CAPITOLO VENTESIMO
Roma
41 d.C. - gennaio
794 ab Urbe Condita
Caligola ha ventotto anni
50
Si svegliò di colpo, coperto di sudore, anche se era gennaio e i bracieri della domus erano accesi per contrastare il gelo che stringeva il palazzo imperiale in una morsa. Aveva il fiato corto e il battito del cuore gli rintronava nella testa.
«Che succede, Cesare?» gli chiese Micenio, che si era svegliato di soprassalto a sua volta. Diede un colpo con la mano alla ragazza che giaceva in mezzo a loro, una schiava namibiana nera come la notte, e le ordinò con un'occhiata di sparire e di lasciarli soli. Caligola gliene fu grato.
«Ho sognato Drusilla» rispose, cercando di ricordare che cosa lo avesse sconvolto al punto da farlo sudare e ansimare. «Eravamo insieme ad Anzio, la nostra città natale, e correvamo sulla spiaggia, mano nella mano. Poi... sono arrivati mia madre, le altre mie sorelle, Nerone Cesare e Druso, e dalla sabbia sono spuntate delle mani... ne sono emersi Tiberio e Seiano, e poi Callisto, Protogene ed Elicone. E dietro di loro una moltitudine di persone che credevo di non conoscere, ma che ho capito ben presto chi fossero.»
«Chi, Cesare?» gli chiese Micenio con un soffio di voce.
«Tutti coloro che abbiamo fatto torturare e uccidere» rispose Caligola con un gemito. «Si sono avvicinati, ci hanno stretto in un cerchio guardandoci con le orbite vuote, e poi hanno allungato le mani, e io... io...»
«È stato solo un incubo» cercò di rincuorarlo Micenio sfiorandogli un braccio, ma Caligola sobbalzò e scese dal letto, il torso nudo lucido di sudore.
«No, non è stato solo un sogno» disse, mentre la bava gli si addensava davanti alla bocca. «Quelle mani ci hanno afferrato, poi mi hanno gettato di lato e si sono dimenticate di me per infierire su Drusilla. L'hanno fatta a pezzi, e lei... lei mi guardava, mi implorava, ma io non potevo fare nulla. Gridavo, ma nessuno mi ascoltava, e ogni volta che mi facevo sotto per cercare di strapparla ai loro artigli, mi ricacciavano indietro con risate che sembravano gli ululati di un branco di lupi.»
Finalmente tacque. Micenio rispettò il suo silenzio, limitandosi a guardarlo atterrito, le braccia strette al seno.
Caligola sentiva che il panico dentro di lui lo mordeva fino alle viscere.
«Che cosa può significare?» chiese. «Perché la mia famiglia, i miei amici, tutti quelli che conosco, anche chi ho ucciso o fatto uccidere, mi hanno ignorato per fare scempio di Drusilla?»
Con un brivido ricordò la figura gigantesca di Lemurico, il centurione che lui aveva ucciso piantandogli un coltello nel petto. Il namibiano nel sogno lo aveva fissato con le orbite vuote e aveva sorriso in modo cattivo, prima di allungare un braccio verso di lui e mostrargli ciò che teneva in mano: il cuore di Drusilla, che ancora pulsava degli ultimi spasimi di vita.
«Non lo so, Cesare» rispose Micenio con un gemito, così impressionato dal racconto da apparire pallido come la luna che si scorgeva oltre le finestre. «Forse dovremmo consultare gli aruspici, o gli astrologi di corte.»
«No!» proruppe Caligola. «Non voglio parlarne con nessuno. Credo sia un segnale, un messaggio che mi è stato mandato dagli dei per farmi capire che la situazione sta degenerando e che non posso fidarmi di nessuno. Tutti coloro che mi circondano non vogliono altro che la mia morte.»
«Io no, Cesare!» esclamò Micenio con le lacrime agli occhi.
Caligola lo guardò, poi tornò a sedersi accanto a lui sul letto. Gli prese la testa e se l'appoggiò sul petto.
«Lo so» gli disse, accarezzandogli la folta chioma per tranquillizzarlo. «Non mi riferivo a te.»
Micenio si rilassò fra le sue braccia e gli si strinse contro. Caligola lo sentì tremare. In qualche modo era lui a consolare il suo amante, anziché il contrario. Ma era meglio così, perché, dopo il terrore per ciò che aveva visto, doveva riordinare le idee e pensare come interpretare quel messaggio degli dei per reagire nel modo più opportuno. Non sarebbe stato a guardare, mentre coloro che lo circondavano e lo adulavano si organizzavano per liberarsi di lui.
