Sette
Quella mattina, per la prima volta da quando era tornato, scese nello studio che suo padre gli aveva fatto sistemare perché diventasse il posto dove avrebbe potuto iniziare a lavorare. Cercò di superare il disagio che quel luogo gli ispirava. Come se fosse entrato di nascosto in una stanza non sua.
Restando in piedi accanto alla scrivania, cercò sull’elenco telefonico il nome di Giacomo Cataldo. Argo Agenzia Investigativa. Lo trovò subito, era in grassetto e a caratteri evidenti. Studio. Due numeri telefonici e un cellulare.
Scelse il cellulare.
«Sono Max Gilardi» disse subito.
«Max… proprio tu! Allora è vero, sei tornato! Lo sapevo che mi avresti chiamato. Come stai, vecchio Max?» Parlava come le comparse dei telefilm americani.
In modo piuttosto sbrigativo gli disse che aveva bisogno di parlargli. «Puoi venire? O vuoi che venga da te?»
«No, no… ci mancherebbe. Dove sei? Nel vecchio studio di tuo padre o da Ciccio Caremi?»
Informatissimo, pensò Max Gilardi: ma era il suo mestiere. «Nello studio di mio padre, grazie».
«Appena posso faccio un salto. Ho voglia di vederti, vecchio mio. Bravo che ti sei ricordato del tuo amico Giacomo. Vengo, sai. Aspettami, che arrivo».
Dovette aspettarlo fino alle sei del pomeriggio, disse che era stato impegnato per un’indagine. Entrò nello studio rumorosamente, come era solito fare. La voce stentorea, le braccia allargate pronte ad abbracciare l’amico, una sedia spostata con il peso del corpo. Non era cambiato. Stessi capelli rossi, stesse lentiggini sul viso. Ora aveva la barba, corta, un po’ riccia, di un rosso più scuro dei capelli da sembrare sporca. E il corpo, che era sempre stato robusto, ora che tendeva alla pinguedine era diventato massiccio.
«Come stai, forestiero? Finalmente sei tornato… finalmente».
Max Gilardi dovette rispondere a molte domande. E quando riuscì a dirgli che aveva bisogno di lui professionalmente, Giacomo Cataldo si fece serio.
«Sei l’avvocato di quel ragazzo? Pensi che non c’entri niente?»
«Non devo pensarlo, devo dimostrarlo. Per questo ho bisogno del tuo aiuto. E non sono il suo avvocato, non ne ha bisogno, non è indagato. Gli sto solo facendo un favore».
«Sono qui, che cosa ti serve?»
Prima di dirgli di che cosa aveva bisogno, dovette chiarirgli la situazione. «È un ragazzo di colore, suo padre è morto a Kabul, non sono ricchi di certo. Non possono spendere per le nostre parcelle. Io gli ho offerto la mia amicizia. Non posso chiedere la stessa cosa a te, ma soltanto per dirti che non è un cliente…»
«Ma smettila» lo interruppe Giacomo Cataldo. «Sei tu il mio amico, non dire sciocchezze. Che cosa ti serve?»
«Grazie».
Max Gilardi gli mise davanti la deposizione di Aziz. «Su questa faccenda hanno aperto un’indagine… Ciccio Caremi si è attivato affinché venga fatta chiarezza in merito a eventuali responsabilità di terzi. Credo ce l’abbia con le Ferrovie».
«Le indagini le dirige quella Santini, vero? Ci hai parlato? Stai attento, è pignola. Tu manchi da Napoli da tanto tempo, guardati le spalle. Qui la terra brucia».
«Lo so, grazie. Questa Santini vorrà i riscontri alle dichiarazioni del ragazzo».
«Sì, ho capito…»
Max Gilardi gli mise davanti, su un altro foglio, tutti i nomi e gli indirizzi di quelli che Aziz aveva nominato. «Voglio le dichiarazioni firmate. Se coincidono, il ragazzo è fuori».
«Tu credi al suicidio del ragazzo Spada?» Gilardi fece una smorfia. «Neppure io. Ma il padre sta sollevando il mondo intero… il tuo amico Caremi: mi pare no pisci in do’ mare. Tu invece che idea ti sei fatto?»
