Capitolo 5
DESCÁNSATE NIÑO, CHE CONTINUO IO
Finché Atahualpa, o qualche altro dio,
non ti dica: descánsate niño, che continuo io.
Paolo Conte, Alle prese con una verde milonga
Alle otto della sera il calore invade l’atrio della stazione Brignole con il suo fiato umido e saturo di scarichi che avvelenano l’aria. Dopo quattro ore che faccio la spola tra gli sportelli e le biglietterie automatiche, scrutando i volti della gente a caccia di un fantasma, non solo provo invidia per Pertusiello e il suo pensionamento forzato, ma comincio a pensare che devo trovarmi un socio più giovane. Non ho più l’età per certe sfacchinate.
Se solo Essam, il figlio della mia colf nubiana nonché fidanzato di mia figlia, dopo avere vissuto e studiato per vent’anni in Italia, avesse i requisiti per ottenere la licenza – cittadinanza italiana e laurea triennale ? potrebbe associarsi all’agenzia e realizzare il sogno che ha coltivato fin da quando era ragazzino. Ma in questo paese certe idee suonano fantascienza. Quale prefettura rilascerebbe la licenza di investigatore privato – per non parlare del porto d’armi ?, a un egiziano che professa la religione musulmana? Meglio lasciarlo al suo lavoro di cuoco, con cui guadagna abbastanza da permettersi di vivere da solo.
La carogna che accompagna questi pensieri rende ancora più insopportabile lo smacco di non trovare traccia del giovane Selman. Devo rassegnarmi al fatto che Giovanni potrebbe essere salito su un treno in un’altra stazione, o non aver preso nessun treno, e sono sul punto di abbandonare la mia ricerca e tornare al parcheggio dove ho lasciato la Vespa, quando nello specchio dell’entrata principale, nella luce ancora vivida del crepuscolo, intravedo un’immagine che mi fa sussultare. Gli occhi scuri e la calotta di capelli corvini sono inconfondibili. È proprio lui, il semidio inca che si muove ondeggiando sulla punta dei piedi.
Mi faccio spazio tra la folla e, con una manovra di aggiramento, mi porto alle sue spalle. Posso muovermi in libertà perché non mi ha mai visto e non può riconoscermi. Indossa una camicia bianca d’un candore che abbaglia, aperta sulla pelle glabra e scura del petto, calzoni lucidi e mocassini leggeri, entrambi neri, neanche dovesse andare a un party. La sola nota stonata è un piccolo zaino nero che porta sulla spalla. Una ragazzina seminuda appena tornata dal mare lo fissa incantata, l’aria sognante e lo sguardo carico di promesse. Giovanni punta una biglietteria automatica libera e io gli scivolo dietro come fossi la sua ombra. Lo osservo armeggiare usando denaro contante finché la macchinetta sputa un biglietto a/r per Massa. Estraggo il bancomat dal portafogli e lo imito, quindi mi precipito nel corridoio che porta ai binari.
Il pedinamento è un’arte che richiede esperienza e una certa accortezza. Giovanni non mi conosce, ma quasi sicuramente si è accorto di me alla biglietteria. Immagino che un fuggiasco mantenga un livello di attenzione piuttosto elevato e che non si perda nulla di quanto gli accade intorno. Così evito di sedermi troppo vicino a lui e prendo posto su un sedile dal quale, senza essere visto, posso controllare i suoi movimenti. Il vagone odora di sudore stantio, ma per fortuna è poco affollato e dotato di aria condizionata. Appena il treno parte il ragazzo sfila dallo zaino un iPod, sistema gli auricolari e lo accende. Chiude gli occhi e si abbandona comodamente seduto ad ascoltare la musica.
Anch’io ho il mio piccolo zaino dal quale estraggo Il Maestro e Margherita di Bulgakov. È uno dei primi romanzi che ho letto quando ero in prigione, a Novara, e ricordo d’esserne rimasto incantato. L’irrompere della vita sotto forma di diavoli e gatti mammoni nella grigia, soffocante atmosfera della Mosca staliniana mi aveva fatto sentire più libero, nonostante fossi rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. Comincio a leggere della sensuale Hella dagli occhi verdi e depravati, la domestica-strega della bizzarra combriccola di Woland, controllando di tanto in tanto il mio giovane amico. Devo fare un certo sforzo per non lasciarmi assorbire dal testo, finendo per dimenticare lo scopo per cui mi trovo qui.