«Hai saputo quello che ha detto Capitone, il padre di Betilieno Basso, quando è stato tradotto davanti a Cassio Cherea e i suoi uomini perché assistesse all'esecuzione del figlio?»
Micenio si tirò su e lo guardò sorpreso. «No, Cesare» rispose. «Oggi sono stato tutto il giorno con Giulia Drusilla e con Milonia. Abbiamo giocato e siamo stati...»
«Ha confessato di essere anche lui un congiurato» lo interruppe Caligola, che in quel momento non voleva pensare alla figlia. «E ha promesso di fare i nomi di tutti coloro che hanno cospirato per uccidermi.»
Micenio lo fissò a bocca aperta. «Chi ha denunciato?» gli chiese con un filo di voce.
«Tutti» rispose Caligola scuotendo la testa. «I prefetti del Pretorio, mio zio Claudio, Lucio e Aulo Vitellio, Quinto Pomponio, Apelle e persino Elicone, Callisto e Protogene.» Esitò un istante, poi annuì: «Ha fatto anche il tuo nome, e quello di Milonia Cesonia».
Micenio emise un gemito e fece per parlare, ma lui lo interruppe alzando la mano.
«Ha mentito, lo so, per questo l'ho fatto giustiziare insieme al figlio. Ma questa... follia deve essermi rimasta dentro, perché c'erano tutti, nel sogno, e tutti cercavano di afferrare un lembo di Drusilla per farla a pezzi. Ben sapendo che uccidere lei avrebbe significato annientare anche me.»
«Devi farti forza, princeps, e superare questo momento» cercò di spronarlo Micenio, che tuttavia appariva scosso almeno quanto lui. «Gli dei hanno modi oscuri per parlarci, e spesso non è chiaro quello che vogliono ottenere. Ricorda che sei un loro pari, e che qualcuno potrebbe essere invidioso della fortuna che stai guadagnando a Roma.»
Nonostante tutto, un sorriso sfiorò le labbra di Caligola.
«Sei sempre capace di vedere il lato positivo di ogni cosa» mormorò. «Ma questa volta è diverso. Perché io so che gli dei hanno ragione.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Che dobbiamo allontanarci da questa città, portare al sicuro Giulia Drusilla e fare in modo che non ci capiti nulla di male. Troppo veleno scorre per le strade, e ormai non posso fidarmi più di nessuno, neppure dei nostri più stretti confidenti.»
«Temi anche per la fedeltà di Callisto e Protogene?» chiese sorpreso Micenio.
Caligola lo guardò. «Non lo so, ma credo che dovremmo lasciarli qui, insieme ai prefetti del Pretorio e a chiunque potrebbe organizzare una congiura per colpirmi da vicino.»
«Ma perché dovrebbero farlo?» protestò Micenio. «Callisto e Protogene sono due ex schiavi, e i prefetti del Pretorio sono cavalieri di scarsa rilevanza, non sono consolari, non hanno origini nobili. Nessuno di loro potrebbe prendere il tuo posto.»
Caligola si strinse nelle spalle, mentre la sua mente lavorava a pieno regime per valutare ogni scenario possibile.
«Potrebbero fare eleggere un fantoccio, qualcuno che ha il rango e la discendenza di sangue per diventare imperatore, ma che loro potrebbero comandare a piacimento.»
Micenio sgranò gli occhi. «Claudio!» esclamò.
«È possibile» confermò Caligola. «Mio zio è l'unico rimasto, oltre a me, della dinastia Giulio-Claudia, e mi odia a morte, dopo che l'ho gettato sul lastrico costringendolo a versare tutti quei milioni di sesterzi per entrare a far parte del mio collegio sacerdotale.»
«Ed è malleabile da uomini come Callisto» aggiunse Micenio, adesso sinceramente spaventato dalle implicazioni delle sue parole.
«O magari loro non c'entrano niente, e sono altri, sono tutti quei vili che mi circondano ossequiandomi, che stanno pensando al modo migliore per liberarsi di me. Sto prestando troppo il fianco, in questa città.» Allargò un sorriso amaro. «Adesso capisco Tiberio. E quanto ero stupido, quando lo biasimavo per la sua decisione di essersi rifugiato a Capri.»
