come Superman era Nembo Kid e Phantom l’Uomo Mascherato. Solo Batman e Topolino non hanno cambiato il nome con cui li abbiamo conosciuti da ragazzi.
Tra le fotografie trovo qualche scatto di Giovanni, ritratto da solo o insieme ad alcuni coetanei – probabilmente compagni di scuola delle medie – in cui il giovane indio sembra ancora un bambino, con lo sguardo smarrito e un sorriso inespressivo incollato alla faccia come una maschera compiacente. Una sequenza d’immagini di pubblicità che ricorda un carosello correda un diario scarno e del tutto insignificante. La fiera della banalità e dell’anonimato. Pochi amici, gli stessi delle fotografie, oltre al padre e alla madre, i soli a pubblicare qualche commento che suona più insulso che timido, della serie “proviamo ad avvicinarci parlando il tuo linguaggio”, il che potrebbe avere un senso se solo sulla bacheca comparisse una frase, un commento di Giovanni, che invece se ne sta ben nascosto dietro figure che, per quanto le guardi e riguardi, sembrano appiccicate apposta per riempire il vuoto.
Quella più recente – la pubblicità di una marca di merendine – risale a un mese fa, e sono pronto a scommettere che l’ha postata servendosi dell’ultimo computer regalatogli dal padre, prima di farlo scomparire nel buco nero della sua vita parallela, scambiato con un dado di hashish o una busta di marijuana, o forse con l’amara soddisfazione di gettarlo in un bidone della rumenta.
Cosa posso dedurne? Che i social network non lo interessano e alle amicizie virtuali della rete preferisce le relazioni in carne e ossa della strada, più vicine a quelle che ha conosciuto nella sua prima vita? Oppure che si tratta di un profilo fasullo, una specie di specchietto per le allodole, dove le allodole siamo noi, i coniugi Selman e il sottoscritto?
In casa il caldo è opprimente, nonostante sia mezzanotte passata. Ho spalancato porte e finestre e di fronte alla scrivania dell’ufficio ho sistemato il ventilatore che vortica al massimo dei giri. Dallo stradone di Sant’Agostino arrivano voci di ragazzi e ragazze che dai carruggi risalgono verso la collina di Carignano per recuperare l’automobile o il motorino.
Provo a digitare il suo primo nome, Bernardo Sánchez García. Trovo alcuni profili, ma nessuno risponde all’identità del giovane scomparso. Faccio qualche altro tentativo con i singoli nomi, ma vengo subissato da eserciti di Bernardo, Sánchez e García, un ginepraio dal quale non cavo fuori niente. Allora tento con le iniziali, bsg, ed ecco che, dopo una fabbrica veneta che produce paralumi, una banca belga e una finanziaria svizzera che tratta titoli azionari, trovo unapagina «Manuel bsg» che mi mette in sospetto.
Nel profilo campeggia la fotografia di un uomo sulla quarantina, carnagione scura, barba e baffi folti appena spruzzati di bianco, grandi occhiali con la montatura di osso. È ritratto a mezzo busto e indossa berretto e tuta mimetici di tipo militare. Sullo sfondo si intravede un luminoso paesaggio campestre d’un bel verde vivo. Nell’immagine di copertina spicca una bandiera a bande orizzontali, gialla blu e rossa, e al centro il profilo di uno stato con due fucili incrociati e sotto la scritta: FARC-ep. È il vessillo delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia-Esercito del popolo. Non compare nessuna amicizia. Nelle foto una sequenza di immagini di uomini che, dall’abbigliamento, hanno l’aria di essere leader rivoluzionari. Mi basta una rapida ricerca per scoprire che si tratta dei comandanti delle FARC: Manuel Marulanda Vélez, Raúl Reyes, Alfonso Cano e Rodrigo Londoño detto Timochenko, attuale capo dell’organizzazione. E proprio a Guillermo León Sáenz, alias Alfonso Cano, ucciso in combattimento nel novembre del 2011, appartiene l’immagine del profilo.