Quando arriviamo a Massa è ormai buio e, oltre il finestrino, la stazione quasi deserta sembra galleggiare nel chiarore opaco delle luci artificiali. Dallo sportello aperto una vampa bollente mi assale a tradimento. Giovanni sembra muoversi seguendo una direzione precisa. Raggiunge il parcheggio dei taxi, dove stazionano due auto, e si infila nella prima. Aspetto qualche secondo e faccio altrettanto con la seconda, chiedendo all’autista di star dietro al suo collega mantenendo una certa distanza.
«Che siamo capitati in un film di James Bond?» scherza l’uomo al volante, asciugandosi il sudore con un fazzoletto di carta. Non fosse per l’accento toscano imbastardito di ligure, ha una barba rossiccia e una faccia rotonda e arrossata che gli conferiscono l’aspetto dello svedese che ha trascorso la giornata su una spiaggia della Versilia.
«Sì», rispondo a tono, «ma senza James Bond.»
«Quanto a questo», ribatte, «l’avevo capito da me. Non se l’abbia a male, ma si vede che lei non ci ha più l’età.»
Simpatico, l’amico. Tanto vale stare al gioco. «Guardi che si sbaglia: quando è uscito Licenza di uccidere io portavo i calzoni corti.»
«Ha ragione!» risponde battendosi la fronte. «Gli eroi del cinema non invecchiano mai.»
«Come quelli di carta. Gli eroi son tutti giovani e belli...»
«Già…» aggiunge come sovrappensiero. «Chi era il poeta che lo diceva?»
«Non era un poeta. O forse sì? È un verso della Locomotiva di Guccini.»
Intanto il pensiero corre a Giovanni, che sto inseguendo verso una destinazione che nella mia testa diventa sempre più chiara. L’illusione che, per quanto giovane e bello, si tratti di un eroe sfuma del tutto quando vedo l’auto svoltare nel parcheggio davanti a una specie di disco volante illuminato a giorno che ha tutta l’aria di essere una megadiscoteca. Un gigantesco prisma circondato dal nulla e infrattato in una campagna di canneti e aria putrida brulicante di zanzare. Sopra l’ingresso una scritta luminosa che cambia continuamente colore: enterprise, come la nave spaziale della serie televisiva Star Trek. Il piazzale è quasi vuoto e ci vorranno alcune ore prima che venga preso d’assalto dalle auto dei patiti dello sballo. Siamo a qualche chilometro da Forte dei Marmi e questo posto ha tutta l’aria d’una riserva di caccia per pusher di crack e cocaina. Ho chiesto al tassista di fermarsi sul bordo della carreggiata e di spegnere i fari, una trentina di metri prima dell’ecomostro, al riparo di una siepe di pitosforo. Lui ha ubbidito senza fare commenti ma, mentre pago la corsa e sto per scendere, mi scruta di sguincio e ammicca: «Ho capito, lei o l’è il babbo o un investigatore privato».
«Complimenti», rispondo. «Tutt’e due le cose insieme. Come ha fatto capirlo?»
«Non è il primo che porto in questa bolgia dietro a qualche ragazzina.»
«Io sto inseguendo un ragazzo.»
«Il su’ figliolo?»
«No, un figlio di Atahualpa.»
«Questa non è di Guccini…»
«È Paolo Conte: Finché Atahualpa, o qualche altro dio, non ti dica: descánsate niño, che continuo io.»
Mi punta il dito contro, esultante: «La verde milonga!».
«La verde milonga», confermo. Quindi gli chiedo se sarebbe disposto a venirmi a riprendere. Non so quando Giovanni uscirà e non posso permettermi il lusso di perderlo.
«La capisco», annuisce. «Se le garba, posso anche aspettarla.»
«Mi costerebbe troppo. Fa il turno di notte?»
Scrolla le spalle. «Noi si fa i turni che più ci convengono. Mi dica quando ha bisogno di me e io arrivo.»
«In una manciata di minuti?»
«Anche meno.»
«Mi lasci il suo telefono.»
Mi porge un biglietto da visita e, senza riaccendere i fari, svolta a u sgommando. Attraverso il finestrino aperto lo sento cantare a squarciagola: «Sono venuto ad amare, e di nascosto a danzare...». Non capita tutti i giorni di incontrare un tassista così ferrato nelle canzoni d’autore.