«Potremmo andare anche noi a Villa Jovis!» proruppe Micenio con una luce di speranza negli occhi. «Da quello che so è ancora ben tenuta ed è abbastanza grande da ospitare tutti coloro di cui vorrai circondarti. E poi ci saranno le tue guardie germaniche e...»
«No» affermò deciso Caligola. «Piuttosto che tornare su quell'isola preferisco affrontarli tutti qui, spada in pugno.»
«Allora cosa faremo?» piagnucolò Micenio.
«Andremo ad Alessandria» rispose Caligola, sorpreso dalla facilità con cui la sua mente riusciva a improvvisare per risolvere i problemi. «Elicone stava già preparando tutto per un viaggio di cortesia, ricordi? A suo dire, il mio arrivo ad Alessandria è atteso da tempo, e tutto l'Egitto è pronto a prostrarsi ai miei piedi, giurandomi fedeltà. Ricordano anche loro Germanico e sanno che cosa significa avere l'imperatore di Roma nella loro città. Giulio Cesare e Marco Antonio hanno regnato per breve tempo da lì e, da quello che ricordo, la posizione di Alessandria è strategicamente invidiabile. Con poche legioni fidate potrei tenere a bada tutte le milizie di Roma che dovessero rivoltarsi contro di me.»
Micenio balzò in ginocchio sul letto, con il viso che aveva ripreso colore.
«Mi sembra un'idea magnifica!» gridò.
Caligola annuì, parlando più a se stesso che a Micenio.
«Il governatore dell'Egitto è di origini equestri» ricordò, «non appartiene all'aristocrazia romana. È stato Augusto a impedire che persone di rango senatorio governassero quella Provincia, perché sapeva quanto sarebbe stato pericoloso lasciare il granaio d'Italia nelle mani del Senato. Se dunque io sposterò la sede della corte imperiale ad Alessandria, non farò nulla contro la tradizione di Roma e avrò abbastanza libertà da poter escogitare il modo per difendermi da chi sta cercando di eliminarmi.»
«Dobbiamo farlo subito!» esclamò Micenio, tuffandosi giù dal letto. «Vado ad avvisare Elicone perché...»
«No» lo fermò Caligola. «Era anche lui nel mio sogno.»
«Allora ci penserò io» propose Micenio con aria decisa. «Preparerò tutto con la massima discrezione, cercando di non fare capire ai liberti imperiali quello che stiamo facendo.»
«Bene» annuì Caligola, soddisfatto. «Potrebbe essere la mossa giusta. Adesso, però, calmati e torna a letto. Dobbiamo riposare, prima di affrontare la giornata di domani.»
«Davvero vuoi solo riposare?» gli chiese Micenio scivolando sinuoso accanto a lui. «Non vuoi sfogarti un po' e fare uscire gli umori maligni che ti sono penetrati in corpo dal mondo degli incubi?»
«Ninfidia è molto brava in questo» sorrise Caligola. «Lei sa far sprizzare il veleno dai miei lombi e neutralizzarlo bevendolo tutto. Credi che dovrei chiamarla?»
«Non è necessario, Cesare» garantì Micenio. «Se può farlo lei, allora io saprò fare di meglio.»
51
Quando Samostate, il grande medico che aveva studiato nelle principali scuole di medicina d'Oriente e che insegnava a Pergamo, entrò nella sala delle udienze private di Caligola, lo fece con il passo sicuro e autorevole di chi sapeva di essere il più bravo nel proprio campo. In realtà, come tutti i medici che esercitavano a Roma e nelle province dell'impero, era un liberto. Poteva svolgere in autonomia la sua oscura professione grazie a una legge voluta da Giulio Cesare, la quale stabiliva che i medici, in ragione della loro sapienza, potessero ottenere la cittadinanza romana.
Caligola aveva sempre diffidato di quegli uomini altezzosi e convinti di conoscere un'arte che era riservata agli dei, e dopo che era stato avvelenato e aveva sperimentato sulla propria pelle l'incapacità di quegli stregoni di trovare veri rimedi alle malattie dell'anima e del corpo, aveva deciso che fossero più competenti gli astrologi e i filosofi a comprendere i misteri degli umori arcani che sfiancavano tante persone e che, in molti casi, le portavano alla morte.
