1 dicembre 2015
Se fosse un film, sapremmo che è passato del tempo perché ci sarebbe una scritta sul lato inferiore dell’inquadratura: Sette anni dopo. La scena si aprirebbe con una veduta aerea di Denver e del suo centro, con le strane curve delle pareti di vetro del palazzo della Wells Fargo, la cupola dorata del Campidoglio e la serpentina della I-25 che scorre lungo l’asse nord-sud. E le montagne, sempre le montagne, grandi alture blu e violacee sull’orizzonte occidentale, le loro vette spruzzate di neve. Vedremmo tutto questo e poi ci tufferemmo a velocità vertiginosa verso Colfax Avenue, dove si trovano quasi tutti i negozi di materiale porno e i centri massaggi della città, dove regnano i graffiti, la musica è assordante e quelli che sono abbastanza scafati e disperati sanno dove parcheggiare, suonare il clacson e fare in modo che le puttane mostrino i loro volti, insieme a tutto il resto. Sulla Colfax, non lontano dal rombo dell’autostrada, c’è un caffè, piantato come per sbaglio nell’angolo più lontano del parcheggio di un Walmart, dove si trovano i cassonetti delle donazioni, le roulotte e le cataste di giornali in attesa di essere riciclati, e dove nelle giornate ventose si scatena l’inferno, un uragano di parole e inchiostro sbavato. Il caffè sembra una ghiacciaia rovesciata su un fianco o una casa giocattolo, ma è un locale in piena regola, dove i clienti possono accostarsi al volante delle loro auto a una finestra e guardare dentro mentre viene versato il loro caffè. Il caffè è caro e fa schifo, e non c’è una gran scelta. Niente paste, niente cereali, niente barrette proteiche. Solo caffè.
Ma alla mancanza di scelte il locale sopperisce in altri modi. Più che altro a livello di personale. Sono tutte donne, o meglio ragazze, e lavorano in bikini. Alcune addirittura in mutandine e reggiseno. Fa parte del concetto di base: soddisfare la clientela. Un caffè e una lumata. Una specie di Happy Meal per adulti.
Il detective Paul Hoskins è un frequentatore regolare.
«Il solito, tesoro?» chiede Trixie sporgendosi fuori dalla finestra. Ha un accento del Sud, ma Hoskins sa che è finto, un trucco imparato alla tivù, perché ogni tanto scivola nella parlata biascicata e piatta che di questi tempi sembra comune a molti giovani. Indossa solo un reggiseno rosa shocking e un tanga nero. Le sue tette sembrano sul punto di rotolare fuori, e nella fenditura tra i seni sta spuntando un foruncolo rosso e infiammato.
«Sì.» Le ragazze sanno che Hoskins è uno sbirro; dicono che il suo passaggio mattutino le fa sentire più al sicuro. Il suo caffè è sempre offerto dalla casa.
Trixie gli consegna un bicchiere fumante di polistirolo: deve averlo visto arrivare e averlo versato in anticipo. Caffè grande, nero e senza zucchero. Loren lo prendeva sempre in giro per quella sua preferenza, dandogli del vero uomo, chiedendogli quanti peli aveva sul petto e poi versando tre bustine di zucchero e una spruzzata di panna nel proprio caffè.
«Grazie. Mattinata lenta?»
«La gente arriverà.»
«Hai in programma qualcosa di speciale per il fine settimana?»
«Non direi.» Su un lato del bicchiere c’è un disegno, una tazza con due lunghe gambe sexy che sbucano dal fondo e labbra carnose al centro. È il logo del bar, una tazza di caffè che sembra pronta e più che disposta a farti un pompino. Hoskins si è domandato spesso se qualche adolescente non lo usi per masturbarsi. «Ehi, stamattina ho portato qualche ciambella. Ne vuoi una?» chiede Trixie.
Probabilmente non si chiama davvero Trixie: quale genitore farebbe una cosa simile a sua figlia? Ma Hoskins non gliel’ha mai chiesto. Usare un nome falso le dà un senso di sicurezza, anche se è una finta sicurezza, specialmente di questi tempi, quando chiunque può scoprire qualsiasi cosa. Ma lui la capisce. Una piccola bugia per rendersi la vita più facile.
