Capitolo 8
GIOVANNI
Agnese ha servito in tavola antipasto freddo di pesce, orate al cartoccio e per dessert uno squisito sorbetto ai frutti di bosco preparato con le sue mani. Abbiamo svuotato due bottiglie di un eccellente Fiano di Avellino acquistato nel pomeriggio all’enoteca d’angolo fra Canneto il Curto e Caprettari, e, non volendo farci mancare niente e per concludere in bellezza, ci siamo scolati un bicchierino di vodka Moskovskaya fredda di ghiacciaia. Lei e suo marito mi guardavano con gli occhi che si riservano a un redivivo, a metà fra Lazzaro di Betania e Ulisse rientrato in patria. Erano felici che io fossi lì, insieme a loro, dopo le vicissitudini dell’ultimo anno e mezzo, che erano risuonate – per Pertusiello non meno che per me ? come sinistri campanelli di allarme. La vecchiaia s’era annunciata impietosa, mostrando non il volto appagato della serenità e della saggezza, ma quello subdolo e crudele che ammicca ghignando alla morte.
A un certo punto, rievocando il periodo terribile della mia separazione, ad Agnese si sono velati gli occhi di lacrime. Il caso ha voluto che, nell’ultimo incarico prima della pensione, avesse scelto di insegnare in una scuola elementare di Sestri Ponente e, tra gli alunni della prima, si fosse ritrovata in classe mia figlia Aglaja. Due anni dopo, quando la bambina aveva otto anni, Clara e io ci scannavamo in tribunale e dopo interminabili liti, ricorsi e rinvii, il giudice stabilì che potevo vederla solo previo consenso e sotto sorveglianza della madre. Purtroppo quella prescrizione non funzionò e io finii per rinunciare, limitandomi a sentirla al telefono una volta alla settimana e a spiarla di nascosto, facendole la posta quando usciva da scuola. Agnese aveva seguito la nostra vicenda con grande apprensione, un po’ perché ero tra i migliori amici di suo marito, ma soprattutto perché si era affezionata a quella ragazzina che sembrava un maschiaccio, spesso ingrugnita, pronta a menare le mani e con le ginocchia perennemente sbucciate. La sua sofferenza si esprimeva in forma di rabbia – tale padre, tale figlia – e capitava quasi ogni giorno che si scagliasse contro qualche incauto compagno di scuola o mandasse al diavolo maestre, bidelli e perfino la direttrice. Ora Aglaja è prossima a laurearsi in lettere e vive con me nell’appartamento di Stradone di Sant’Agostino. È stata una sua scelta, sulla quale Clara non ha avuto niente da ridire e che, in fondo, ha contribuito a determinare mantenendo vivo in nostra figlia l’amore per suo padre. L’ho capito tardi, ma questa è la verità. La sua durezza nella battaglia giudiziaria non era mossa dall’amor proprio ferito, né dal desiderio di vendicarsi per i miei tradimenti, ma dalla genuina preoccupazione di proteggere Aglaja da un padre la cui vita è sempre stata precaria, una continua scommessa con il destino. Col tempo i conflitti con la mia ex moglie si sono ricomposti e potrei dire che oggi il nostro rapporto è improntato a una comune, affettuosa sollecitudine per nostra figlia. Sollecitudine che, invecchiando, è diventata anche preoccupazione e complicità reciproche. Quando sono partito per New York, dove mi aspettava un intervento chirurgico che aveva il trenta per cento di probabilità di successo, ad accompagnarmi c’erano tre persone: Aglaja, la mia amica Gina Aliprandi e lei, Clara.
Nel pomeriggio avevo stampato una decina di fotografie scattate a Giovanni e al pusher, e le ho consegnate a Pertusiello. Gli ho raccontato del profilo Facebook di Manuel BSG e lui, con mia grande sorpresa, ha preso sul serio l’ipotesi che potesse trattarsi di un secondo account del giovane Selman. Anche il fatto che la qualità della coca sia superiore a quella in circolazione gli suonava sospetto. Mi ha promesso di darsi da fare e tenermi informato. Quando invece gli ho chiesto se sia in grado di ottenere notizie sul padre naturale di Giovanni ? e soprattutto sulle circostanze della sua morte ? è scoppiato in una delle sue proverbiali, fragorose risate. «Contatti con la polizia colombiana?» ha berciato, portando la mano di taglio sulla fronte e facendola oscillare. «Puoi scordartelo, Bacci. Ammesso che ci dicessero qualcosa, qualunque cosa fosse, non gli darei il minimo credito.»
