CAPITOLO SEDICESIMO

 

 

Roma

39 d.C. - gennaio

792 ab Urbe Condita

Caligola ha ventisei anni

 

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Se quel luogo gli aveva sempre trasmesso un senso di soggezione, adesso, per la prima volta da quando metteva piede nella Curia, il solo sentimento che provava era il disgusto.

Mentre camminava piano al centro della grande sala da cui partivano le gradinate con tutti i senatori che lo scrutavano in silenzio, in attesa che continuasse il suo discorso, Caligola si chiese quanti, fra quei patrizi che costituivano il più alto livello sociale dell'Urbe, avessero delle armi nascoste sotto le toghe. Armi che non avrebbero esitato a usare su di lui, se non ci fossero stati i pretoriani schierati davanti all'ingresso del Senato. Li guidava Cassio Cherea, a cui lui stesso aveva chiesto di scegliere gli uomini con i volti più truci e il fisico più massiccio, in modo da incutere timore a chiunque potesse avere anche solo l'ardire di pensare di aggredirlo. Aveva lasciato nei loro accampamenti i soldati germanici della scorta, perché voleva far capire a tutti che teneva ancora in pugno le coorti pretorie, che avevano giurato fedeltà all'imperatore.

La sua decisione di fare quel discorso nella Curia era arrivata dopo aver esaminato le carte portate da Protogene, che confermavano come i senatori continuassero nella loro attività di adulazione dell'imperatore da una parte e di discredito dall'altra.

Leggendo le testimonianze delle spie che aveva disseminato in tutta Roma, praticamente in ogni domus patrizia del Palatino e anche in molte abitazioni di cavalieri e di alcuni fra gli uomini più facoltosi dell'impero, aveva avuto la chiara visione di come nulla fosse cambiato dal tempo di Tiberio. Finché un potente era in vita, quei codardi lo adulavano e si combattevano fra di loro per mettersi in luce e ritagliarsi uno spicchio di gloria a discapito di chiunque cercasse di frapporsi al loro cammino. Poi quando questi moriva, si esercitavano nell'arte del disprezzo e del raggiro, avvilendone la memoria in ogni modo. Aveva deciso di organizzare quell'incontro sull'onda della rabbia e del disgusto, spiegando che voleva parlare al consesso senatorio per fatti di una certa gravità.

Il suo arrivo, preceduto dalle guardie pretoriane che si erano schierate davanti all'ingresso della Curia, aveva spaventato non pochi di quei viscidi opportunisti, e quando lui aveva cominciato il suo discorso, non ci aveva messo molto a capire che le sue sferzate non li avrebbero colpiti più di tanto. Nonostante ciò, era andato dritto per la sua strada. Quando aveva chiesto a Protogene di esibire i documenti relativi agli atti processuali degli ultimi anni di vita di Tiberio, molti si erano alzati scandalizzati e avevano protestato, anche se lo sguardo truce di Caligola li aveva ricondotti subito al silenzio.

Con parole misurate aveva spiegato loro di avere mentito, almeno in parte. Non aveva fatto bruciare tutti gli atti dei processi sotto Tiberio, ma solo una parte. I documenti più interessanti li aveva tenuti, e con una smorfia sulle labbra aveva chiesto a Protogene di leggere quelli più significativi. E così aveva esibito davanti agli occhi di quella feccia, che si arrogava il diritto di decidere per il popolo romano, tutti gli intrighi e i raggiri, le denunce fatte l'uno contro l'altro, le bugie e le accuse che avevano portato tanti alla morte. Non per colpa di Tiberio o del suo mastino Seiano, ma perché loro stessi, i saggi che sedevano sugli scranni del Senato, si erano espressi con voti di condanna contro i loro colleghi.