Ma quel giorno aveva bisogno del più valente dei medici dell'impero. Quando aveva saputo che Samostate si trovava a Roma per curare i malanni di alcuni aristocratici che trascorrevano il tempo nell'ozio e nell'ostentazione delle loro ricchezze, lo aveva fatto convocare d'urgenza.
Una dei suoi pazienti, Claudia Cerilia, vedova di ben tre senatori e di un console dei tempi di Tiberio, era nota per i suoi scatti d'ira improvvisa e per quelle che i medici definivano scene d'hystéra, durante le quali distruggeva qualsiasi cosa le capitasse a tiro, per poi ritrovarsi nella disperazione quando, passata la crisi, si rendeva conto di ciò che aveva fatto.
Nelle chiacchiere che giravano a corte si diceva che una volta, schiumando bava per la rabbia, avesse scagliato contro il muro un'anfora antichissima, secondo la leggenda appartenuta al grande Omero, che uno dei suoi mariti aveva acquistato a un'asta per una somma così elevata da far gridare allo scandalo parecchi senatori, che avevano portato la discussione nella Curia. Era finito tutto in niente, e l'anfora aveva fatto bella mostra di sé per anni nella domus di Claudia Cerilia, finché lei, in preda a una delle sue crisi d'hystéra, l'aveva ridotta in pezzi. Era stato quel gesto insano a convincerla di doversi curare, e Samostate era stato ricoperto d'oro perché si recasse da lei e la mettesse sotto osservazione.
Ma a Caligola non interessavano i problemi delle vedove come Claudia Cerilia. Aveva bisogno anche lui di un medico, visto che astrologi e sacerdoti non erano riusciti a guarire Sestio Proculo, il capo dei gladiatori che lo addestravano nel combattimento, dal malanno che lo aveva colpito agli occhi e che lo stava rendendo cieco.
Adesso che finalmente Samostate era lì, Caligola accettò il profondo inchino in cui si produsse il medico quando fu al suo cospetto, ma subito lo affrontò guardandolo direttamente negli occhi.
«Si dice che la sapienza medica ti sia conosciuta in ogni dettaglio, più di qualunque altro medico dell'impero.»
Samostate s'inchinò ancora con un leggero sorriso sulle labbra sottili, che contrastavano con il viso paffuto e la lunga capigliatura lasciata libera sulle spalle, al modo greco.
«Tu mi lusinghi, Cesare» rispose. «In realtà, la difficile arte della medicina è un territorio vastissimo ancora tutto da esplorare.»
«Ma puoi ridare la vista a un uomo che sta diventando cieco?» andò subito al sodo Caligola.
Samostate si accigliò. «Prima di poterlo dire dovrei esaminare il paziente, Cesare.»
Caligola si spostò di lato e indicò il gladiatore che sedeva su uno sgabello, la schiena dritta e lo sguardo duro, segnato dalle cicatrici del corpo e dello spirito. Sestio Proculo aveva combattuto contro oltre duecento avversari e aveva sempre vinto, prima di ritirarsi per diritto di età. Ma ancora adesso che aveva quasi cinquant'anni, il suo fisico mostrava una muscolatura imponente, con le vene in rilievo come enormi cordoni tirati sottopelle, soprattutto sul petto e sulle braccia.
Caligola non aveva mai avuto un insegnante tanto bravo ed esperto, e insieme a lui stava raggiungendo un'ottima capacità di combattimento con la spada e con la lancia, che riteneva indispensabile, viste le tensioni che lo circondavano e che da qualche tempo lo avevano convinto a portare la daga sempre con sé, appesa al fianco.
Samostate si avvicinò a Proculo e lo guardò con attenzione, poi, senza mostrare alcun timore per lo sguardo truce con cui Sestio lo fissava, allungò le mani e gli allargò gli occhi per scrutarvi all'interno.
Da qualche tempo il gladiatore soffriva di dolori agli occhi. Un velo si era abbassato davanti alle sue pupille, cancellando dapprima molti colori e poi rendendo sempre più difficile, per lui, distinguere tra luci e ombre. Per diverso tempo aveva cercato di nascondere il problema, ma Caligola l'aveva colto in fallo un paio di volte durante un combattimento e ne era rimasto così sorpreso da chiedergli che cosa fosse mai successo.
«Sei tu che stai diventando un abile guerriero» aveva risposto sul momento Proculo, ma lui non si era lasciato ingannare e lo aveva incalzato, fino a quando il gladiatore non gli aveva confessato la verità: stava diventando cieco e non riusciva più a scorgere del tutto i movimenti dei suoi avversari.