Verso mezzanotte ho lasciato la loro casa sulle alture, imbriccata in una via costruita da cementificatori della stessa razza dei Selman. Si snoda fra spaventosi muraglioni di sostegno e condomini anonimi con tanti appartamenti e pochi box, dove trovare un parcheggio è più difficile che imbroccare un terno al lotto. Per mia fortuna l’avevo raggiunta in Vespa e non era stato difficile trovare un buco dove infilare il mio px.
Questa mattina mi sono svegliato in piena forma, segno che avevamo bevuto alcolici di buona qualità. Mi sono ricordato dell’impegno preso con Jacqueline Leblanc e di buon’ora sono sceso fino a via del Molo. Ho indossato una camicia di garza e un paio di calzoni larghi in modo da poter infilare in tasca la Beretta Cougar calibro 9. Erano più di due anni che non la toccavo e, nel farlo, ho avvertito un senso di repulsione, quasi di ribrezzo. L’ultima volta che ha sparato non sono stato io a impugnarla, ma questa circostanza non ha reso il contatto meno sgradevole, anzi. A usarla è stato Gianni Coiro, l’amico d’infanzia del mio compagno di liceo Cesare Almansi. Stavamo chiusi nel mio ufficio, io ero bloccato dalla gabbia ortopedica e non potevo fare niente per fermarlo. Dopo avere raccontato una serie di bugie per screditare Cesare, si è infilato la canna in bocca e ha fatto fuoco.
Mi apposto davanti al portone e attendo. Di questo è fatto il mio maledetto mestiere, di faticose, interminabili attese. Può piovere a dirotto, fare un caldo soffocante o un freddo glaciale, comunque vada devo starmene immobile per ore aspettando che qualcuno – che spesso non conosco, né ho alcuna voglia di conoscere – sbuchi fuori da un portone o da un cinema, o scenda da una fottuta automobile.
Il portone si apre e ne esce un signora anziana trascinando il trolley della spesa. Mi avvicino e le chiedo se conosce un condomino del palazzo, un sudamericano sui cinquant’anni, del quale fornisco una sommaria descrizione. Forse sa che è uno spacciatore, o semplicemente non le è simpatico, perché non dimostra nessuna cautela – cosa rara nella città del manimàn ? e senza aspettare altre domande mi dice che lo ha ben presente e che abita all’interno numero sei. Chiedo da quanto tempo l’uomo viva lì e risponde che non ricorda con precisione, ma certamente da almeno una decina d’anni. La ringrazio e torno ad appostarmi. Intorno alle dieci e un quarto il pusher esce di casa. È solo e indossa gli stessi abiti lerci e i sandali che portava ieri mattina. Con il suo passo strascicato si avvia in direzione della sopraelevata e del semaforo. Aspetta che scatti il verde e attraversa la strada per scomparire poco dopo sotto i portici di piazza Cavour.
Se sono fortunato, stamattina riporterò a casa Giovanni Selman. Mi auguro solo che questa notte non sia andato a battere qualche discoteca per spacciare la sua coca. Premo il pulsante numero sei del citofono, dove non compare nessun nominativo, e una voce di ragazzo, squillante anche se mezzo assonnata, risponde: «Chi è?».
«Numerazione del gas», replico.
Il portone scatta e comincio a salire un’angusta scala di ardesia, rifatta di fresco e illuminata da minuscole finestre dalle imposte nuove di zecca, fino al terzo piano. La porta è anch’essa nuova e ha l’aria di essere blindata. Suono il campanello e, dopo circa un minuto, la stessa voce dall’interno ripete: «Chi è?».
«Sono dell’amga. Sono qui per prendere i numeri del gas.»
Sento il cuore battere forte, e non per il fatto di avere salito tre rampe di scale. Non mi sono neppure ricordato che l’amga, la municipalizzata che erogava gas e acqua, non esiste più da anni. L’idea di conoscere il ragazzo mi procura una sorta di ansia mista a curiosità, quasi aspettassi questo momento da tanto tempo.
«Il padrone di casa non c’è», grida Giovanni oltre la porta. «Mi ha detto di non aprire a nessuno.»
«Sarà questione di un attimo», insisto.
«Perché non torna più tardi? Tra un’ora sarà di ritorno.»
«Tra un’ora devo essere a Sampierdarena», replico. «Sono già venuto ieri, verso le undici e mezza, e non ho trovato nessuno. Non avete visto l’avviso nella cassetta della posta?»
«Non so, può darsi.»
«Se non mi lascia controllare sarò costretto a fare una segnalazione ai vigili urbani.»
«Aspetti», si affretta a rassicurarmi. «Facciamo così: lei resti al suo posto e io vado a vedere.»
