17 marzo 2009
Il martedì va al supermercato, riempie il frigo di insalata, latte scremato e caffè in polvere. Non si è ancora abituata a fare la spesa per una sola persona: è strano, non comprare più tutte le cose che Jacky mangiava, patate e formaggi e chili di gelato variegato. E tutta quella carne rossa. Gloria mangia carne di rado, ormai. A volte si scorda del tutto di mangiare, entra in cucina la mattina per una tazza di tè, la trova immacolata e si rende conto che il giorno prima non ha toccato cibo. E si stupisce: dimenticarsi di una cosa tanto basilare non è certo normale. Così al supermercato compra poca roba, ma a volte si trova comunque a dover gettare via qualcosa, le foglie di insalata che si riducono a una poltiglia nera sul fondo del cassetto, il latte che si inacidisce.
Oggi è martedì, ma lei non andrà a fare la spesa. Andrà a casa sua, nella grande casa sull’angolo nord-orientale di Sycamore Street, l’edificio di mattoni su mille metri quadrati di terreno con il sempreverde alto quasi dieci metri proprio davanti all’ingresso. Quell’albero è costato una piccola fortuna, e prima o poi finirà per infilare le radici nelle fondamenta e nelle fognature, ma lei aveva detto a Jacky di voler vivere in una casa con un grande albero davanti alla porta e lui aveva memorizzato l’informazione. Jacky aveva sempre avuto un’ottima memoria per cose come quelle, e amava le sorprese, e Gloria era rimasta sorpresa quando lui aveva comprato la casa, e ancora più sorpresa quando un mattino della settimana successiva al trasloco era stata svegliata dai suoni di una squadra di uomini che piantavano l’albero in giardino. Jacky amava farla felice, diceva che era il compito principale di un marito. Far sorridere sua moglie.
«Mi dispiace per tutte le volte che ti ho fatta piangere» le aveva detto una settimana prima del suo arresto. Lei stava facendo i bagagli, stendendo con cura gli indumenti e arrotolando calze per infilarle nelle scarpe già in valigia. Nel corso degli anni avevano viaggiato molto, e lei era diventata un’esperta nei preparativi. Cosmetici in buste di cellofan chiuse nell’eventualità che esplodessero, cosa che tendevano a fare durante i voli per Denver. Un portapillole per i suoi gioielli, le collane una per scomparto, così non si attorcigliavano. Calze infilate nelle scarpe per risparmiare spazio.
«Cos’hai detto?» Era concentrata sulla valigia, cercando di non dimenticare i dettagli dell’ultimo minuto. Avrebbe fatto un viaggio con sua madre, visitando l’arco di St. Louis e magari proseguendo ancora più a nord, fino a Chicago. Era stata un’idea di Jacky, e in seguito Gloria si sarebbe resa conto che lui aveva insistito tanto perché sapeva cosa sarebbe successo, e non voleva che lei assistesse al suo arresto. «Scusa, non ti stavo ascoltando.»
«Mi dispiace per tutte le volte che ti ho fatta piangere» aveva ripetuto lui, lentamente. Era seduto in poltrona, e guardava la strada tranquilla fuori dalla finestra. C’era un’automobile parcheggiata all’angolo, come ogni giorno in quelle ultime settimane, e Gloria poteva intravedere la spalla dell’uomo al volante, le sue dita che tamburellavano sul cruscotto. Non aveva detto niente a Jacky, né dell’auto né degli uomini che erano sempre nei paraggi, ma sapeva che lui ne era già al corrente, e sapeva che erano poliziotti. Lo capiva da come si vestivano, e da come distoglievano gli occhi quando lei passava in macchina. Lei e Jacky erano sposati da quasi trent’anni, ma lui la credeva ancora ignara di tutto, credeva che non si accorgesse delle piccole cose. Ci scherzavano di continuo, e lei era sempre stata al gioco, ma i poliziotti li aveva notati, coi loro sguardi sfuggenti e le loro giacche larghe attorno al busto per nascondere le armi, e aveva capito che stava per succedere qualcosa.