«Da quanto tempo non ci vedi più dall'occhio destro?» gli chiese Samostate dopo avergli girato il viso verso la luce, per poter esaminare meglio gli occhi del gladiatore.
Caligola restò sorpreso da quella domanda, ma ancor più dalla risposta di Proculo: «Da diversi giorni».
«Allora è più grave di quanto mi avevi detto!» proruppe Caligola avvicinandosi a Sestio Proculo.
Samostate sorrise e giunse le mani davanti al petto, opponendosi fra lui e il gladiatore.
«È solo una cataracta» affermò. «Dovrei riuscire a eliminarla con facilità.» Si voltò a guardare Proculo. «Anche perché di solito i problemi con questa malattia si hanno soprattutto nel convincere il paziente a restare fermo e sopportare il dolore.»
«Puoi curarlo subito?» chiese sorpreso Caligola.
«Ma certo» annuì Samostate facendo un cenno a uno dei suoi schiavi, che erano rimasti in disparte. Il ragazzo corse fino a lui reggendo una grande sacca che depose per terra. Il medico vi frugò dentro per un po', fino a quando estrasse alcuni strumenti di ferro dall'aspetto minaccioso.
«Devi forse torturare Sestio Proculo, per curare questa cataracta?» gli chiese Caligola con sospetto.
Samostate rise con moderazione. «No, Cesare, questi sono i ferri del mio mestiere. Mi serviranno a ripulire gli occhi del tuo gladiatore dal velo che li sta ricoprendo, prima che diventi così duro da rendere impossibile l'operazione di asportazione.»
Senza aggiungere altro si avvicinò a Sestio Proculo, che non smetteva di guardarlo come se volesse ucciderlo seduta stante, mentre il suo schiavo si disponeva alle spalle del gladiatore e, con aria impaurita, sollevava le braccia verso la testa enorme dell'uomo.
«Il mio assistente ti terrà fermo mentre eseguirò l'asportazione» gli spiegò Samostate, avvicinando uno strumento a forma di lungo spillone verso gli occhi di Proculo.
Questi arricciò le labbra in una smorfia e sibilò: «Se mi tocca lo uccido».
Lo schiavo si immobilizzò terrorizzato, e Samostate prese un lungo respiro.
«Farà male» disse. «Lascia che ti aiuti a restare fermo, perché se ti muoverai anche solo di poco, rischierò di bucarti un occhio e di accecarti per sempre.»
«Non mi muoverò» garantì il gladiatore, e Samostate sembrò comprendere che non mentiva affatto. Si voltò verso Caligola e chiese la sua approvazione con lo sguardo.
«Sestio Proculo sa che cos'è il dolore» gli spiegò lui, facendo cenno allo schiavo di Samostate di togliersi di torno. «Ci ha convissuto ogni giorno della sua vita. Procedi pure.»
Il medico greco esitò solo un istante, poi annuì e si avvicinò al gladiatore. Gli girò la testa in modo che fosse ben illuminata dal sole che entrava dalle grandi finestre, e con una delicatezza e un'abilità incredibili avvicinò il grande spillone all'occhio che era diventato cieco, infilò la punta sottile, che un artigiano doveva avere lavorato per giorni per renderla così acuminata, al di sotto di quello che a Caligola sembrò un pezzo di tessuto che occludeva l'occhio di Sestio Proculo, e cominciò a farla scivolare verso il basso, staccando la cataracta un frammento alla volta. Caligola restò impressionato dalla fermezza della mano di Samostate, che faceva scorrere lo strumento con grande precisione.
Sestio Proculo non muoveva un muscolo, anche se minuscole gocce di sudore gli comparvero sulla fronte e l'occhio cominciò a lacrimare.
«Fa male, lo so, ma ti avevo avvertito» gli disse Samostate con voce calma, autorevole. «Ho quasi finito. Sta andando tutto per il meglio. Se resisti ancora per un po', fra qualche giorno tornerai a vedere come prima.»
Caligola vide gonfiarsi i muscoli delle mascelle di Sestio Proculo, che non si mosse nemmeno per far capire a Samostate che aveva compreso.
Il medico continuò a staccare la cataracta un pezzettino alla volta, per un tempo che parve infinito, poi all'improvviso si allontanò da Proculo, allungò la mano verso il suo assistente e raccolse una strana pinza che lo schiavo era già pronto a porgergli.