Dopo quelle letture, che avevano fatto scendere un silenzio tetro nella Curia, Caligola li aveva guardati e aveva mormorato, con voce bassa e cavernosa, da attore consumato: «Che cosa posso mai aspettarmi da voi, che avete innalzato, glorificato e poi abbattuto senza pietà Tiberio e Seiano? Vi siete combattuti per risaltare ai loro occhi e non avete risparmiato menzogne e raggiri per entrare nelle loro grazie. Eppure, una volta morti, non avete esitato un istante a calpestare il loro ricordo e a sputare nella polvere in cui hanno camminato insieme a voi».

Aveva proseguito ancora per un po', poi si era fermato e si era fatto consegnare da Protogene una pergamena che lui stesso aveva vergato la notte prima, e che avrebbe dovuto essere il suo ultimo, geniale colpo di scena prima di abbandonare quel luogo dall'aria stantia, irrespirabile.

La sollevò e la mostrò al Senato.

«Questa lettera mi è stata consegnata da Tiberio prima di morire» mentì, facendo scorrere un brivido d'incertezza lungo le gradinate. «Ve ne leggerò solo alcuni brani, che mi paiono indicativi non solo del pensiero del mio predecessore, ma di ciò da cui dovrei guardarmi adesso che siedo in mezzo a voi come princeps.»

Dopo una pausa carica d'effetto, cominciò a leggere i brani che gli erano riusciti meglio e che sentiva più ispirati.

«Fai attenzione a costoro, mi scrive Tiberio, riferendosi a voi, illustri membri del Senato. Non devi mostrarti benevolo nei loro confronti né, tantomeno, debole e indeciso. Posso assicurarti che, dietro ai sorrisi e ai cenni di condiscendenza, celano un solo, spasmodico desiderio: vederti morto, oppure ucciderti loro stessi!» Un brusio vibrò nella Curia, ma non troppo forte, e Caligola continuò a leggere: «Non preoccuparti, dunque, del loro benessere, ma solo del tuo. È alla tua sicurezza che devi pensare, e a farti onorare e rispettare da queste persone, anche se non lo vorrebbero, perché è nella loro natura tradire e agire con sospetto, per cercare di cogliere per sé le briciole di potere che ti lascerai alle spalle».

Si fermò ancora e girò lo sguardo sui senatori muti, alcuni lividi per la rabbia ma incapaci di reagire a quelle parole, che credevano scritte davvero da Tiberio e che sapevano vere.

«Tiberio prosegue» riprese a leggere, dispiegando la pergamena «con un appello accorato che mi rivolge, come suo prossimo erede. Dice: non darti pensiero per i loro raggiri e per i loro inganni, e prosegui per la tua strada. Se ti abbasserai al loro livello otterrai solo di morire in modo inglorioso, vittima di qualche congiura ordita dai più spietati fra i tuoi nemici. Li devi combattere e affrontare a viso aperto, perché sappiano che li disprezzi e non li temi. Nessuno, infatti, si lascia comandare spontaneamente, ma fino a quando temerà il più forte, abbasserà la testa; al contrario, se penserà di avere di fronte un debole, si rivarrà su di lui come il più feroce dei cani rabbiosi.»

Quando ebbe terminato, Caligola consegnò la falsa lettera a Protogene e si avviò verso l'uscita della Curia, mentre alle sue spalle un pesante silenzio dimostrava quanto quelle parole avessero colpito il bersaglio.

«Adesso che mi facciano pure la guerra» mormorò a se stesso, ben sapendo che nessuno lo stava ascoltando. «Io sono pronto.»

Quando, il mattino dopo, raggiunse Callisto nella grande sala che il suo segretario personale divideva con i liberti al suo servizio, si sentiva nel pieno delle forze, pronto a balzare su un immaginario cavallo e a lanciarsi contro il nemico per farne strage.

«Allora, qual è la situazione?» chiese, mentre sentiva provenire voci concitate da alcune ali del palazzo. «Sono già alle porte armati di tutto punto? Chi dobbiamo combattere?»