«Ma cosa stai dicendo?» aveva chiesto a Jacky, ma lui non aveva risposto; a volte faceva così, passava da una cosa all’altra prima che lei riuscisse a rendersene conto. Quel giorno aveva ignorato la sua domanda e l’aveva aiutata a preparare la valigia, e lei si era dimenticata delle sue parole finché Jacky non l’aveva chiamata dal carcere. Nei primi tempi del loro matrimonio, in effetti, aveva passato molto tempo a piangere, ma dopo l’arresto di Jacky non aveva versato una lacrima.
La casa, però. La sua casa. Jacky l’aveva comprata perché i ristoranti fruttavano bene. Diceva che era un investimento sul futuro, che vivere in affitto era come gettare i soldi nel gabinetto. Al loro ingresso non era una bella casa: la moquette era lurida, le tappezzerie erano di cattivo gusto e i ragni avevano fatto la tana negli angoli più in alto. Ma Jacky aveva detto che decorarla era compito di Gloria, che avrebbe dovuto chiamare l’impresa di costruzioni e quella di pulizie, scegliere mobili, tende e soprammobili. Sprimacciare il nido, lo definiva lui. Gloria credeva che avrebbero trascorso il resto della loro vita in quella casa, che avrebbero finalmente avuto dei figli, che sarebbero diventati vecchi e avrebbero preso a lamentarsi delle scale per via delle loro povere ginocchia e avrebbero parlato di venderla, ma solo a parole, nient’altro. Invece non era accaduto nulla di tutto ciò. Non era mai arrivato un bambino, per quanto ci avessero provato e per quanti dottori avessero consultato, e ora Gloria ha quarantanove anni e abita in un miserabile appartamento ammobiliato mentre suo marito è in prigione e la sua bella casa è abbandonata. Non è la vita che si era immaginata, ma è quella che ha, e nulla potrà cambiarla.
La polizia dice che non potrà più vivere a casa sua. E sì che ci aveva passato così tanti anni a fare programmi, selezionare campioni di colori, visitare negozi di architettura. Gloria soffre al pensiero che non potrà mai più avere una casa così perfetta per le feste natalizie, con la sala da pranzo piena di amici e parenti e l’albero alto nove metri che brilla fuori dal bovindo. Oppure per le serate estive, quando usavano la griglia in giardino e i bambini dei vicini correvano sul prato, catturando rane nello stagno o tuffandosi dal moletto costruito da Jacky, le loro lingue tinte di rosso dai ghiaccioli. Il pastore della sua chiesa diceva sempre che dovremmo farci aiutare a superare i brutti momenti dai ricordi di quelli più belli, ma questo accadeva prima che Jacky venisse arrestato, prima che il pastore Ed la prendesse in disparte e le suggerisse sottovoce che forse avrebbe fatto meglio a pregare a casa sua, che Lui l’avrebbe ascoltata lo stesso, ovunque fosse stata. A Gloria avevano sempre insegnato di porgere l’altra guancia, e così non era più tornata in chiesa; restava a casa e la domenica mattina guardava i sermoni televisivi, e ogni giorno prima dei pasti e prima di coricarsi recitava in silenzio le preghiere, quando in realtà non avrebbe desiderato altro che vederli morire tutti quanti, castigati dal Signore per averla lasciata sola nel momento del bisogno. Ma lei attendeva con pazienza, poiché Lui ripaga sempre. Prima o poi hanno tutti quello che si meritano.
«Quando potrò tornare a casa?» ha chiesto Gloria qualche settimana fa. Era stufa dell’appartamento. Alloggi aziendali, li chiamano, ma in realtà è come stare in un motel. Peggio. Di notte non riesce a chiudere occhio, chiedendosi in quanti abbiano dormito in quel letto, abbiano usato i piatti scheggiati nel pensile, si siano seduti sul divano legnoso.