«Un ultimo sforzo» disse al gladiatore, afferrando con la pinza un lembo della cataracta e tirandolo all'infuori, delicatamente ma con decisione. «Adesso devo incidere. Perderai sangue e avrai la sensazione che ti stia conficcando un pugnale nell'occhio, ma non è così. Resta immobile e avremo finito.»
Senza attendere risposta, con un movimento deciso e di estrema precisione tagliò la base della cataracta, asportandola. Poi lasciò che il suo schiavo tamponasse con un panno il sangue che schizzò dall'occhio di Proculo e afferrò un'ampolla di argilla dalla sacca.
«Tieni premuto il panno sull'occhio per un po'» gli disse, facendo cenno allo schiavo di spostarsi. «E poi, già da questa sera, cospargiti l'occhio con questo unguento.» Gli mise in mano l'ampolla. «Farà male, molto male, forse più di quanto hai patito adesso, ma...» scosse la testa. «Ho idea che la cosa non ti impressioni più di tanto.»
«Che cos'é?» chiese Proculo, scrutando con sospetto la piccola ampolla, il cui coperchio era un pezzo di tessuto tenuto legato da una cordicella.
«Castoreum» gli spiegò Samostate tornando a riporre i suoi strumenti nella sacca. «È estratto dal seme dei castori maschi. Ha effetti miracolosi, vedrai. E dopo i primi giorni smetterà di bruciare.»
«Non gli sistemi anche l'altro occhio?» domandò Caligola al medico.
«No, Cesare, sarebbe troppo pericoloso farlo adesso. In ogni caso, la seconda cataracta è solo all'inizio, possiamo rimuoverla con calma più avanti, quando Proculo si sarà rimesso da ciò che ha patito oggi.»
Caligola annuì soddisfatto, per una volta impressionato dalle capacità dimostrate dal medico.
«Ti sono grato di ciò che hai fatto» gli disse. «I miei liberti ti ricompenseranno generosamente.»
«Ti ringrazio, Cesare» s'inchinò ancora Samostate, «ma non voglio nessun compenso. Già essere al tuo cospetto, e aver potuto curare quest'uomo dalla forza straordinaria, è per me quanto di meglio avrei potuto desiderare.»
Caligola lo fissò, cercando di capire quanto l'adulazione stesse prendendo il posto della dignità di cui quell'uomo aveva dato prova fino a quel momento, ma forse stava solo cercando di mostrarsi rispettoso del suo princeps, che tutto l'impero venerava come un dio, e gli sorrise.
«Allora permettimi di averti come ospite al banchetto che terrò questa sera» gli disse, mentre Sestio Proculo si congedava battendosi il braccio sul petto ricoperto da una patina di sudore.
«Tu mi concedi un grande onore, Cesare» accettò Samostate con aria soddisfatta.
«Prima, però, toglimi una curiosità.»
«Tutto quello che vuoi, mio signore.»
«Come hai curato Claudia Cerilia dalla sua malattia?»
Samostate fece uno sforzo evidente per trattenersi dallo scoppiare a ridere.
«L'hystéra è facile da curare» rispose. «Rende folli le persone per qualche istante, perché hanno accumulato dentro di sé umori insani che non riescono a trovare sfogo. Al medico non resta che liberarli.»
«Quali sono questi umori insani?» chiese Caligola, suo malgrado incuriosito dalla sapienza di quell'uomo.
«Soprattutto nelle donne che non hanno più marito, e neppure amanti da troppo tempo, l'impossibilità di dare soddisfazione ai piaceri del corpo può portare questi scompensi» spiegò Samostate. «Molte vedove e donne nubili che non riescono a trovare completo appagamento vengono da me per farsi curare l'hystéra.»
«E qual è la cura?»
Samostate sorrise, poi gli mostrò il dito. «Questo, Cesare. Inumidito e passato con abilità sulla kleitorís, quella collinetta a forma di minuscolo pene che hanno le donne nei loro organi intimi. Sollecitata nel modo giusto, provoca orgasmi molto intensi e libera tutti gli umori malsani accumulati con la mancanza di una sana e regolare pratica sessuale.»
Caligola scoppiò a ridere. «Allora io non soffrirò mai di hystéra» garantì. «Né lo faranno le donne che giacciono con me.»