Resto al coperto e vedo le luci del taxi di Giovanni che fa manovra e ritorna anch’esso verso Massa. Il ragazzo è un’ombra immobile in mezzo al piazzale deserto, avvolto dalla semioscurità e dal silenzio. Si è acceso una sigaretta. Mi domando come trascorrerà il tempo prima che questa semioscurità e questo silenzio lascino il posto a un inferno di auto e scooter che porteranno qui un’orda affamata di musica, alcol e vita, una calca di corpi sudati che satureranno l’aria della notte con fragranze di profumi esotici e creme solari. E, tornando a maledire lo scarso rispetto che porto a questa vecchia carcassa reduce di troppe, disastrose guerre, mi chiedo come anch’io trascorrerò tutte quelle ore all’aria aperta infestata dalle zanzare. Comincio ad avvertire le prime punture, micidiali, anche perché nel raggio di qualche chilometro, in questa landa desolata, ci siamo solo noi due: il figlio adottivo dei coniugi Selman e il sottoscritto.
Di entrare nell’astronave non se ne parla. Darei troppo nell’occhio e rischierei di farmi buttare fuori a calci. Mi chiedo perché Giovanni non si sia fermato in città, trascorrendo qualche ora nella frescura di un bar o al ristorante. I soldi per lui non sembrano un problema. Comincio anche ad avvertire i morsi della fame e una sensazione di profonda stanchezza. Solo dieci mesi fa sono rimasto otto ore su un tavolo operatorio, più morto che vivo, con le vertebre cervicali aperte come le valve d’una vongola. Non è trascorso un mese da quando ho cessato le sedute di riabilitazione e fisioterapia e ogni tanto sono ancora costretto ad assumere qualche antidolorifico che mi lascia inebetito per ore. Per mia fortuna medici e terapisti hanno fatto un buon lavoro e le cefalee si sono fatte sempre più rare, ma sono sicuro che con questa umidità domani mi toccherà rimpinzarmi di Fentanyl e restare a letto fino a mezzogiorno. A ciascuno la sua droga. Nel frattempo carico la pipa e accendo, nell’illusione che il fumo allontani i fottuti insetti ingordi del mio sangue e faccia correre più in fretta le lancette dell’orologio.
Mi chiedo in quale direzione sarà il mare. Quando anche la seconda automobile è sparita, le rane e i grilli si impadroniscono del silenzio. Nel cielo fa capolino la luce fioca di qualche stella e una mezza luna fradicia di umidità sbava il suo alone giallastro sulla cuspide dell’astronave.
Giovanni si è sdraiato su una specie di fontana piazzata in mezzo al parcheggio. Scorgo il puntino rosso della sigaretta accesa, poi più nulla. Forse si è addormentato. Il suo fisico di semidio lo rende indifferente a qualunque fastidio: calura, umidità e zanzare non lo tangono e il suo corpo atletico si libra sulle cose con l’inconsistenza d’uno spirito carico di giovanile energia. Ripenso al romanzo letto sul treno e mi dico che nella banda del demonio raccontata da Bulgakov il figlio dei Selman farebbe un figurone.
Anch’io mi siedo su un grosso tronco, oltre la siepe che delimita lo spiazzo, e protetto dal buio aspetto che succeda qualcosa. I minuti trascorrono lenti, lentissimi, scanditi dalle rare auto che passano sulla strada e dalle stramaledette punture delle stramaledette zanzare. Verso le undici, dall’interno della discoteca arriva una musica sparata a tutto volume, con il pompare dei bassi che muove l’aria e ricorda il rombo d’un terremoto. Arriva sgommando qualche automobile, ma solo intorno a mezzanotte il parcheggio comincia a riempirsi. Come se si fossero dati appuntamento a un’ora precisa, nel giro di pochi minuti la strada si intasa di automobili e motociclette e all’ingresso del piazzale si forma una lunga coda. Motori che rombano, molti suv e berline di grossa cilindrata, clacson e grida di giubilo. Eccoli i potenziali clienti del mio amico. Mi avvio verso la discoteca, incanalandomi in una fila di ragazzi e ragazze che seminano una scia di profumi, gorgheggi e feromoni. Le donne mostrano tutto quello che è permesso mostrare, e forse qualcosa di più. Sono belle, truccate, abbronzate e sembrano inseguire la musica che dall’astronave sale verso la volta del cielo come i famosi topolini del pifferaio di Hamelin. All’ingresso due grossi gorilla dalla testa rasata esibiscono vistosi tatuaggi sui vistosi muscoli delle braccia. Tutto corrisponde a quello che uno come me ? che non frequenta una discoteca da un migliaio di anni ? si aspetta che sia. Pago il biglietto che mi dà diritto a una consumazione gratis ed entro in una bolgia di luci, colori e suoni che mi ottunde la vista, ottura gli orecchi e mette sottosopra lo stomaco. Mi guardo intorno, alla ricerca di un punto di osservazione dal quale seguire i movimenti del ragazzo.