Come prevedevo, il ragazzo è sveglio. Per evitare di insospettirlo decido di assecondarlo. «D’accordo», dico.
Il tempo trascorre lento, con il timore che il pusher sbuchi dalla scala e mi costringa a uno scontro che scombinerebbe tutti i miei piani. Sento Giovanni muoversi nell’appartamento con i piedi scalzi, alla ricerca del contatore del gas, finché torna ad avvicinarsi alla porta. «È ancora lì?» domanda.
«Sì, sono pronto a scrivere.»
A voce alta scandisce otto numeri.
«C’è un errore», bleffo. «I numeri devono essere dieci.»
«Le garantisco che sono otto.»
«Otto, più due dopo la virgola.»
«Sono cinque, più tre dopo la virgola.»
«Dev’esserci un errore.»
«Aspetti.»
Quando ritorna mi dice seccato che ha visto bene: i numeri sono otto.
«Ma che tipo di contatore avete?» domando. «Immagino sarà uguale a quello dei vicini. Ha provato a schiacciare il tasto in fondo a sinistra?»
«Non c’è nessun tasto.»
«Ascolti», sbotto alzando la voce. «Io devo fare il mio lavoro e non ho tempo da perdere. Ora lei mi fa entrare, prendo la numerazione e me la filo, okay?»
Qualche attimo di esitazione, finché sento la maniglia girare e vedo la porta aprirsi. Dalla fessura sbucano il suo viso scuro e gli occhi a mandorla che ormai conosco bene. Appena si accorge che non tengo in mano né libretto né penna, fa per sbattermi la porta in faccia. Troppo tardi. Ho infilato il piede tra il battente e lo stipite e l’urto della pesante porta blindata sulla caviglia mi fa guaire dal dolore. Spingo con forza, con entrambe le mani, e lo faccio arretrare di qualche passo. Quanto basta per entrare e richiudermi l’uscio alle spalle.
Giovanni indossa una canottiera rossa con il logo di Yale e un paio di calzoncini da tennis azzurri. Agile come un gatto, fa un balzo all’indietro e salta oltre il vecchio sofà sistemato in mezzo alla stanza, di fronte a un apparecchio televisivo a schermo piatto. Il soggiorno-cucina è anch’esso rifatto, con i muri e le porte bianche che odorano ancora di vernice, il pavimento in finto cotto e il lavandino in acciaio inox. Nell’appartamento ristrutturato di recente l’arredo, costituito da vecchi mobili rimediati di fortuna, risulta ancor più raffazzonato e scadente. Disordine e sporcizia riempiono la vista. Giornali, cartacce e lattine di birra sparsi per terra, il lavello ingombro di piatti e pentole sporche, il tavolo in formica cosparso di tazze, riviste, un recipiente per il mate, un posacenere ricolmo di mozziconi di spinelli e sigarette e nell’aria un vago odore di erba e di fritto. I coniugi Selman inorridirebbero all’idea che il loro figlio viva in un ambiente così degradato.
«Chi sei?» domanda il ragazzo. Ha l’aria spaventata, troppo spaventata per uno spacciatore abituato a rischiare ogni sera d’essere impacchettato dalla polizia. Forse anche troppo spaventata per uno spacciatore che pensi di trovarsi di fronte un poliziotto.
«Non avere paura», cerco di rassicurarlo. «Non ho intenzione di farti del male. Sono un investigatore privato assunto dai tuoi genitori per riportarti a casa.»
«¡Hijo de puta!» grida. «Cosa ti fa pensare che voglio tornare a casa?»
«Il fatto che ti preoccupi per il tuo amico.»
«Quale amico?»
«Quello che vive in questo appartamento e che ti ospita da una settimana. Non vorrai metterlo nei guai.»
«Quali guai? Sono stato io a chiedergli di tenermi qui.»
«Non ne dubito, Giovanni. Ma tu sei minorenne e i tuoi genitori hanno denunciato la tua scomparsa. Se informeranno la polizia che ti tiene nascosto, il tuo amico avrà un mucchio di grane. È uno straniero extracomunitario e faranno presto a sbatterlo dentro e rispedirlo al suo paese.»
Mi ascolta attentamente, con uno sguardo che esprime odio e insieme implora indulgenza.
«Ti faccio una proposta», proseguo. «Se tu mi segui fino a casa, in modo che possiamo restituire il sonno ai tuoi genitori, ti prometto che li convincerò a non denunciarlo. Mi sembra uno scambio onesto.»
«Onesto un cazzo», replica scagliando un pugno sul sofà. «Tu non mi dai scelta.»