«E questo è un bene, Cesare» affermò Samostate, «perché non c'è nulla di più sano dell'appetito sessuale, per scaricare le energie maligne dentro di noi.»
«Neppure l'appetito per i migliori cibi di Roma?» gli chiese divertito Caligola.
«Forse no, Cesare» ammise Samostate. «Anche se forse unire le due cose potrebbe risolvere qualsiasi problema del corpo e dello spirito.»
«E io ti prendo in parola!» esclamò Caligola. «Applicheremo insieme questa tua interessante teoria al banchetto di questa sera. Non sia mai che non mi venga voglia di approfondire la meravigliosa arte della medicina.»
52
Quando si recò negli alloggi che aveva fatto costruire per i parenti dei senatori che si professavano più vicini a lui, ma che Caligola sapeva di dover tenere sotto controllo, sguardi lunghi ed espressioni timorose lo seguirono passo dopo passo. Lo accompagnava Micenio, che aveva portato con sé un giovane schiavo dall'aria timida, che se ne stava tutto ripiegato su se stesso come se avesse paura di poter essere portato via da un soffio di vento.
«Ho cose importanti da riferirti, Cesare» gli aveva detto il suo amante. Poi gli aveva mostrato lo schiavo. «Questo giovane ha assistito a un incontro fra Cassio Cherea, Cornelio Sabino e il prefetto del Pretorio Clemente.»
Caligola aveva sospirato e gli aveva fatto segno di seguirlo in quella piccola suburra di alto livello che aveva fatto costruire accanto al palazzo imperiale.
«Sembra quasi di stare in un grande lupanare, che ne dici?» sghignazzò vedendo tante matrone romane affacciate alle porte dei loro appartamenti, con i bambini che schiamazzavano ovunque. Non c'erano quasi uomini, là dentro, a parte qualcuno che vi si aggirava furtivo, forse per vendere prodotti portati fin lì dai mercati romani. L'impressione era davvero quella di trovarsi in un immenso bordello, dove le mogli degli uomini più influenti di Roma dovevano pagare affitti di rilievo per restarvi confinate.
I pretoriani si aggiravano spesso da quelle parti, marciando a ranghi serrati e riscuotendo i tributi che Caligola aveva imposto agli esponenti della classe patrizia, con il pretesto di averli tutti vicino all'imperatore, per potergli rendere omaggio ogni giorno e, al contempo, godere della protezione delle coorti pretorie.
Tutte scuse ridicole, se ne rendeva conto, ma nessuno aveva potuto rifiutarsi di accettare quell'apparente privilegio, ed ecco che le famiglie degli uomini più potenti dell'Urbe erano radunate tutte a portata di mano, come ostaggio per la sua incolumità.
Ma a quanto pareva nemmeno questo bastava. E dato che Caligola non aveva nessuna intenzione di abbassare la guardia e interrompere la guerra con i suoi nemici, diventava sempre più urgente allontanarsi da Roma e portarsi lontano da chiunque volesse provare a sbarazzarsi di lui.
Da quanto tempo, ormai, non frequentava più nemmeno i suoi collaboratori più fidati? Callisto, Protogene, Elicone... la stessa Ninfidia, che si accompagnava troppo spesso con il padre. Erano tutti spaventati, preoccupati, timorosi che l'imperatore potesse disfarsi di loro da un momento all'altro, e per questo erano diventati pericolosi.
Micenio stava preparando febbrilmente la loro partenza per Alessandria, dove avrebbero trovato Giulio Agrippa, Tolomeo e Antioco di Commagene, i soli di cui Caligola poteva ancora fidarsi, se non altro perché non frequentavano gli ambienti sordidi del potere romano.
Con il loro aiuto, guidando le coorti pretorie dalla capitale d'Egitto, si sarebbe ben presto liberato di ogni pericolo. E quando avesse fatto il suo rientro nell'Urbe, il popolo di Roma lo avrebbe acclamato come il più divino fra gli imperatori.
«Quando pensi di partire, Cesare?» gli chiese Micenio come se gli avesse letto nel pensiero. «Ormai non abbiamo più molto tempo.»
Caligola si fermò e lo guardò. «E perché mai? Perché questo schiavo ha visto due tribuni del Pretorio parlare con uno dei loro comandanti?»
Lo schiavo cercò di farsi ancora più piccolo, ma Micenio fece un passo avanti e lo affrontò con un'espressione determinata che non gli aveva mai visto.