Il diario contiene una sfilza di post, alternati a video e interviste, in cui viene ripercorsa la storia delle FARC a partire dal 1964 fino a oggi. Il fatto curioso è che la lingua usata da Manuel BSG non è lo spagnolo, come ci si potrebbe aspettare, ma l’italiano. Solo i proclami, che inneggiano alla rivolta dei campesinos e denunciano la doppiezza dei governanti colombiani, i quali da un lato si siedono al tavolo per trattare con i dirigenti rivoluzionari e dall’altro impegnano ingenti risorse in armamenti per distruggere la guerriglia, sono scritti in un castigliano zeppo di errori.
Nella descrizione della lunga lotta che ha visto le FARC opporsi all’esercito colombiano, finanziato e addestrato «dagli imperialisti americani e dalla cia», uno spazio speciale è riservato alla descrizione delle condizioni di vita dei campesinos, cacciati dalle loro terre e costretti a rifugiarsi nelle città dove conducono una vita miserabile, e a due eventi che hanno segnato la storia del paese: il sequestro e la liberazione di Ingrid Betancourt, la politica colombiana trattenuta dalle FARC per sei anni e liberata nel luglio 2008. Si insiste sulla falsità del governo che, alle dichiarazioni di voler trattare con la guerriglia, ha puntualmente fatto seguire azioni militari, e sull’operazione chiamata Odisseo, in cui il 4 novembre 2011 perse la vita il comandante Alfonso Cano. Registro il fatto che fu realizzata dall’esercito con il sostegno dell’aeronautica intorno alla città di Suárez, cento chilometri a sud di Santiago di Cali.
Nei proclami si dichiara che il commercio illegale della cocaina è giustificato dalla necessità di finanziare la lotta del popolo colombiano contro i latifondisti e le oligarchie che lo opprimono. Numerosi post fanno riferimento alla venganza sacrosanta por un crimen que pronto será lavada con la sangre.
L’ultimo post afferma: Viva la libertad!, ed è stato scritto il giorno in cui Giovanni è scappato. La data di creazione della pagina risale a oltre due anni fa: dicembre 2012.
Quando finisco la lettura mi accorgo che è notte fonda. Il tempo è volato. Mi domando se davvero dietro il profilo di Manuel bsg possa nascondersi lo sguardo torvo e ribelle di Giovanni Selman. Per prima cosa, domattina chiamerò al telefono i miei clienti per sapere se il loro figlio ha mai accennato alla guerriglia colombiana. Una così viscerale passione per la storia delle FARC, il movimento armato più longevo dell’America Latina, non può non essere trapelata in qualche discussione tra Giovanni e i suoi genitori. In fondo, casa Selman tutto mi è sembrata fuorché un luogo dove vige un regime dittatoriale.
La notte trascorre lenta e sudata, vivida di immagini e sensazioni che mi riportano indietro, all’anno appena trascorso. Risento ancora l’odore degli aceri entrare, con l’aria fresca della sera, attraverso la finestra spalancata e riempire la stanza della clinica americana dove mi hanno operato, restituendo a mia figlia, a Clara e ai miei amici la mia vecchia carcassa arrugginita ma viva. Una pallottola aveva perforato il casco della moto e leso le due vertebre cervicali, l’atlante e l’epistrofeo. Frammenti d’osso vagavano pericolosamente intorno al midollo spinale, rischiando di uccidermi o lasciarmi paralizzato. Mi avevano imbragato in una struttura ortopedica chiamata halo-vest, un busto su cui erano installati bracci metallici che, attraverso perni a vite, bloccavano la testa e il collo. L’ho portato per sei mesi, da febbraio a settembre, e per mia fortuna la scorsa estate non è stata calda come l’attuale.
In quel periodo non potevo uscire di casa, mi muovevo con difficoltà e ad accudirmi c’erano Zainab, la mia colf nubiana, e mia figlia Aglaja. Con l’aiuto di quest’ultima ho imparato a usare il computer e, per alcune settimane, ho lavorato a un’indagine da cui lo scrittore Gian Claudio Vasco ha tratto un romanzo.