«Che gusti hai?»
«Un paio con lo zucchero a velo. Una, no due con la glassa. E una ripieno di marmellata, credo di lamponi.»
Hoskins aveva scoperto questo posto grazie a una donna con cui aveva avuto una storia, Vicki o qualcosa del genere, non ricorda neanche come si chiamasse; lei aveva letto qualcosa online e si era lanciata in una delle sue filippiche: il mondo stava andando a rotoli, gli uomini cercavano sesso dappertutto, anche nel loro caffè mattutino. Ma Vicki era il genere di donna che avrebbe voluto essere negli anni Cinquanta e portare il grembiule, era convinta che quasi tutti i maschi fossero dei pervertiti e che una donna con un bel corpo e una camicetta scollata fosse una sgualdrina. Aveva le sue opinioni e le esprimeva volentieri, ma la sua era più che altro insicurezza. Era insicura e bisognosa di attenzioni, e lui la sopportava per nessun particolare motivo se non che lei continuava a tornare. Non ricordava nemmeno com’era cominciata la loro relazione, o dove l’aveva conosciuta. Alla fine era stata lei a lasciarlo; aveva messo in valigia tutto quello che nei sei mesi della loro relazione aveva lasciato nell’armadietto del bagno e nei cassetti della credenza, strillando che ne aveva abbastanza delle sue stronzate, che era un bastardo incapace di tenersi stretto una donna e che non avrebbe mai trovato nessuna meglio di lei. Tutte cose che Hoskins si era già sentito dire. Lei lo lasciava perché aveva dei problemi, perché stare con lui era come stare con un robot, ma Hoskins immaginava che il vero motivo fosse il bicchiere che aveva scordato di gettare: Vicki l’aveva visto e aveva capito che lui era stato in “quel posto”, e se c’era una cosa che non poteva sopportare era un uomo a cui piaceva guardare una ragazza seminuda mentre questa gli versava il caffè. E così se n’era andata, ma a volte gli mandava un messaggio, per «sapere come stava» diceva, e Hoskins sapeva che se avesse voluto avrebbe potuto riaverla.
Ma non voleva.
«Mi stai offrendo una ciambella perché sono un poliziotto?» domanda.
«Oh, non volevo offenderti» risponde Trixie smarrendo all’istante il sorriso. Ha due graffi profondi su una spalla. Potrebbe essere stato un gatto, anche se non sembra. «Pensavo ti avrebbe fatto piacere.»
Lui allunga la mano attraverso la finestra e le tocca il braccio. Fuori fa freddo, e Trixie ha la pelle d’oca. Per un attimo sembra incerta, ma appena sotto l’incertezza aleggia qualcos’altro: la paura. Nel corso degli anni Hoskins l’ha vista spesso, di solito nelle donne che vengono prese regolarmente a botte dai loro uomini.
«Scherzavo» le dice. «Sono uno stupido. Prendo quella con la marmellata di lamponi, se non ti dispiace.»
Il sorriso torna sulle labbra di Trixie, ma è più debole di prima. Hoskins vorrebbe chiederle di uscire, vorrebbe portarla fuori a cena e magari anche a letto, carezzarle la spina dorsale con un dito. Ma non è il momento giusto per chiederglielo; sembra non esserlo mai, ma specialmente non adesso, perché Trixie ha l’aria di avere appena incassato un uno-due al basso ventre che le ha sgonfiato i polmoni e l’ha fatta sbiancare in volto.
«Buona giornata» gli dice porgendogli la ciambella avvolta in un tovagliolino di carta. Quando si sporge fuori dalla finestra lui vede il tatuaggio che ha sul fianco, appena sopra l’elastico merlettato del tanga. Gli sembra che la scritta dica five-by-five, quella vecchia espressione che significa “tutto bene”, ma non ne è sicuro, le lettere sono confuse e sfocate, l’inchiostro si è scolorito ed è diventato violaceo.
«Grazie. Ci vediamo domattina?»
«Nah, è il mio giorno libero.»
«Okay.»
