Trentaquattro
Una mattina, entrando in studio, Max Gilardi trovò Elena e Luciano che stavano aspettandolo.
Li salutò cercando di essere allegro. Invece sentì un morso allo stomaco che lo sorprese. «Ciao, come mai qui? Senza avvertirmi… sedetevi, avanti. Come state? E tu come stai?» chiese, rivolgendosi particolarmente a Elena.
«Bene, grazie». Un po’ poco per una donna alla vigilia del proprio matrimonio. Elena posò sul piano della scrivania due fogli a macchina. «Mi ha risposto» disse a fior di labbra.
«Chi? L’inglese?» Elena fece di sì con la testa, era pallida. «Accidenti, le ci è voluto del tempo: che cosa dice?»
«Allora, te la riassumo. Intanto è inglese, come avevo supposto. Ha conosciuto Alessandro la prima volta quando lui è andato in Inghilterra a cercare un designer per la barca. Lei lavorava in un centro informazioni a Londra e l’ha accompagnato a Southampton, dove lavorava David Seligmann, che poi ha disegnato la barca di Alessandro».
«Lo so, me l’ha detto Semini».
«Ecco, questo il principio. Poi, magari per colpa di Shakespeare, si sono innamorati, lui ha acquistato un terreno vicino a quello di David e una villa sul porto, quasi sullo stretto. Ha dato un primo e un secondo acconto, avevano deciso di sposarsi, si amavano, eccetera eccetera. Lei è stata qui, nella nostra vecchia casa di Positano, per una decina di giorni, ecco la foto ricordo» aggiunse, porgendogli una foto formato cartolina. «Sono loro e quella era la nostra casa di Positano». Max Gilardi la riconobbe. «Dice che avrebbe voluto conoscermi, ma Alessandro le era sembrato preoccupato che ci incontrassimo. Quando è capitata la disgrazia, lei lo stava aspettando, si sarebbero sposati e sarebbero andati a vivere prima a Londra e poi nella casa che avrebbero sistemato sul porto. Scrive che era intenzione di Alessandro di spostare il cantiere sul terreno che stava acquistando, perché a Napoli non si sentiva sicuro…» Alzò gli occhi verso Max Gilardi. «A noi non l’ha mai detto. Quale ragione poteva avere?»
«Non lo so. Va’ avanti».
«Si sono telefonati anche quella sera, lei scrive che lui era normale. Cioè quieto e lumacone, aggiungo io. Conosco il tipo. Dopo averlo aspettato inutilmente il giorno dopo, ha appreso la notizia dai giornali. Per qualche tempo si è disperata. Un giorno si è ritrovata con quel tale – ingegnere anche lui – che avrebbe dovuto lavorare con Alessandro se avesse trasferito il cantiere sulla costa inglese, si sono sposati. Hanno restituito i soldi della casa e del terreno che Alessandro aveva anticipato…»
«Sono arrivati?»
«Sì, sono andata a controllare. L’anno seguente. Io ho creduto che fossero anticipi su lavori che non erano stati eseguiti. Non avevo ancora il mio ufficio, me ne aveva parlato molto sommariamente mio padre. Intanto era morta mia madre, davvero la cosa è passata senza lasciare traccia. Però ho controllato e ho trovato le sei rimesse, hanno restituito tutto a rate. C’erano anche i documenti dei pagamenti di Alessandro, lei si preoccupa scrupolosamente che mi sia tutto chiaro. Vivono lì. È sposata e ha un bimbo di tre anni e una piccolina di qualche mese. Molto addolorata per noi, ma ora molto felice per sé. Amen, è tutto».
«Amen. Niente di nuovo».
«Come sarebbe? E Rosina che fa la vedova inconsolabile?»
«Ora non più. Le abbiamo detto che c’era un’altra. L’ha presa persino bene. Avevo pensato che alla notizia avrebbe fatto un teatro, invece ho avuto torto. Infatti, tu forse non l’hai notato, l’intera famiglia mancava al funerale di tuo padre».
«Magari fosse vero».
«Hai poi appurato in che misura Semini era, o è ancora, vostro socio?»
«Oh, sì. Dimenticavo. Una piccola quota del Jolly X è sua, gliel’ha regalata mio padre alla morte di Alessandro. Tutto in regola, voleva che non se ne andasse. Non una gran quota, mi pare sia il tre o il quattro per cento del capitale. Il trenta per cento è mio e il resto della società. Ti basta?»