«Che intende dire?» ha ribattuto il poliziotto. Erano in due: giravano sempre in due, come un set abbinato. Erano gli stessi che avevano sorvegliato la casa; uno era abbastanza giovane e attraente, ma l’altro era cattivo. Gloria non riusciva mai a ricordarne i nomi, ma neanche ci provava. Quei due non le piacevano. «Non ci potrà mai tornare.»
«Ma cosa dice? Quella è casa mia. Mi appartiene.»
I due si sono scambiati un’occhiata, apparentemente divertiti. E lei li ha odiati per questo. Manco fosse una bambina che ignorava come stavano le cose e chiedeva un giocattolo che non poteva avere.
«La casa sarà abbattuta, Mrs. Seever» ha detto il più giovane. Se non altro era gentile, non come l’altro, che non faceva che guardarla con uno strano sorrisetto. «Rasa al suolo.»
«Non è vero.»
«Temo di sì.»
«Jacky ha detto che avrei potuto viverci, anche con lui in prigione.»
«Jacky non ha molta voce in capitolo, di questi tempi» ha detto il più anziano. Loren, si è ricordata Gloria. Detective Loren. Aveva un ghigno stampato in faccia, le labbra ritratte al punto da mostrarle tutti i denti e gran parte delle gengive. «Si perde il diritto di voto, quando si ammazza la gente.»
«Non capisco.»
«La casa è stata venduta.»
«Ma io ci abito.»
«Forse il suo caro maritino non le ha detto che siete sul lastrico» ha proseguito Loren. «Ha incaricato il suo legale di vendere tutto per pagare le spese legali. La casa. La macchina. Tutti i vostri beni. Non avrà pensato che quell’avvocato di lusso stesse difendendo Jacky spinto dal suo buon cuore, vero?»
Gloria ha serrato le dita sulla borsetta, affondando le unghie nella pelle.
«Ma erano anche beni miei» ha protestato. «Non può averli venduti senza dirmi niente.»
«Tecnicamente non c’è niente di suo» ha ribattuto Loren. «Il suo nome non era sui documenti, e Jacky ha potuto fare quel cavolo che gli pareva. E l’ha fatto. Senza dirlo a lei.»
Aveva ragione. Jacky si era sempre occupato di tutto, delle loro finanze e delle scartoffie, senza mai coinvolgerla. Nemmeno una volta. Lei non aveva mai saputo quanti soldi avevano, come andavano gli affari, ma le era sempre stato facile credere che andasse tutto bene, perché così sembrava, e visto che le sue carte di credito funzionavano e i suoi assegni venivano approvati non aveva mai dubitato di nulla. Jacky aveva acquistato la casa senza di lei, facendole una sorpresa, ed era sempre andato da solo al concessionario. L’unico documento che Gloria avesse mai firmato era la licenza di matrimonio; era tutto quello di cui lui aveva avuto bisogno per farla vivere bene, e poi per rovinarla.
«Ma le tavole calde…» ha fatto per ribattere, ma poi si è fermata. Dall’arresto di Jacky non vi aveva più messo piede, né aveva chiamato per averne notizie. C’erano tante altre cose da affrontare, e Jacky le aveva assicurato che se ne sarebbero occupati i direttori, che non c’era nulla da temere. Sarò fuori di qui prima ancora che te ne accorga, le aveva detto durante una delle sue visite alla prigione di contea. Non dovrai muovere un dito, non ti preoccupare. «Vendute anche loro?»
«Sì» ha risposto il poliziotto più giovane, rivolgendole un’occhiata impietosita per cui Gloria avrebbe potuto ucciderlo.
«Chi ha comprato la casa? E i ristoranti?» ha chiesto invece. «Mi riprenderò tutto. Mi appartengono.»