Max Gilardi si strinse nelle spalle. «Nessuna. Ma scarto tutte quelle che ho sentito finora e che non mi sembrano ragionevoli. Prima tra tutte l’idea del suicidio».
«Ma è il suicidio che serve a suo padre e al suo avvocaticchio. Dimmi a che punto può arrivare ’sta carogna. Capisci il gioco? Se il ragazzo si è suicidato non c’ha colpa nessuno e nessuno è indagato. Lui non si mette nei guai. Perché se fa un nome, gli fanno la pelle pure a lui. Qualcuno parla di camorra… quello ha fatto un sacco di porcherie. S’è venduto la faccia in cambio di voti».
«Ma non è stato eletto».
«Lui no. Neppure i suoi assistiti si fidano di lui, ma i suoi voti sono serviti a quelli di Roma… forse ha fatto promesse che ora non può mantenere, sai come sono queste cose».
«No, fortunatamente non so come sono queste cose. Allora mi fai queste verifiche?»
«Sì, sì… ma mi devi dare almeno una giornata. Domani sera. Ti telefono e poi ti mando per fax tutte le dichiarazioni firmate». Raccolse i fogli dalla scrivania, alzandosi. «Bravo che mi hai telefonato. Ma di me chi te l’ha detto?»
«Sandrino, del bar».
«Già, è stato anche tuo compagno, me lo ricordo. Ma io per te… qualunque cosa, hai capito?»
«Grazie, Giacomo».
Controllarono che Max avesse scritto tutti i numeri del telefono, del cellulare e del fax, oltre alla mail. Giacomo fece di sì con la testa, ma non si staccava dalla scrivania.
«Manca qualcosa?» gli domandò Max Gilardi, vedendolo perplesso su quelle carte.
«No, qui niente. Ma voglio dirti una cosa… tu non c’eri e tante cose non le sai. Posso rimettermi a sedere?»
«Ma certo, pensavo che avessi premura. Lo vuoi un caffè?» Aspettarono che Liciuzza scendesse con i caffè. Le restituirono le tazzine vuote e Max Gilardi le chiese di chiudere la porta.
«Ecco, dimmi».
«La faccenda di questo Spada non è chiara… forse l’hai capito, ma che ne sai tu delle ragioni per cui fa tanto chiasso?»
«Gli è morto un figlio, non basta come ragione per voler sapere la verità?»
Giacomo Cataldo si fregò due volte il dorso della mano sotto il mento. «A lui della verità sai che gliene importa? Il figlio è morto e ora deve poter sfruttare la situazione e pararsi il culo».
«Non capisco».
«Ti faccio capire io. Ti racconto una cosa, che magari non va da quella parte, vediamo. Lui ha bisogno di un sospettabile, e ce l’ha».
«E non lo dice?»
«E non lo dice, bravo. Due anni fa, più o meno, è morto il figlio dodicenne di un tale, che qui a Napoli ha fatto rumore. Il padre, certo Costantini, era un professionista, stavano bene. Il figlio muore cadendo da una roccia in mare. Non sapeva nuotare… a Napoli sembra impossibile, ma il ragazzo era mingherlino e non sapeva nuotare. Chiasso, rumore… I genitori disperati, figlio unico, un bravo ragazzo. Capita… qui i sospetti nascono mormorando e diventano terremoti. Il padre sospetta che il figlio non sia annegato perché non sapeva nuotare, ma gettato a mare per ordine di Spada…»
«Che gli ammazza il figlio?»
Giacomo lo guardò, socchiudendo le palpebre: e gli occhi si ridussero a due fessure. «Ma tu dove hai vissuto finora? Non le sai ’ste cose? Non le leggi? C’era stato un accordo andato a male e il ragazzo muore in mare: per questi non fa una grinza. Ora qual è il sospetto?»
«Non mi dire che la morte di Carlo Spada possa essere ritenuta ragionevolmente la vendetta di questo Costantini, due anni dopo. Non capiterebbe neppure in una fiction televisiva, che è tutto dire».