«Non li ha solo visti, li ha anche sentiti. E parlavano di te, naturalmente.» Allargò le braccia a indicare tutto l'ambiente che li circondava. «E di questo posto.»
Caligola si voltò verso lo schiavo. «Che cosa dicevano?» gli chiese. «Dimmi che cosa hai sentito.»
Pallido come un cencio, lo schiavo emise suoni incomprensibili, allora Micenio lo accarezzò sulla testa e gli bisbigliò parole dolci, che lo rilassarono un poco.
«Non ti farò nulla» disse Caligola. «Anzi, credo che ti concederò la libertà prima del previsto, se mi darai informazioni preziose.»
Lo schiavo respirò un paio di volte, poi parlò con voce flebile ma questa volta comprensibile: «Si lamentavano del fatto che devono fare gli esattori dei tuoi tributi e chiedevano al prefetto di essere esonerati da quel compito».
«E Clemente che cosa ha risposto?»
«Di avere pazienza, perché presto tutto si sarebbe sistemato.»
Caligola annuì accigliato. Dunque anche loro facevano parte del complotto? Insieme a Callisto e agli altri? E quali fra i senatori?
«Dobbiamo partire subito!» esclamò Micenio con aria spaventata. «Senza esitare. È troppo pericoloso.»
Caligola si rimise in cammino, guardandosi intorno e rispondendo ai saluti forzati, che ricambiava con un sorriso condiscendente.
«Non ancora» disse, calmo ma perentorio. «Lo sai che fra qualche giorno dovrò inaugurare gli spettacoli sul Palatino, in onore di Augusto. Ho fatto costruire apposta quel magnifico circo, e non posso certo deludere la folla che ne stiperà le gradinate.»
«Ma perché?» gemette Micenio, facendo poi un brusco cenno all'indirizzo dello schiavo, che continuava a seguirli in silenzio. Il ragazzo fuggì via come se avesse le ali ai piedi. «Che cosa te ne importa di quei giochi? Partiamo per Alessandria! È tutto pronto, e Milonia ci sta aspettando.»
Caligola si innervosì. Non voleva dare un simile segnale di debolezza, non adesso che stava per celebrare davanti a tutta Roma la propria magnificenza. In occasione dello spettacolo che si sarebbe inaugurato fra qualche giorno, si sarebbe presentato sul palco vestito da Ercole e avrebbe recitato un poema composto per lui dai migliori citaredi dell'impero. Un poema che lo avrebbe accostato ai più grandi generali di Roma e lo avrebbe celebrato come padre dello stesso Augusto.
«Ho detto di no» ribatté deciso. «Inaugurerò gli spettacoli, poi mi dileguerò senza che nessuno se ne accorga. Partiremo il prima possibile, te lo prometto, ma non come dei codardi che fuggono il loro nemico.»
«Non ti devi fidare di nessuno» lo implorò Micenio. «Un servo mi ha giurato di avere sentito Callisto vantarsi con Claudio di averti avvelenato, e che sei sopravvissuto solo perché gli dei ti hanno garantito il loro appoggio. Ma adesso si è detto convinto che non sia più così.»
«Hai le prove che questa testimonianza sia vera?» gli chiese scettico.
Micenio scosse la testa. «Non lo so, Cesare, forse è solo un modo per attirarsi dei favori, ma...»
«Allora aspetteremo» concluse Caligola, decidendo che era tempo di concedersi qualche momento di tranquillità con Giulia Drusilla.
La bambina cresceva che era una meraviglia e assomigliava sempre di più a sua zia. Voleva godersi ogni istante che riusciva a trascorrere con lei, senza pensare al sapore amaro della vendetta che da troppo tempo gli avvelenava il sangue.
«Nel frattempo mettili tutti sotto stretta sorveglianza. Callisto, Ninfidia, Protogene, i prefetti del Pretorio. Tutti. E fai venire il comandante delle guardie germaniche. Voglio discutere con lui delle misure di sicurezza da adottare per quando inaugureremo i giochi di Augusto.»
«Sì, Cesare» sospirò Micenio sconfitto.
Caligola gli scompigliò i capelli con un gesto affettuoso.
«Stai tranquillo» gli disse. «Gli dei mi hanno avvertito in tempo e mi hanno protetto. Con il loro aiuto, presto faremo piazza pulita di tutta questa sporcizia che ci circonda.»