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Nella mia vita sono stata rinchiusa in una cantina, nella cella frigorifera di un obitorio, nei condotti della rete fognaria… Esperienze spaventose e snervanti, ma quell’agonia le superava tutte in termini di dolore fisico.

La camera dei giurati del tribunale della contea di Mecklenburg era il meglio della sua categoria: wi-fi, postazioni di lavoro, tavoli da biliardo, film, popcorn. Pur avendo la possibilità di richiedere l’esonero, non l’avevo fatto: ah, il proverbiale senso civico della dottoressa Brennan! E poi, considerata la mia professione, ero abbastanza sicura che mi avrebbero dispensato, perciò, programmando la giornata, avevo messo in conto sessanta, novanta minuti al massimo da passare in tribunale a congelarmi i talloni.

Già, i talloni! Seguite il mio ragionamento. Per il lavoro che faccio, il top della calzatura è lo scarpone che respira in Gore-Tex, o al massimo lo stivale di gomma. Ho maggiori probabilità di trovare ossa di gigantosauro sul retro del Bad Daddy’s Burgers che di comprare – e tanto più indossare – scarpe con i tacchi alti.

Mia sorella Harry, però, mi aveva convinto a prendere un paio di Christian Louboutin tacco sette. Lei vive in Texas, terra di chiome bionde e décolleté a spillo. «Ti daranno un’aria professionale» aveva insistito. «Un aspetto autorevole. E poi sono scontate del sessanta per cento.»

Dovevo ammettere che la lucida pelle e le raffinate impunture erano favolose sul mio piede, ma… il comfort? Non altrettanto favoloso, dopo tre ore di attesa. Quando infine l’ufficiale giudiziario chiamò il nostro gruppo, entrai in aula e – alla menzione del mio numero – raggiunsi il banco della giuria, praticamente barcollando.

«Nome per esteso, prego» esordì Chelsea Jett, laureata in legge da sei minuti: tailleur da quattrocento dollari, costoso girocollo di perle multi-giri, tacchi che lasciavano i miei nella polvere. Pubblico ministero fresco di nomina, camuffava i nervi tesi con la severità dell’atteggiamento.

«Temperance Daessee Brennan» scandii. Renda le cose più facili per tutti e due. Mi rimandi subito a casa.

«Il suo indirizzo.»

Lo dichiarai. «È a Sharon Hall» aggiunsi, tanto per mostrare un minimo di spirito di collaborazione. Villa del Diciannovesimo secolo, mattone a vista, colonnato bianco, magnolie. La mia dimora era stata ricavata dall’edificio che un tempo era la rimessa delle carrozze: più Vecchio Sud di così non si poteva. Una considerazione che tenni per me.

«Da quanto risiede a Charlotte?»

«Fin dall’età di otto anni.»

«Qualcuno vive con lei al domicilio indicato?»

«Mia figlia, periodicamente, ma non al momento.» Avevo al polso il bracciale che Katy mi aveva regalato prima di partire: una delicata fascetta in argento con inciso: MAMMA SPAKKA!

«Stato civile?»

«Separata.» E con una relazione che è un casino. Tenni per me anche questo commento.

«Lavora?»

«Sì.»

«Nome del datore di lavoro, prego.»

«Lo Stato del North Carolina.» Meglio restare sul semplice.

«La sua professione è…?»

«Antropologa forense.»

«Qual è il titolo di studio richiesto per l’esercizio di tale professione?» Irrigidendosi un poco.

«Ho conseguito una laurea specialistica e l’abilitazione dell’American Board of Forensic Anthropology.»

«Quindi effettua autopsie.»

«Lei si confonde con il patologo forense. Un errore piuttosto comune.»

La Jett s’irrigidì ancora di più.

Le sorrisi. Lei non ricambiò.

«L’antropologo forense lavora con i cadaveri sui quali è impossibile condurre il normale esame autoptico: semplici scheletri o resti mummificati, decomposti, smembrati, combusti, mutilati. La nostra consulenza viene richiesta in merito a svariate problematiche risolvibili attraverso l’analisi delle ossa. Per esempio: i reperti ossei in questione sono umani o animali?»

«E ci vuole un esperto per appurarlo?» chiese scettica.

«Alcune ossa sono ingannevolmente simili nell’uomo e nell’animale.» Rividi con la mente i reperti mummificati che mi attendevano proprio quel giorno all’MCME, il Mecklenburg Country Medical Examiner. «I resti frammentari possono essere piuttosto difficili da valutare. Appartengono tutti a uno stesso individuo? A più d’uno? Ad animali? A uomini e animali insieme?» Non lo avrei scoperto finché fossi rimasta lì, con i piedi che mi si gonfiavano come cadaveri in acqua.

Un cenno impaziente della mano curata m’invitò a proseguire.

«Se i resti sono umani, vi ricerco indicatori di età, sesso, razza, altezza, malattia, deformità e anomalie varie: qualunque cosa possa rivelarsi utile all’identificazione. Analizzo eventuali traumi, per determinare la causa del decesso. Stimo il lasso di tempo intercorso dal momento della morte e ipotizzo il trattamento cui sia stato sottoposto il cadavere.»

La Jett inarcò un sopracciglio, interrogativa.

«Decapitazione, smembramento, seppellimento, immersione…»

«Okay, ha reso l’idea.»

Abbassò gli occhi sulle domande che si era annotata. Una lunga, lunghissima lista.