«Sì, grazie. Tanto per avere un quadro complessivo. Sono tanti soldi?»
«Non moltissimi, il Jolly non è attivo, è ancora in fase di sviluppo. Però Semini ha stipendio e una provvigione sulle vendite. Gli è convenuto restare».
«Bene, allora possiamo andare a colazione».
Da quel momento parlarono del matrimonio, che avevano anticipato a maggio.
«La ragione?»
«Perché è primavera».
E del viaggio di nozze: in Australia.
«Siete pazzi…»
«Ci sei stato?»
«A ventitré anni, presa la laurea. Ma non ci tornerei».
Elena lo guardò. «Perché ora sei vecchio». E intanto rideva.
Qualche sera dopo, mentre Max Gilardi stava godendosi il fresco e una birra fuori dal Baretto di Sandrino, fu avvicinato da un uomo alto e grosso, sulla cinquantina.
«Lei è l’avvocato, vero?» Max accennò di sì, con il capo. «L’ho visto al cantiere e l’ho riconosciuto… Vorrei dirle una cosa, se mi permette».
«Certo, si accomodi. Una birra?»
«Non si disturbi… be’, sì grazie, se insiste». Arrivò la birra. L’uomo, che era rimasto zitto come se aspettasse di essere invitato a parlare, stappò la bottiglietta e se la portò alla bocca. Due sorsate e si asciugò le labbra con il dorso della mano. «Io sono Palmarin Giuseppe… mi chiamano Beppe». E rise, soltanto con gli occhi. Non era napoletano. Infatti aggiunse: «Vengo da Gradisca, sa dov’è?»
«Ricordi militari: non è un paesino vicino a Trieste?»
«Bravo, lei. Sì. Non c’era lavoro, io amavo il mare… sono venuto a Napoli». La cosa gli sembrò divertente, infatti aggiunse: «Ero un emigrante alla rovescia, vede? Qui ho fatto qualche lavoro, poi sono entrato come operaio nel cantiere Notarnicola, alla marina. Quasi trent’anni. Quando il giovanotto ha aperto il Jolly, mi ha chiesto e io ci sono andato. Ora lavoro lì, proprio dall’inizio. Capo operaio, sono contento».
«Bene». E avrebbe voluto chiedere: e allora? Ma non gli fu necessario, perché l’altro continuò.
«Vede, avvocato. Io so che avete chiesto di rivedere il processo. Scusi, sa… ci siamo capiti. Nessuno ha mai creduto alla disgrazia. Disgrazia di cosa, poi? Sapevamo come in cantiere avevamo fatto quello scafo. Una bellezza, mi creda. Macché disgrazia. Io, se permette, vorrei dirle una cosa».
«L’ascolto».
«Quella sera… la sera prima, voglio dire. No, ma prima devo spiegarle una cosa: il nostro sistema d’allarme». La cosa cominciava a diventare interessante. «Allora, la cosa funziona così. Noi stacchiamo alle sei, e prima delle sette siamo fuori tutti. Immediatamente attacca l’allarme fuori e dentro. Il custode prima di andarsene e di chiudere i cancelli, elettrici badi bene, tira fuori i cani. E ogni due ore, ma in modo irregolare, passa la ronda della polizia… mi sono spiegato, avvocato? Io non sono bravo a spiegarmi…»
«Si è spiegato benissimo. Vada avanti».
«Due sere alla settimana l’allarme scatta invece alle dieci, perché c’è l’impresa di pulizia. Loro escono e scatta l’allarme. Coi fiocchi, sa? È venuta un’impresa dal nord, forse dalla Svizzera. Tutto elettronico, una bellezza. Allora chi ha da fare qualcosa oltre l’orario aspetta quei due giorni dell’impresa e può fermarsi una mezz’ora in più. È tutto chiaro, avvocato?» Bevve altre due sorsate di birra. Si guardò attorno, come se volesse rendersi conto di dove fosse e di quello che stava facendo, e riprese. «Allora, proprio quella sera, che era venerdì… la sera prima della disgrazia, c’era l’impresa di pulizia. Io avevo il banco in disordine, perché avevamo lavorato freneticamente per tutta la settimana. L’ingegnere voleva arrivare a quel giorno e ci aveva messo sotto, tutti quanti… Be’, io, con il disordine non so lavorare. Allora mi sono fermato a mettere in ordine. Quando ho finito saranno state quasi le otto… sì, non ho guardato l’orologio quando ho timbrato, ma giù di lì. Sono passato dagli uffici, perché è l’unico portone che resta aperto quando c’è l’impresa… ha visto, vero, quando è andato al capannone sette… ha visto vero da dove è uscito? Ecco, stavo andando da quella parte quando ho sentito che nell’ufficio dell’ingegnere stavano litigando…»
«Chi, stava litigando?»