Si è pentita di quelle parole non appena le sono uscite di bocca, perché non credeva che le fosse rimasto un solo dollaro… anzi, lo sapeva, non poteva permettersi di fare l’ingenua, non più. Se Jacky aveva venduto casa e ristoranti senza dirle nulla, doveva aver ripulito anche i conti in banca. Forse, se era fortunata, poteva averle lasciato abbastanza da sopravvivere per un po’, ma chi credeva di prendere in giro? Jacky poteva essere chiuso in carcere, ma era come se ci fosse anche lei, ed era una prigione che si era costruita da sola, posando ogni singolo mattone con le sue stesse mani. Una prigione fatta di una totale, assoluta stupidità.
Babbea, l’avrebbe chiamata suo padre. E nel dirlo avrebbe schioccato le labbra per la soddisfazione. Una dannata babbea.
«Le tavole calde sono state acquistate da privati, la casa è andata a una fondazione comunale. La sua missione è quella di migliorare la qualità della vita in città, e il programma è quello di abbattere la casa» ha ripreso il poliziotto più giovane, in preda a un apparente imbarazzo. «Raderla completamente al suolo. Ho sentito dire che vogliono costruirci un campo giochi. O forse dei giardini pubblici.»
«Ma perché?» ha gridato lei.
«Perché il loro assegno è stato incassato, e perché possono» ha risposto Loren. «E perché la gente deve poter dimenticare quello che è successo in quella casa.»
«Dimenticare cosa?» Gloria aveva preso a strofinarsi le labbra con un fazzoletto di carta per togliere il rossetto che in realtà si è dimenticata di mettere, e il labbro inferiore screpolato ha cominciato a sanguinare.
«Devono poter dimenticare che suo marito era un maledetto psicopatico.»
«Jacky non ha mai fatto del male a nessuno.»
«È questo che pensa?» ha chiesto il detective Loren. Gloria ha guardato il poliziotto più giovane, quello più gentile, nella speranza che intervenisse ancora, ma questi è rimasto a guardare il collega, in piedi accanto alla porta con le braccia incrociate sul petto. «Sa cosa ci ha detto qualche settimana fa il suo dolce maritino?»
«No.»
«Una delle ragazze che ha ammazzato… Beth Howard, mi sembra. Giusto, Paulie?»
Paulie ha scrollato le spalle.
«Be’, la ragazza sta tornando a casa con la sporta della spesa. E suo marito, da persona gentile qual è, le offre un passaggio. E lei lo accetta. Forse faceva caldo e la strada era lunga, o forse lui le aveva fatto una profferta amorosa, o magari la ragazza era semplicemente scema e pigra. Non lo sapremo mai.»
«Non so perché mi stia dicendo queste cose» ha protestato Gloria traendosi al petto la borsetta, trovando conforto nel suo peso.
«Sicché Jacky si porta a casa Beth Howard e fa quello che fa. Non scenderò nei dettagli, sono sicuro che ha visto i telegiornali. E che sapeva quello che combinava suo marito.»
«Non lo sapevo.» Si è fermata e si è schiarita la gola. Le si è formato qualcosa di caldo e pesante, ma morirebbe soffocata piuttosto di chiedere da bere a questi due. «Non sapevo nulla.»
«Paulie, ti spiace andare a prendere qualcosa da bere per Mrs. Seever?»
Il detective più giovane è uscito dalla saletta ed è tornato con una lattina di Coca. Gloria l’ha presa, stringendo l’alluminio tra le dita, ma non ha bevuto. La lattina era tiepida.
«Comunque. Dove eravamo? Ah, sì. Beth Howard è morta, e sono abbastanza sicuro che siano tutti d’accordo sul fatto che suo marito c’entri qualcosa.» Gloria non lo credeva possibile, ma a quel punto il detective Loren ha sorriso, incurvando così tanto le labbra che la parte superiore della sua testa sembrava sul punto di staccarsi e cadere. «A proposito, Beth Howard insegnava in un asilo. I suoi allievi le volevano così bene che alla sua scomparsa ciascuno di loro ci aveva scritto una letterina. Commovente, vero Paulie?»
«Questo non ha niente a che fare con me» ha detto Gloria, irrigidendosi.