«Una volta a casa, possiamo riparlarne. Intanto puoi lasciare qui la tua roba e nessuno ti impedirà di sentirti con il tuo amico.»
«Potrò anche vederlo?»
«Cercherò di convincere i tuoi genitori.»
Nei suoi occhi a mandorla, scuri come il carbone, leggo qualcosa di simile a un atto di resa. Si mostra ancora imbronciato, ma le palpebre non sono più due fessure cariche di odio, e l’espressione del volto e la postura del corpo lasciano trapelare un senso di forzata rassegnazione. «Devo mettermi le scarpe», dice mentre si infila nella camera da letto. La stanza ha le persiane chiuse e, nonostante i vetri spalancati, vi si respira un’aria pesante, un misto di sudore, erba, alcol e puzza di piedi. Sembra anche più calda e afosa del soggiorno. C’è un vecchio armadio a due ante e, vicino, una sedia occupata da un grande zaino. Appesi alla sedia riconosco la camicia e i calzoni neri che Giovanni indossava la sera in cui è andato in discoteca. Al muro sono accostati due letti a una piazza disfatti, con in mezzo un pesante comodino di legno scuro. Il ragazzo si siede sul letto a destra, quello dalla parte della finestra, infila un paio di scarpe da ginnastica e, alzando lo sguardo verso di me che lo osservo appoggiato allo stipite, domanda: «Come ti chiami?».
«Bacci», rispondo. «Bacci Pagano. E tu?»
Mentre si alza in piedi gli sfugge un sorriso. «Lo sai come mi chiamo, l’hai detto prima.»
«Sì, Giovanni», dico. «Ma non anche Bernardo?»
Si fa di colpo serio e svia il discorso. «Come hai fatto a trovarmi?»
«Trovare le persone è il mio lavoro.»
Siamo già sulle scale e scendiamo uno a fianco all’altro.
«Questa non è una risposta.»
«Ieri ti ho seguito mentre uscivi dalla stazione Brignole, vestito come un damerino.»
«Al mattino?»
«Sì, era presto.»
«E come sapevi che mi avresti trovato lì?»
«Le stazioni sono il primo posto dove cercare i ragazzi che scappano di casa.»
Siamo usciti dal portone e un sole accecante ci investe, insieme alla vampa rovente che sale dall’asfalto. Eppure il ragazzo sembra non accusarla, intangibile come una divinità della selva, l’inca dei templi di Cuzco. Forse questa calura, per noi insopportabile, è poca cosa rispetto a quella che ha conosciuto a Cali nella sua prima vita. Ci avviamo verso Caricamento, dove spero di trovare un taxi senza imbattermi nel pusher sudamericano.
Giovanni mi guarda di sbieco e sorride. «Hai avuto un bel culo, detective», sussurra quasi divertito. «Mi hai beccato al primo colpo.»
Potrei mentirgli raccontandogli che il giorno precedente, e quello ancora prima, gli avevo fatto la posta alla stazione Principe, ma qualcosa mi trattiene. Sarebbe una bugia non necessaria e qualcosa mi dice che con lui devo ricorrere alle bugie solo se non posso farne a meno. Ma forse non basta. Anche quando sono costretto a mentire, devo farlo in via provvisoria, aspettando che arrivi il momento per dire la verità. Adesso non posso comunicargli che l’ho pedinato fino in Versilia, che so della sua attività di spacciatore e che ho chiesto a un ex poliziotto di fare ricerche sul suo amico sudamericano. Se lo facessi, si chiuderebbe a riccio e non riuscirei a scucirgli una parola utile a sciogliere il mistero della sua fuga. Ma so che, per guadagnarmi la sua fiducia, a tempo debito dovrò dirgli tutto, senza omettere una virgola.
Forse Jacqueline ha ragione, io posso farlo e lei e Giacomo no. Ma non per la ragione che ha sbandierato per umiliare il marito e blandire me. Non è una questione di palle. Se mai riuscirò a guadagnarmi la fiducia di questo ragazzo, sarà perché non sono né suo padre né sua madre, perché non mi aspetto niente da lui e voglio solo aiutarlo a non finire in galera o morto ammazzato dai sicari della mafia. E perché il suo passato non mi fa paura.
Un taxi sta scendendo dalla rampa della sopraelevata e si ferma al semaforo rosso. È libero ed entrambi ci accomodiamo dietro.
«Via Albaro», dico al tassista. Poi sorridendo mi rivolgo a Giovanni: «Non è stata una botta di culo. Ma te lo spiegherò più tardi, quando saremo a casa».