Callisto lo sorprese affrontandolo con un sorriso, cosa che faceva ben di rado. «Non dobbiamo combattere nessuno, Cesare» affermò. «Il Senato ha reagito proprio come immaginavamo.»

Caligola avvertì un senso di delusione. In un angolo del suo cuore aveva sperato che quei codardi possedessero un po' di sangue romano e fossero finalmente disposti a levare gli scudi contro l'attacco frontale che lui aveva sferrato il giorno prima. Ma a quanto pareva non era così, e il semplice desiderio di continuare a vivere e ingozzarsi dei piaceri della vita era più che sufficiente per costringerli a mortificarsi anche di fronte alle peggiori accuse.

«Sono rimasti zitti e hanno ingoiato il fango che ho gettato su di loro?» chiese storcendo la bocca.

«Hanno fatto di più, mio princeps. Si sono riuniti ancora, questa mattina, e hanno votato all'unanimità che siano offerti sacrifici ogni anno, nell'anniversario del tuo discorso. Per glorificare la tua clemenza, naturalmente, visto che non li hai fatti massacrare tutti.»

Caligola scoppiò a ridere. «Avremmo dovuto scommettere, e tu avresti vinto!»

«Hanno proclamato che mai imperatore è stato più sincero e leale nei confronti della Curia» continuò Callisto «e dunque per questo meriti la loro gratitudine e il loro eterno appoggio.»

«Ma certo, eterno fino a quando qualcuno non riuscirà a piantarmi un coltello nella schiena.»

Callisto mantenne ancora per qualche istante il sorriso, poi, quando delle urla provennero dal peristilio della domus imperiale, scosse la testa.

«Sono già tutti là, Cesare, per la salutatio mattutina. Non manca nessuno, e immagino che saranno ancora più ossequiosi del solito.»

«Bene» fece Caligola dirigendosi a passo svelto verso il corridoio che portava ai suoi appartamenti privati. «Occupatene tu. Falli mangiare e bere, poi invitali tutti al circo. Devo esibire il mio nuovo cavallo da corsa, Incitatus, e mi farebbero comodo un po' di senatori sulle gradinate, pronti a tutto pur di compiacermi. Mi renderanno omaggio in quell'occasione.»

«Sarà fatto, princeps» annuì Callisto inchinandosi.

Caligola raggiunse la grande camera da letto che aveva riservato a Micenio e si versò una coppa abbondante di vino e miele.

«Cos'è tutto questo chiasso?» gli chiese Micenio emergendo dalle lenzuola insieme a Milonia Cesonia, accaldata e con le labbra tumide per il piacere. Quella donna, di poche parole ma pronta a sfruttare il suo corpo in ogni occasione, si stava dimostrando un'amante impagabile. La passione che provava per Micenio era fonte di soddisfazione per Caligola, che spesso si ritrovava a guardarli mentre si impegnavano nelle più improbabili evoluzioni erotiche. Da parte sua, Micenio riusciva a far emergere con facilità la sua parte maschile, quando aveva fra le mani il corpo morbido e fremente di Cesonia, il che non dispiaceva né a lui né a Caligola... e men che meno all'insaziabile Milonia.

«Ho scoperchiato il vaso di Pandora» rispose, sedendosi sul bordo del letto e rispondendo con passione al bacio di Cesonia.

«Hai fatto bene!» esclamò Micenio. «Non aveva più senso continuare a trattarli con onore. Quei cani devono sottomettersi alla tua maestà e pagare le loro colpe.»

Caligola rise, mentre passava le mani sui seni enormi di Milonia e li strizzava, facendo gemere quella donna che sembrava non averne mai abbastanza.

«Voi due, piuttosto, mi sembra di capire che vi siete divertiti parecchio anche senza di me.»

Micenio e Cesonia scoppiarono a ridere, guardandosi come due bambini che avessero compiuto chissà quale marachella, poi entrambi lo abbracciarono.

«Non è stato male, è vero» ammise Micenio, «ma con te è ben altra cosa.»