«Aspetti, sto per arrivare al punto. Dopo aver finito con Beth Howard, sa cos’ha fatto Jacky?»
«Devo andare.»
Ma quel bastardo di uno sbirro, con i suoi occhietti cattivi, non aveva intenzione di mollare l’osso finché lei non avesse udito quello che aveva da dirle.
«Le ha infilato il corpo di quella ragazza sotto il letto. Lei ha passato la notte a dieci centimetri da una donna che suo marito aveva appena ammazzato.» Una goccia di sudore ha solcato la fronte di Loren e gli è finita nell’occhio, e lui se l’è asciugato con un passaggio distratto della mano. Gloria ha capito che si stava divertendo a vederla soffrire. Più tardi avrebbe potuto raccontarlo ai suoi amici davanti a una birra: lei riusciva già quasi a sentire le loro risate alle sue spalle. «Gli piaceva tenersi vicino le sue vittime, al suo Jacky, anche dopo che le aveva fatte fuori. Diamine, forse se lei gliel’avesse data un po’ più spesso, se di tanto in tanto si fosse piegata e l’avesse preso per la causa, lui non sarebbe dov’è adesso.»
Gloria non ha detto niente. Sentiva arrivare un’emicrania, una delle peggiori, tanto che poi ha passato le dieci ore successive a letto con una pezza bagnata sugli occhi. In quel momento ha pensato di prendere la Coca e gettarla in faccia a Loren, facendogliela rimbalzare sulla fronte. Voleva fargli del male per averle dato la colpa di tutto quello che era successo, voleva vederlo sanguinare.
«Può pure andare a ritirare le sue cose» ha concluso lui. «Ma di sicuro non potrà più viverci. Neanche per il cazzo.»
E così questo martedì, di solito il giorno della spesa, Gloria imbocca il vialetto come se la casa fosse ancora sua, facendo tintinnare le chiavi tra le dita mentre raggiunge la porta d’ingresso. C’è un’auto ferma lungo il marciapiede con il motore acceso e l’aria condizionata in funzione (fa caldo, per essere marzo), e a bordo ci sono due uomini. Quello sul sedile di destra alza una mano per salutarla, e lei gli risponde con un cenno del capo, anche se vorrebbe tanto mandarlo a quel paese. Sono poliziotti. Ci sono sempre poliziotti a sorvegliare la casa finché non verrà abbattuta, ed è uno spreco di energie, pensa Gloria, perché tanto varrebbe lasciare che barboni e delinquenti si divertano prima di raderla al suolo. Ha saputo che qualcuno ha cercato di entrare per scrivere cose terribili sui muri, sfondare le porte a calci o magari rubare qualcosa, un morboso souvenir di Jacky Seever da mostrare agli amici.
Gloria apre la porta ed entra in casa. È passata una settimana dall’ultima volta che ci è stata, insieme a due giovani traslocatori che hanno trasportato fuori e caricato sul loro furgone tutto quello che lei indicava pur essendo visibilmente scossi per tutte le storie che avevano sentito sulla casa e malgrado il vespaio fosse ancora esposto, con un telone fissato sopra il buco nel pavimento e un nastro di protezione a impedirne l’accesso. Gloria ha fatto imballare tutte le sue fotografie e il servizio natalizio di porcellana con i bordi smerlati e il ramoscello di agrifoglio al centro dei piatti. Tutti i mobili della camera degli ospiti, il set di vimini con il copriletto di pizzo. A volte ci aveva dormito, in quel letto, quando Jacky russava troppo o quando la sua insonnia era particolarmente tenace e non voleva tenerlo sveglio, ed era migliore di quello nella camera padronale, più comodo.