«Non così. Troppo facile, vedi che non hai capito? Non ci sei dentro a ’ste cose. Spada deve dimostrare che il figlio si è suicidato. Quindi Ferrovie, Polfer, Regione, Stato, tutto fumo… Vedrai che teatro metterà in piedi. Ma se per caso non gli credono e gli dimostrano che qualcuno l’ha fatto fuori, lui ha già il sospettato pronto. La vendetta di Costantini. Capisci come funziona la cosa?»
«Come funziona?» chiese Max Gilardi, allibito.
«Funziona che toglie i sospetti da quelli che potrebbero fargli molto male davvero. Ecco come funzionano le cose qui».
«Sarà come dici, ma io me ne lavo le mani. Nessuno mi ha chiesto di cercare il colpevole, io voglio soltanto togliere dalle grane questo ragazzo. Punto, amen. Altro non voglio saperne, io non ho fantasia per ’ste cose».
«Per questo hai chiamato me».
«Già, come t’è venuta questa storia dell’agenzia investigativa?»
«Ci pensavo fin da ragazzo, mi piaceva come idea. Ho fatto domanda per la polizia, ma c’era una coda di anni. Allora m’è capitata questa occasione, abbiamo venduto una casetta che avevamo in campagna, dei nonni, e l’abbiamo acquistata…»
«Abbiamo… hai un socio?»
«Mia sorella Brigida… Non è socia, non sa scrivere manco il suo nome. Ma la casetta dei nonni era di tutte e due, e anche questa. Di tutte e due. Anzi, mi ha detto di salutarti, e ti vuole vedere. Devi venire da noi a pranzo, guarda che devi venire!»
«D’accordo. E quel nome, Argo…»
«C’era e c’è rimasto. Guarda che è una cosa seria, mica da film». E gonfiò il petto: per orgoglio e per disagio.
«E quanti siete?»
«In quattro, tutti in gamba. Due ragazzi che sono fenomeni ai computer e altre tecnicherie. Io e un altro alle indagini. Sono contento, lavoriamo anche in collaborazione con la Questura e con il Tribunale. Mi conoscono tutti. Mi piace. Cerchiamo di non fare errori, io ho molte conoscenze, sopra e sotto». E accompagnò la frase con una spallucciata, che risultò goffa.
Mise i fogli nella tasca della giacca, facendo fatica a far entrare anche la mano, e si avviò alla porta. «Bravo che mi hai telefonato. Stai tranquillo, sai: ci sono io per te».
Sembrava una minaccia.
Dopo due giorni gli arrivò un fax da Giacomo Cataldo: ‘Il tuo ragazzo è pulito’. Seguiva una serie di fogli con le dichiarazioni dei vari testimoni interrogati. Il vecchio signor De Nicola confermò l’ora in cui aveva incontrato Aziz sul portone. Ugo, il buttafuori del dancing, confermò di aver trasportato di peso Carlo Spada alla sua macchina e che Aziz si era messo al volante: li aveva visti andar via ed erano quasi le due di notte. Due prove effettuate da un giovanotto della sua squadra investigativa confermarono che dalla casa di Carlo Spada alla casa di Aziz, rifacendo il percorso che Aziz aveva indicato, a passo svelto ci erano voluti circa venti minuti. Infine la testimonianza più importante: il maggiordomo di casa Spada confermò di aver sentito il citofono suonare, stava dormendo. Si era messo qualcosa addosso, aveva acceso le luci ed era sceso ad aprire la porta al signorino: era successo altre volte. Ma quando aveva aperto la porta non aveva trovato nessuno e aveva pensato a uno scherzo. A quel punto aveva guardato l’ora: erano quasi le due. Soltanto la signora Angelina, del primo piano, disse di non aver visto rincasare il ragazzo; aveva visto uscire il signor De Nicola con il cane, verso le due circa, ma di non averlo visto rientrare.
Il tuo ragazzo è pulito.
Max Gilardi rilesse quei fogli per assicurarsi che non mancasse niente. Fece di sì con la testa, come se lo avesse sempre saputo, e chiuse i fogli in un cassetto della scrivania.