Torna a immettersi nel traffico, svolta a destra verso il centro. È ancora presto, il sole è appena sorto ma il suo cellulare ha già cominciato a suonare. Lo afferra dal portabicchiere in cui lo lascia di solito e controlla lo schermo. È Loren. Non risponde. Non lavorano più insieme, sono passati quasi due anni da quando hanno smesso, ma Loren lo chiama ancora spesso. Per fare due chiacchiere, dice, ma sono stronzate, perché quando mai gli è piaciuto chiacchierare? No, Loren gli telefona perché gode a ricordargli quello che aveva e che adesso non ha più. O forse chiama perché non ha più nessuno con cui fare coppia, nessuno con cui parlare. Da quando Hoskins l’ha mollato ha bruciato un collega dietro l’altro; nessuno è mai riuscito a lavorare con lui e questo non è cambiato, cosa che Hoskins trova curiosamente confortante.
E così Loren gli telefona a intervalli di qualche giorno per parlare dei suoi casi e di cosa sta succedendo. Le chiamate più recenti riguardavano le due donne ripescate un paio di settimane fa nel bacino idrico. Nessuno dei due corpi era stato zavorrato, l’assassino non ci aveva pensato o non l’aveva ritenuto importante, ma erano stati legati insieme con una corda avvolta intorno ai due colli, ragione per cui erano stati trovati in contemporanea.
«Le due vittime bazzicavano casa Seever prima del suo arresto» aveva detto Loren. «Non le ricordi? Lui diceva di averle pagate perché togliessero le erbacce in giardino e pulissero il vialetto.»
«No.» In realtà Hoskins le ricorda bene: le avevano interrogate dopo l’arresto di Seever, insieme a chiunque altro avesse avuto rapporti con lui: avevano appena finito il liceo, ed erano due mine vaganti. Al termine dell’interrogatorio, quando Hoskins si era alzato per accompagnarle fuori, gli si erano affiancate a mo’ di sandwich e gli avevano proposto di vedersi dopo il lavoro e andare a letto con lui. Una, l’altra o tutt’e due sarebbero potute finire sottoterra nel vespaio di Seever, ma l’idea non sembrava turbarle più di tanto; Hoskins le aveva ringraziate per le loro deposizioni e le aveva accompagnate fuori, ma era stata una faticaccia sforzarsi di non guardare i loro corpi in fiore e le loro boccucce increspate. Certo che se le ricordava.
«Non so di cosa parli.»
«Sì che lo sai. Sono state rapite, tenute in vita per tre giorni e poi fatte fuori, Paulie. Torturate e stuprate. Il bastardo ha mozzato loro le dita, proprio come faceva Seever.»
«Coincidenza» aveva detto Hoskins. Ma era fradicio di sudore, e tremava leggermente. Sentir parlare di Seever lo riduceva così, come un ragazzino nervoso. «Si sono trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Succede.»
«Una frase simile ti rende ufficialmente uno stronzo.»
«Non m’importa. Non voglio sentir parlare di Seever o di questa faccenda.»
«Ti manca. Lo so che ti manca.»
«No» aveva tagliato corto, ma era vero? Sì. A volte. «Lasciami in pace.»
Hoskins impiega dieci minuti ad arrivare in ufficio, nello stesso palazzo in cui lavora da ventidue anni. Dopo l’arresto di Seever aveva ottenuto un ufficio personale, con grandi finestre affacciate sul centro e una porta munita di serratura. Ci era rimasto quasi cinque anni prima che gli dicessero di fare i bagagli e andare al diavolo; dall’ottavo piano era stato trasferito al sotterraneo, in un ufficio pulito, asciutto e decoroso: è fortunato ad avere ancora un impiego e uno stipendio, ma è comunque finito sottoterra, giù dove nascondi le cose che non vuoi più vedere ma che vuoi conservare.
Tutti immaginavano che sarebbe stato Ralph Loren a uscire di testa, a farsi cacciare dal dipartimento per avere commesso un’idiozia, perché quello era il problema di Loren, era così che finiva sempre con lui. Girava voce che prima di arrivare al dipartimento di Denver, quando lavorava sotto copertura a Miami, o forse era Atlanta, si fosse incazzato con un grosso trafficante di droga al punto da ficcargli un bong nel culo con tale violenza da causargli un’emorragia interna, e che fosse per quel motivo che era finito in Colorado, trasferito al centro del paese per la sua stessa sopravvivenza.