«Preferisco essere riempita da due verghe, che da una sola, mio princeps, questo lo sai» mormorò Cesonia.

Lui rise. «Lo so eccome! Ma adesso lasciatemi andare, non posso trattenermi, per quanto mi piacerebbe.»

«Che cosa devi fare di così importante?» protestò Micenio.

«Ho intenzione di vincere una gara a cavallo, oggi» rispose lui alzandosi. «E quando avrò tagliato per primo il traguardo, spiegherò ai senatori che saranno venuti ad applaudirmi la mia ultima, grande idea.»

«Raccontala anche a noi» lo pregò Milonia.

«Visti i meriti che il mio cavallo si sarà guadagnato sul campo, nominerò Incitatus console, con la ratifica del Senato.»

Per un istante Micenio e Cesonia lo guardarono a bocca aperta, poi scoppiarono a ridere.

«Sei straordinario, Cesare!» disse Micenio con le lacrime agli occhi.

«Chissà se quegli idioti capiranno» aggiunse Cesonia.

Caligola la guardò sorpreso. «Perché, che cosa dovrebbero capire?» le chiese.

«Il significato di un'azione simile!» rispose lei. «Se Cesare può nominare persino un cavallo come console, quegli stolti capiranno in quale considerazione li tiene l'imperatore?»

I due tornarono a ridere fra le lenzuola, e Caligola si allontanò con un sorriso sulle labbra. Milonia Cesonia era meno stupida di quanto avesse immaginato, e aveva compreso i suoi scopi. Certo, qualcuno lo avrebbe preso per pazzo, e il popolino avrebbe riso e discusso di quella sua follia per giorni, ma i senatori avrebbero recepito il messaggio. E, ne era sicuro, ancora una volta non avrebbero reagito, ingoiando l'offesa e magari appoggiandolo in quell'assurda nomina di un cavallo al rango consolare.

«Aspetta, Cesare!» lo richiamò Micenio, facendolo voltare. «C'è un'altra cosa di cui dobbiamo parlarti. Questa sì è davvero importante.»

Caligola l'osservò divertito. «Davvero? Cosa c'è di più importante del mio cavallo, che presto diventerà console?»

Micenio ammiccò, poi fece scorrere una mano sul ventre di Milonia Cesonia, che lo guardò passandosi la lingua sulle labbra.

Caligola ci mise qualche istante a capire, poi quando accadde si sentì riempire da una felicità che non aveva eguali.

«Darai alla luce il mio erede?» chiese, sentendo che la voce gli tremava per l'emozione.

«Sì, princeps, ormai non ho più dubbi. Conosco bene il mio corpo, e so quando un figlio è in arrivo.»

Caligola scosse la testa, senza parole. Poi intercettò lo sguardo di Micenio e disse: «Siamo sicuri che sia mio? Perché voi due vi siete dati da fare parecchio, con e senza di me...».

Micenio scoppiò a ridere e Milonia rispose: «Stai tranquillo, Cesare, il bambino è tuo. Micenio è venuto dentro di me cento e più volte, è vero, ma... mai dalla parte in cui bisognerebbe farlo per avere figli!»

Risero tutti insieme, e Caligola comprese che finalmente gli dei avevano deciso di assisterlo.

«Adesso dovremmo occuparci seriamente di Lollia Paolina» disse Micenio. «Le hai già parlato?»

«No» rispose Caligola. «Ma non ha più senso rimandare. Diamole il tempo per abituarsi al suo nuovo ruolo di prossima ex imperatrice.»

«Una prossima ex imperatrice che non si lamenterà di certo, viste le ricchezze di cui la ricoprirai per farla stare zitta» sostenne Micenio.

Caligola li abbracciò entrambi e chiuse gli occhi. Quella era la sua nuova famiglia. A loro avrebbe potuto lasciare a cuor leggero le redini dell'impero, se gli fosse accaduto qualcosa.