È la storia dell’attentato che stava per costarmi la vita. Rivedo il faccione congestionato dell’uomo che mi ha sparato, l’imprenditore Giovanni Coiro, amico d’infanzia del mio compagno di liceo Cesare Almansi. Rivedo i suoi occhi vuoti quando si è infilato in bocca la Beretta Cougar calibro 9 e ha fatto fuoco, nella luce accecante del mio ufficio. Non riesco invece a immaginare gli occhi di Cesare quando si è schiantato con la sua auto sulla Firenze-Lucca, nel cuore della notte. Avverto ancora nei muscoli il senso di paralisi che mi ha bloccato mentre guardavo Coiro ammazzarsi senza poter fare niente. E sento l’odore della cordite saturare l’aria, e il sapore dolciastro del sangue, e nel corridoio le grida disperate di Aglaja e i colpi degli agenti contro la porta chiusa dell’ufficio. Non riesco invece a sentire lo schianto dell’auto contro il guardrail, lo spaventoso rumore delle lamiere mentre la BMW rotolava sull’asfalto come un giocattolo a molla, e il momento in cui il suo cuore, il cuore del mio amico, ha cessato di battere.
Davvero era lucido e ha deciso di non frenare, non sterzare, non vivere più? Ma perché lo avrebbe fatto?
La mia indagine si era concentrata sulle ragioni per cui mi avevano sparato. Conoscevo fin dall’inizio il nome dell’uomo, ma non riuscivo a comprendere la ragione che lo aveva spinto a farlo. Il legame malato, distorto che lo legava a Cesare mi aveva indotto a pensare che quest’ultimo sapesse che Gianni Coiro era un assassino. Invece le cose erano più complicate e c’è voluto il genio di Dostoevskij per aiutarmi a vederle nella loro sottile, inafferrabile complessità. Come il servo Smerdjakov con Ivan Karamazov, così Coiro aveva ucciso convinto che Cesare si aspettasse questo da lui. Invece entrambi ? Smerdjakov e Coiro ? si erano sbagliati. Ma allora perché il senatore Almansi si sarebbe suicidato?
Avvolto dal buio e dal lenzuolo fradicio di sudore, cerco nuovamente di afferrare il filo esile, fragilissimo, della verità. Provo a tirarlo con delicatezza, per dipanare la matassa dell’esistenza e dare un senso a quanto è accaduto. Cesare Almansi era un vero amico, insieme abbiamo condiviso le stesse idee e le stesse lotte. Suo padre, l’avvocato Aristide, mi ha tirato fuori dal carcere quando nessuno sembrava più scommettere sulla giustizia dei tribunali. Per molti anni non ci siamo più frequentati, ma ho sempre guardato a lui come a un uomo integerrimo, che si è mantenuto coerente con quelle scomode convinzioni, così noiose e démodé.
Come liquidare tutto questo con una scrollata di spalle? Come confinarlo nella zona grigia delle verità imperscrutabili? Eppure le mie domande restano sospese nel vuoto, senza trovare risposte. E, quel che è peggio, il tempo finirà per sfumare sempre più i contorni delle cose, relegandole nell’anticamera dell’oblio.
Di colpo un lampo squarcia le tenebre e nella mente si materializza l’immagine di Giovanni Selman. Anche la sua storia sembra sfumare nel limbo opaco dove fluttuano infinite possibilità. Perché quando tutto appare possibile, non c’è più niente di vero. Fino a dove dovrò spingermi per trovare una risposta agli interrogativi sollevati dalla sua scomparsa?
Sono appena le sette quando mi sveglio, e lame d’una luce torrida tagliano la penombra della stanza. Mi alzo, ciabatto fino al bagno e staziono a lungo, immobile, sotto la doccia fredda. Poi, lentamente, mi vesto e preparo il caffè. Intorno alle otto squilla il telefono. È Totò Pertusiello che vuole dimostrarmi con i fatti che i suoi galloni contano ancora qualcosa, anche se la pensione lo ha costretto ad appenderli al muro.
«Sembra che il tuo giovane indio sia stato visto su un treno diretto a Roma: carrozza di seconda classe.»
«Quando?»
«Ieri, alle sette di sera. Aveva il biglietto di andata e ritorno per Massa e gli agenti non hanno fatto una piega.»
«Come puoi essere sicuro che fosse lui?»
«Ho delle conoscenze tra i dirigenti della Polfer», cinguetta gongolante. «In passato gli ho tolto qualche castagna dal fuoco e, per fortuna, la gratitudine è un sentimento che sopravvive al tempo e ai pensionamenti. I poliziotti hanno controllato i documenti: il cognome Selman è di quelli che non si dimenticano. Hanno capito che si trattava di un ragazzo adottato, tutto era in regola e si sono limitati a porgere le loro scuse.»