«La polizia ha confermato che in diverse occasioni alcuni dei vicini avevano protestato per il cattivo odore proveniente da casa vostra. È vero?» È una delle domande che le ha fatto due mesi fa quella giornalista, non riesce a ricordarne il nome. Gloria aveva cercato di chiuderle la porta in faccia nel sentire che era del «Post», ma poi la ragazza le aveva detto che secondo lei Jacky era innocente, e che lo stavano perseguitando senza motivo. E così l’aveva fatta entrare e accomodare nel salottino e le aveva servito caffè e biscotti, quelli croccanti al burro nella scatola di latta azzurra.
«Sì, era successo una o due volte. Nei giorni più caldi.»
«Capisco.»
«Abbiamo sempre avuto un problema con i topi» ha spiegato. «Jacky spargeva il veleno, e loro andavano a morire nei muri.»
La ragazza ha aggrottato la fronte e si è raccolta una ciocca di capelli dietro un orecchio. Era giovane e molto graziosa. A giudicare dalla piattezza del suo ventre non aveva figli, e forse non era neanche sposata. Gloria non gliel’ha chiesto: sarebbe stata maleducazione.
«Topi?»
«Sì. Lo stagno dietro casa attira ogni genere di bestiaccia.»
«È quello che le diceva suo marito? Topi?»
Gloria si è abbandonata all’indietro in poltrona, una mostruosità di pelle nera lucida il cui stile avrebbe dovuto essere southwestern ma che in realtà era solo orrenda. Si è resa conto che questa ragazza, che sta bevendo il suo caffè e sgranocchiando educatamente i suoi biscotti, non crede affatto all’innocenza di Jacky, e probabilmente pensa che sia una bugiarda anche lei.
«Sì. È quello che mi diceva Jacky.»
«E lei gli credeva?»
Gloria si è morsicata l’interno della guancia con tale forza che sarebbe rimasto gonfio e dolente fino al giorno dopo e le si sarebbero formate piaghe che l’avrebbero perseguitata per un’intera settimana.
«Perché non avrei dovuto credergli?»
«Suo marito ha confessato di avere ucciso trentun persone, Mrs. Seever, in questa stessa casa» ha detto la giornalista. «Faccio fatica a credere che lei non avesse idea di quello che accadeva.»
«La polizia mi ha scagionata da ogni sospetto, se è questo che vuole insinuare.»
«Non insinuo niente.»
Gloria l’ha guardata bene.
«Ha un’aria familiare. Ci conoscevamo già?»
«Non credo.»
«Jacky l’avrebbe trovata graziosa. Sarebbe stato interessato a conoscerla meglio.»
La giornalista se n’è andata in fretta, dopo quella frase.
L’interno della casa è fresco e silenzioso, con l’odore di stantio che si forma sempre quando una casa resta chiusa troppo a lungo. Gloria ha già preso tutto quello che poteva desiderare, ma ha voluto tornarci per dire addio. È stata felice, in questa casa.
Sale al primo piano, lentamente, perché negli ultimi mesi le ginocchia hanno cominciato a farle male, ed entra nella camera da letto padronale, la seconda porta a sinistra. Contiene il loro lettone con la testiera di ciliegio e le lampade di metallo a filigrana che lei stessa ha trovato da un antiquario. Aveva letto che gli uomini tendono per natura a dormire sul lato della porta, per poter proteggere le loro donne, ma quello era sempre stato il suo lato. E questo forse dice qualcosa sul loro matrimonio.
Gloria si inginocchia, solleva il bordo del piumino e guarda sotto il letto. Non è una posizione comoda. La lana ruvida della moquette le irrita la guancia, e da così vicino si vedono piccoli sbaffi neri tra le fibre del tessuto. Polvere, forse, o tracce di cosmetici. Jacky si lamentava sempre quando lei spuntava le sue matite facendo cadere sulla moquette i frammenti neri, perché non sarebbero più venuti via, neanche dopo un lavaggio energico.