Lo vedo entrare e salutare familiarmente il cassiere. A quanto pare tutti lo trattano con grande confidenza. Comincia ad aggirarsi fra i tavoli e subito viene puntato da alcuni avventori che richiamano la sua attenzione. In cinque o sei si avviano verso i bagni, dove Giovanni li raggiunge dopo qualche minuto. Uno dopo l’altro escono alla spicciolata, ma deve essersi sparsa la voce perché altri si muovono in direzione dei servizi. Tengo d’occhio uno di loro che si è appena rifornito, un ragazzino lentigginoso che non avrà ancora vent’anni. Siede vicino a una ragazza vestita con un top rosso e blue jeans che assomiglia a una scolaretta. Davanti a loro un uomo piuttosto grasso, sui trent’anni, beve birra, suda e invita con insistenza la giovane a ballare. La sua presenza non è gradita e decido di approfittarne. Mi avvicino e lo scosto con una gomitata. Descánsate niño. Avrà metà dei miei anni, ed è pure grosso, ma è bolso e lo sovrasto di dieci centimetri buoni.
«Ehi, che maniere!» sbotta con la lingua legata al palato. L’accento lombardo è inequivocabile.
«Togliti di torno», intimo ad alta voce. In questo casino per farsi sentire bisogna urlare forte. «Non vedi che è impegnata?»
«E a te cosa ti frega? Sei della sicurezza?»
«Sì», replico fissandolo negli occhi. «La tua sicurezza.»
Brontola qualcosa di incomprensibile, ma alla fine lascia perdere e si allontana barcollando.
«Tipo molesto, eh?» dico rivolto alla ragazza.
«È già fradicio di birra», replica con un bel sorriso rotondo. «Lei è della vigilanza?»
«Veramente sono in cerca di qualcosa di buono da pippare.»
Leggo nei suoi occhi una punta di diffidenza. In effetti ha ragione, potrei essere della vigilanza e dare la caccia agli spacciatori. Allora decido di giocarmi l’asso: «Sto cercando il mio amico indio, ma stasera non l’ho ancora visto».
Il ragazzino fa segno di avvicinarmi. Nel frastuono sussurra qualcosa che non capisco. Allora accosto l’orecchio alle sue labbra e lo sento scandire: «Cerchi Manuel?».
«Sì, la sua neve non è niente male.»
«Niente male?» sbotta con un sorriso ebete. «È la migliore mai assaggiata qui dentro.»
«Davvero?» domando interessato. «Non sono un habitué di questo posto. È la seconda volta che ci vengo.»
«Una manna», interviene spavalda la ragazza, che invece sembra un’assidua frequentatrice dell’Enterprise, «piovuta dal cielo, così, all’improvviso.»
«All’improvviso?»
«È comparso con la sua polvere magica in questi ultimi giorni.»
«E prima non si era mai visto?»
«Mai», conferma il bamboccio lentigginoso. «Speriamo che resti tutta l’estate.»
«Dove lo trovo?»
«Nella toilette.»
«Grazie, amico», replico affibbiandogli una pacca sulla spalla. Per non destare sospetti mi dirigo verso i bagni, ma quando esco dalla portata della loro vista, evito di entrare. Un incontro vis-à-vis con Giovanni non fa ancora parte dei miei programmi. Non mi resta che trovare un tavolo, mangiare e bere qualcosa e aspettare che Bernardo, alias Manuel, finisca la serata per rimettermi sulle sue tracce. Ora che l’ho trovato, mi preme farmi portare fino al puparo che tiene i fili che lo muovono. Solo allora potrò ricondurlo a casa sano e salvo, sempre che non lo becchi prima la polizia.
Quando compongo il numero del mio tassista musicofilo sono le cinque del mattino e il sonno sta per sopraffarmi. I corpi sudati e seminudi delle ragazze che si agitano sulla pista, i loro profumi che ispirano pensieri sconci e malinconiche nostalgie, non sono più sufficienti a mantenere vigile la mia attenzione.