«Non lo so, bravo lei. C’era uno che gridava… era napoletano, uno di quaggiù, insomma. Io, quando questi parlano stretto, non capisco quello che dicono. Ho sentito che l’ingegnere rispondeva… ma era l’altro che gridava. L’ho detto al Mostro, che era con me. Si chiama Mastroni Giuseppe, lo chiamiamo Mostro per scherzo. Lavora nel banco con me, eravamo insieme al cantiere grande e siamo venuti qui insieme. Quella sera era con me. Anche lui ha sentito, ma anche lui non ha capito, è di Brescia. Neppure una parola, ma gridavano forte. Noi siamo usciti in fretta perché non si accorgessero che avevamo sentito. L’indomani è successo quello che è successo, noi ce lo siamo sempre chiesto: perché litigava l’ingegnere, e con chi?»
«Bella domanda. L’avete detto quando vi hanno interrogato?»
L’uomo fece una smorfia. «No, che cosa potevamo dire? Che non sapevamo niente. Era una disgrazia… ma adesso si dice che voi pensate che non era una disgrazia. E allora… passando ora l’ho vista qui seduto, l’ho riconosciuta, mi sono permesso… mi scusi, sa? Le ho fatto perdere tempo. Io abito là dietro, per questo sono passato di qui. Anch’io conosco Sandrino… anzi, per dire tutta la verità, è Sandrino che mi ha chiamato che lei era qui. L’ho vista al cantiere e ho pensato che era meglio se questa cosa gliela dicevo. Ho fatto male?»
«Ha fatto benissimo. Non so se potrà aiutarci a capire, ma ci lavoreremo. Riferirò questo nostro incontro a chi è a capo delle indagini, forse vorrà parlarle. Dove posso trovarla, che non sia al cantiere?»
«No, al cantiere meglio di no. Già dicono che noi vecchi non andiamo d’accordo con l’ingegnere…»
«Semini?»
«Sì, lui. A noi piace poco. L’ingegnere era meglio. Però è bravo anche lui, molto duro, ma le cose filano. È del nord, non è di qui, credo Romagna o su di lì. Comunque, ecco: questo che le ho scritto è il numero del mio telefono. Io alle sette e mezza sono sempre a casa. Se ha bisogno… devo dirlo anche al Mostro… Mastroni? Vuole parlare anche con lui?»
«Vedremo, lo deciderà chi conduce le indagini. Io dipendo da lui».
«Capisco… E grazie della birra, avvocato. Paga lei? Grazie e mi scusi, sa? Sempre pronto, ci conti».
«Va bene, ci conto».
La sera stessa riferì a Giacomo di quell’incontro. E lo sentì imprecare. «Tutti si stanno svegliando ora, me lo vuoi dire perché? Quando sono stati interrogati, all’epoca dei fatti, sembrava il teatrino dei morti: tutti muti. Ora si sono svegliati la memoria, accidenti a loro. Bene, li andrò a trovare a questi due… sì, lo so, non ufficialmente, lo so. Dopo il lavoro, così verranno a confessarsi. Ma chi poteva essere che litigava con l’ingegnere?».
«E che ne so? Però se ci rifletti è strano: chi poteva litigare il giorno prima del varo della barca? Uno del cantiere… non fare versi, Giacomo, sto riflettendo ad alta voce. Difficile che fosse uno che lavorava al cantiere, lo so; perché avrebbe dovuto litigare con Alessandro, il capo? Uno di fuori… ma chi?»
«Nella sfera di cristallo, Max. Chi ci capisce?»
«E hai sentito gli orari dell’allarme? Quel tale me li ha descritti a puntino. Quindi Alessandro è uscito e rientrato quando erano chiusi, come avevi detto tu. Quindi il tale della bomba era dentro, o è uscito e entrato quando erano spenti, come Alessandro».
«Anche questo vado a farmelo dire dalla sfera di cristallo, accidenti. E ti pare normale? C’è qualcosa di normale in questa storia? Non c’è. Accidenti, non c’è. Ciao, ne ho piene le scatole di questa storia. Così scema che non sembra vera».