Invece era stato Hoskins a finire sospeso senza paga per aver colpito una donna. No, non semplicemente colpita: l’aveva centrata con un pugno in bocca, quella stronza, e poi le aveva stortato il braccio dietro la schiena fino a farla squittire come una scrofa, e lei ne era uscita con un dente rotto, qualche costola ammaccata e una ciocca di capelli in meno sulla testa. Hoskins non era il tipo che picchiava le donne (non l’aveva mai fatto prima, e non aveva in programma di farlo di nuovo), ma in quel caso non era riuscito a non farlo, perché quella donna aveva ucciso la figlia di sei anni: l’aveva ridotta alla fame e poi le aveva sfondato il cranio di botte come un guscio d’uovo. Una cosa terribile, ma a renderla in qualche modo peggiore era il fatto che la donna non era strafatta di crack, non era né una prostituta drogata né una pazza; era soltanto cattiva, le piaceva veder soffrire sua figlia. Viveva in una bella casa con una monovolume parcheggiata nel vialetto e indossava i suoi bei cardigan, ma la figlia era stata trovata chiusa nell’armadio di camera sua, con le ginocchia piegate davanti al petto e gli occhi scavati chiusi come se dormisse, e la donna aveva avuto il coraggio di dire che era depressa, che il marito militare era stato trasferito oltreoceano, che aveva perso il controllo, che non si era resa conto di quello che stava facendo, che qualcuno avrebbe dovuto controllare come stava, che la scuola della bambina avrebbe dovuto accorgersi che qualcosa non andava, che avrebbero potuto prevenire quella tragedia. E Hoskins aveva perso il controllo di brutto, perché era stanco di tutte quelle scuse, era logorato dal suo lavoro, dalle cose terribili che vedeva e dalle persone terribili con cui aveva a che fare, ma era a Seever che pensava quando aveva colpito quella donna. Erano ormai passati anni dal caso Seever, ma Hoskins lo sognava ancora, si ritrovava ancora a rivivere le loro conversazioni, quasi sempre a due perché dopo che Loren lo aveva preso a pugni Seever si era rifiutato di aprire bocca in sua presenza. Voleva solo Hoskins, e una volta che cominciava a parlare, una volta che schiudeva le labbra e partiva era quasi impossibile fargliele richiudere. Seever gli aveva detto quasi tutto, tutto ciò che aveva fatto, e Hoskins vorrebbe poter dimenticare, passare un colpo di spugna sulla propria memoria, perché sapere di cosa può essere capace una persona è qualcosa che ti resta dentro, che ti cambia.
«Mi piaceva sentire le loro grida» gli aveva detto Seever.
Prima di Seever, Hoskins era un uomo diverso. Un uomo migliore. Ma Seever era riuscito a strappare via quella parte di lui con i denti. L’aveva masticata e sputata.
«Perché me l’hai lasciato fare?» aveva chiesto Hoskins a Loren dopo che la donna aveva preso un avvocato, aveva chiesto la sua testa per “uso eccessivo della forza” e i capi lo avevano discretamente rimosso dalla Squadra omicidi e trasferito al piano sotterraneo, al riparo da sguardi indiscreti. Era diventato un problema per il dipartimento; non poteva essere licenziato ma neanche lasciato al suo posto, e il trasferimento era stata l’alternativa migliore. «Non hai neanche cercato di impedirmelo.»
Loren si era stretto nelle spalle. Hoskins era venuto a sapere che era stato lui a insistere perché venisse trasferito e non cacciato, e che la cosa era stata approvata grazie al suo ascendente ai piani alti, al fatto che aveva in pugno i caporioni e che quando voleva qualcosa generalmente la otteneva.
«Ogni tanto ci si stufa di ingoiare merda» aveva risposto, e non aveva più aggiunto altro, ma Hoskins immaginava fosse il suo modo di dirgli che lo capiva.