Quanto tempo sarà trascorso dall’ultima volta in cui sono entrato in una discoteca? Non così tanto, in verità. Mi sono ricordato che una decina di anni fa, mentre pedinavo il rampollo d’una illustre famiglia di armatori, sono finito al Quaalude di piazza Sarzano. Ho ancora negli occhi il corpo slanciato della finta bionda con cui lo scapolo dalle uova d’oro stava per convolare a nozze – si chiamava Alma ed era un autentico schianto, tanto bella quanto suscettibile e infedele. Si muoveva con movimenti lenti e sensuali sulla pista, mentre le casse mandavano la voce melodiosa di Elton John che cantava Blue Eyes. Peccato che fosse innamorata di uno spregevole faccendiere colluso con la mafia e che si fosse messa in testa che toccava a me salvarle l’anima e restituirle l’innocenza perduta. Non sapeva che gli investigatori privati fanno un lavoro sporco e in certe faccende sono i primi a rimetterci l’anima, oltre che la reputazione.
Tuttavia, fra le rare volte che ho frequentato una discoteca, non è stata quella l’esperienza che più ha pesato sulla mia vita. Ce n’è stata una, molto più antica, che mi ha lasciato dentro una ferita che, a distanza di oltre trent’anni, non si è ancora chiusa. Agosto 1980, pochi giorni dopo che ero uscito di prigione, assolto dall’accusa di essere un terrorista rosso. Il merito era stato tutto di suo padre, l’avvocato Aristide Almansi. Ero andato a casa sua per ringraziarlo, in un attico della Circonvallazione a monte dal quale, nelle giornate limpide di tramontana, si vedevano la Capraia e la Corsica. Nonostante fosse democristiano, credeva così tanto alla mia innocenza che per difendermi non aveva voluto una lira. Con suo figlio Cesare avevamo diviso i banchi del liceo e i cortei del Sessantotto. La nostra rivoluzione mancata, infarcita di sogni e delusioni, e forse troppo ricca di carboidrati e proteine per realizzarsi. Perché per fare davvero la rivoluzione bisogna essere non solo coscienti, ma anche affamati.
Quella sera siamo andati a festeggiare al Covo di Nordest di Santa Margherita, una sala da ballo di lusso dove Cesare era di casa. Ci teneva compagnia il suo amico Gianni Coiro e nel mezzo della festa, quando già eravamo gonfi di hashish e champagne, era piombata, tanto inattesa quanto sgradita ospite, la fidanzata segreta di Cesare, Adele Semeria. Coiro l’aveva riaccompagnata a casa, o almeno questo gli era stato chiesto di fare. Ma lui era strinato marcio, gli mancava il senso del limite e aveva una certa propensione a confondere i desideri con la realtà. Così ha creduto di fare un favore al suo amichetto del cuore e ha portato Adele sulla strada di San Rocco, dove l’ha uccisa spaccandole il cranio a colpi di pietra. Quella tragica notte ha attraversato le nostre esistenze come un’ombra scura, un torbido ricordo offuscato dal fumo e dall’alcol, fino al tragico epilogo che ci ha coinvolti tutti, senza risparmiare nessuno. Coiro è morto, sparandosi in bocca nel mio ufficio. Io mi sono beccato due pallottole, una delle quali per poco non mi ha lasciato morto stecchito o tetraplegico. E la fine di Cesare si è consumata in questi giorni, nella calura di questo luglio africano, sull’autostrada per Firenze poco distante da qui. Forse si è trattato di un colpo di sonno. Sono in molti a pensarlo. Ma come un mantra mi risuona in testa la domanda del mio amico Totò Pertusiello: «Ma tu, che lo conoscevi bene, cosa pensi?».
Il mio tassista arriva puntuale e mi deposita alla stazione di Massa, dove salgo al volo sul treno che mi riporta a Genova insieme al giovane spacciatore colombiano. Il suo portafogli dev’essere ben gonfio, migliaia e migliaia di euro scivolati nelle sue tasche in cambio di uno zainetto carico di bustine di polvere bianca. Arrivati a Brignole, monto al volo sulla Vespa e tallono il suo taxi fino a piazza Cavour, dove scende quando il sole è ormai alto e l’asfalto sembra squamarsi sotto i suoi eleganti mocassini neri. Sommato alla stanchezza, l’odore che emana dal mercato del pesce mi fa venire voglia di vomitare. Giovanni raggiunge una delle prime case di via del Molo e si ferma davanti a un portone. Estrae dallo zaino un mazzo di chiavi, apre e sparisce alla mia vista.
Finalmente ora so dove si nasconde Giovanni Selman. Devo solo scoprire chi è quel bastardo che gli offre la casa in cambio di un servizio che frutta un mucchio di soldi, approfittando del fatto che il ragazzo è minorenne e, nel caso venisse beccato a spacciare, rischierebbe una condanna ridicola, difeso da avvocati che, tra mille mal di pancia, i coniugi Selman sarebbero pronti a pagare profumatamente.