Lo ringrazio, saluto e sto per riattaccare quando mi blocca e domanda: «Che ne dici per venerdì sera?».
«Venerdì sera?»
«L’Agnese scalpita. Ti sei scordato l’invito a cena?»
«Certo che no», mento. «Venerdì sera va bene. Alle otto da te.»
È arrivato il momento di telefonare ai miei clienti. Mi hanno lasciato il cellulare di entrambi, ma qualche misteriosa ragione mi spinge a chiamare la moglie.
La voce è ancora impastata di sonno. Forse per dormire si impasticca di sonniferi. Da quando Giovanni è scomparso le sue abitudini sono cambiate, lo zelo lavorativo sembra evaporato nella calura africana e le fughe in ufficio a ore antelucane non sono più all’ordine del giorno.
«Spero di non averla svegliata», attacco in tono di scusa.
«Non si preoccupi», si affretta a dire. «È che ieri abbiamo fatto tardi: una cena con un cliente importante… Piuttosto, qualche novità?»
«Una novità e una domanda: Giovanni è stato visto ieri su un treno per Roma.»
«Era solo?»
«Sembra di sì, aveva un regolare biglietto di seconda classe andata e ritorno.»
«Non capisco…»
La risposta mi suggerisce che sta cominciando a riprendere contatto con la realtà.
«Non avete parenti, amici o conoscenti a Massa?»
«Forse qualche conoscenza, ma nessuno che possa ospitare mio figlio.»
«È sicura?»
Esita un attimo, poi risponde decisa: «Sì».
«Ora vengo alla domanda: Giovanni vi ha mai parlato delle FARC?»
Segue un silenzio perplesso e confuso, senza tracce di imbarazzo o sorpresa. «Le FARC? Di che si tratta?»
«Non mi dica che a Cali nessuno vi ha informato dell’esistenza delle FARC. È l’Esercito di liberazione della Colombia, un’organizzazione di guerriglia che controlla ampie porzioni di territorio del paese. Per alcuni stati, compresa l’Unione europea e gli Stati Uniti, si tratta di un’organizzazione terroristica. Ma sa com’è, anche Ernesto Che Guevara e il subcomandante Marcos sono stati definiti così.»
«Sono passati troppi anni, ma non ricordo di averne sentito parlare», risponde quasi infastidita. «E comunque, Giovanni non ne ha mai fatto cenno, né con me né con mio marito.»
La memoria è uno specchio che talvolta gioca strani scherzi. Giovanni ha dimenticato la sua lingua madre e la signora Selman non ricorda che mezza Colombia è controllata dalle FARC.
«Come fa a esserne così sicura?»
«Giacomo me l’avrebbe riferito. Conosco mio figlio, e sono certa che non sappia nemmeno dell’esistenza di queste FARC.»
L’argomento la inquieta. Solo l’idea che le radici che legano Giovanni a Bernardo possano avere implicazioni con guerriglia e terrorismo colorano quel legame, di per sé irritante e fastidioso, d’una tinta fosca e sinistra. Una madre morta misteriosamente e un padre narcotrafficante costituiscono una macchia già abbastanza sgradevole sull’anima d’un figlio che si vorrebbe prolungamento d’un lignaggio laborioso e rispettabile.
Dopo un’altra pausa di silenzio, cola saliva e dubbi e aggiunge: «Come le è venuto in mente che Giovanni…».
«Così», taglio corto. «In Colombia narcos e guerriglia sono spesso assimilati.»
«Crede che il padre di Giovanni possa essere stato un terrorista?»
«Se mai un guerrigliero», ribatto. «Ma questa è solo un’idea che mi è passata per la testa leggendo qualche notizia sulla recente storia colombiana.»
«Insomma», conclude con un sospiro, «niente di concreto.»
«Niente di concreto.»
Il commiato sa di zucchero e caffè ? il mio, e forse anche il suo, servito a letto dalla cameriera ecuadoriana ? e della prospettiva di una nuova, lunga giornata riempita dall’angoscia e dall’attesa di notizie di un figlio che non si sa chi sia.