Sotto il letto ci sono soltanto gomitoli di polvere, qualche forcina sparsa e un libro. Gloria deve allungare il braccio per arrivare al volume, raschiandone vanamente la costa prima di riuscire ad afferrarlo. È un manuale per la gravidanza: consigli sulle nausee mattutine e sulle coliche, sull’allattamento e sulla scelta dei pannolini. Gloria non ricorda di averlo mai acquistato, anche se deve averlo fatto, poiché nessun altro sapeva che lei e Jacky avevano provato ad avere figli per quasi tutta la durata del loro matrimonio. Gran parte della gente credeva che avessero deciso di non averne, di svolgere il ruolo degli affezionati zietti per i bambini altrui e spendere il loro denaro e il loro tempo libero viaggiando e bevendo buoni vini. Ma si sbagliavano tutti, Gloria aveva sempre desiderato un figlio e a un tratto era diventato troppo tardi, i suoi organi interni erano avvizziti per il disuso, non c’era stato più nulla da fare. Ma adesso è felice che non ne abbiano avuti.
Sfoglia il libro, guarda le pagine piene di parole e disegni di una vulva, che somiglia più alla sezione di una fragola che a una cosa nascosta tra le gambe delle donne. Nella casa fa caldo e manca l’aria, e Gloria si distende e posa la testa sul braccio sinistro allungato. Malgrado il pavimento sia duro chiude gli occhi, perché fa molto caldo e lei è così stanca e questa è casa sua, sarà sempre casa sua. Si è quasi addormentata quando sente muoversi qualcosa sotto il letto, e quando riapre gli occhi c’è una giovane donna che la fissa a pochi centimetri di distanza. Una donna con una faccia a cuore e capelli marrone chiaro, vestita con un abito azzurro con una fantasia di ramoscelli fioriti di bianco. È Beth Howard, Gloria lo sa. Beth Howard, la ragazza che Jacky teneva sotto il letto, ed è graziosa, a parte il fatto che è morta: la sua faccia è avvizzita come una mela lasciata troppo a lungo in una dispensa buia. Ma il suo sguardo è vivo, fiammeggiante di rabbia, gli occhi due biglie ossidate sepolte nel volto bianco.
«Lui mi ha preso tutto» sibila, e Gloria si drizza a sedere di scatto, sentendo una fitta di dolore al muscolo della spalla destra. Arretra dal letto, brancolando con le mani in cerca di un appiglio sul pavimento finché va a colpire la poltrona che ha sempre tenuto nella zona della camera che chiamava il suo angolo di lettura. Da lì può vedere che sotto il letto non c’è niente di niente, men che meno una ragazza morta. È stato uno scherzo della sua immaginazione.
Si abbandona esausta contro la poltrona, piega le gambe davanti al petto e posa la fronte sulle ginocchia. Quando si siede così sembra una ragazzina, giovane e vulnerabile, la ragazzina che un tempo è stata. Quella che si era nascosta dietro il divano mentre suo padre puntava un fucile in faccia a sua madre.
Gloria tiene gli occhi chiusi e respira a fondo cercando di riprendere il controllo. Inspira dal naso ed espira dalla bocca, come insegnava la professoressa di ginnastica al liceo. E in quel momento lo sente. Quello di cui altri si erano a volte lamentati, ma che lei non aveva mai notato. L’odore di marcio, il tanfo soffocante di carne verminosa.
È la mia immaginazione, pensa. È tutto nella mia testa. Non c’è nessun odore.
Aspetta che passi, serrando le mani a pugno e premendosele davanti agli occhi. Ricorda una visita allo zoo quando era bambina: si era ritrovata nella calura umida della casa delle scimmie, sentendo salire la bile in gola prima che quell’orribile olezzo si stemperasse finalmente in sottofondo, ancora presente ma tollerabile. Forse questo sarà lo stesso, si dice, anche se sembra solo aumentare; forse è colpa del caldo, senza aria condizionata la casa di mattoni si è sempre riscaldata troppo durante l’estate, ma in realtà ha poca importanza, perché lei non riesce più a sopportarlo. Esce barcollando dalla camera da letto, scende le scale e punta disperata verso la porta, riuscendo a malapena a non vomitare o a non gridare.