I miei trovarono l’orologio da polso, poi si spostarono sugli sventurati che ancora attendevano di essere interrogati. Mi ero vestita in modo da comunicare rispetto per l’istituzione e proiettare l’immagine che ci si attende da un rappresentante dell’ufficio del medico legale: tailleur pantaloni di lino beige, sottogiacca in seta a collo alto. Lo stesso non poteva dirsi dei miei compagni di prigionia. La mia preferenza andava alla signora in jeans, canottiera e sandali. Non proprio haute couture, ma avevo la netta sensazione che i suoi piedi se la passassero meglio dei miei. Cercai di sgranchire le dita nelle due morse che le attanagliavano. Invano.

La signorina Jett inspirò a fondo. Che cosa aveva in mente? Senza aspettare di scoprirlo, proseguii.

«In qualità di antropologa forense dello Stato, sono alle dipendenze della University of North Carolina, presso cui tengo un seminario di livello avanzato, dell’ufficio del capo medico legale di Chapel Hill e dell’ufficio del medico legale della contea di Mecklenburg. Collaboro altresì con il Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale di Montréal.» Tradotto: sono stracarica di lavoro; faccio da consulente a forze di polizia, FBI, esercito, coroner e medici legali: sa bene che, se non mi dispenserà lei, lo farà di certo la difesa.

«Mi sta dicendo che lavora con frequenza regolare in due Paesi diversi?»

«Non è strano come sembra. In gran parte delle giurisdizioni, l’antropologo forense è considerato un consulente specialistico. Come dicevo, i miei colleghi e io veniamo chiamati solo nei casi in cui non sussistono tessuti molli in quantità sufficiente a consentire l’autopsia, oppure se i resti…»

«Il concetto è chiaro.»

La Jett passò in rassegna con il dito l’infinito elenco sul suo blocco a fogli gialli.

Io stirai – tentai di stirare – le mie povere falangi.

«Nello svolgimento della sua attività per conto del capo medico legale entra in contatto con le forze dell’ordine?»

Finalmente! Grazie al cielo.

«Sì, spesso.»

«Con pubblici ministeri e avvocati della difesa?»

«Entrambi. E il mio ex marito è avvocato.» Quasi ex.

«Conosce personalmente qualcuno coinvolto in questa azione legale? L’imputato, la sua famiglia, gli investigatori di polizia, i legali, il giudice…»

«Sì.»

E con quella semplice risposta fui dispensata.

Ignorando le proteste delle mie estremità inferiori, sfrecciai zoppicando fuori dall’aula e oltrepassai le porte a vetri dell’ingresso. La mia Mazda era all’angolo opposto del parcheggio: giunta con dieci minuti di ritardo, quel mattino (l’orario di convocazione era alle otto), avevo posteggiato al volo nel primo spazio disponibile, benché lontanissimo dalla destinazione.

Attraversai la strada, con passo rapido ma malfermo, e, dopo aver aggirato una fila di veicoli, trovai la mia auto stretta da un SUV colossale sul lato guida, e ancor più inaccessibile dall’altra parte. Con le ghiandole sudoripare in piena attività, mi strizzai tra le due portiere e i retrovisori, tette e fondoschiena che ripulivano mio malgrado le fiancate tra cui mi trovavo compressa. Ora il mio bel tailleur di lino beige dava l’impressione che mi fossi rotolata in una discarica.

Mentre aprivo, appena di uno spiraglio, e m’infilavo al volante, qualcosa mi cadde ai piedi, tintinnando. Una persona di buon senso – una persona con calzature di buon senso, cioè – si sarebbe fermata per vedere quale componente meccanico dell’auto fosse finito a terra, ma io ero tutta concentrata sulla fuga.

Con i piedi in fiamme, infilai la chiave nel blocchetto d’avviamento e mi piegai per sfilarmi la scarpa destra, ma quello strumento di tortura mi aderiva al piede come se fosse incollato.

Tirai più forte.

Il piede mi esplose fuori dalla trappola. Con varie manovre e contorsioni, ripetei l’operazione a sinistra.

Mi appoggiai allo schienale e fissai un paio di spettacolari vesciche, poi le odiate Louboutin che avevo in mano.

La mia mano.

Il polso.

Il polso nudo.

Katy.

Un familiare senso di panico mi strinse il cuore.

Lo scacciai.

Concentrati. Il bracciale era ancora al suo posto nella camera dei giurati.

Quel tintinnio, salendo in auto. La fascetta d’argento doveva essersi impigliata da qualche parte durante le mie contorsioni a ridosso del SUV.

Uscii di nuovo, imprecando, stritolandomi tra i veicoli e sbattei la portiera.

Il cervello umano è una stazione di smistamento che opera a due livelli. Mentre un ordine riflesso arrivava alla mia mano, nel cervelletto stava già avvenendo una connessione neurale: prima ancora che la portiera fosse chiusa, seppi che ero fregata. Tentai inutilmente di riaprirla, quindi spostai lo sguardo da una sicura all’altra: tutte abbassate.

Imprecando in maniera ancor più colorita, allungai la mano per prendere la borsa. Che era rimasta sul sedile del passeggero.

Merda.

E la chiave? Inserita nel blocchetto d’avviamento.

Rimasi lì un momento, i piedi nudi coperti dai risvolti dei pantaloni, il tailleur striato di sporco, le ascelle sudate, e riflettei.

Poteva andare peggio quella giornata?

Dall’interno dell’auto mi giunse una voce attutita: Andy Grammer che cantava Keep your head up, annunciando una chiamata in arrivo sul mio iPhone. Mi venne quasi da ridere. Quasi.

Avevo detto al mio capo, Tim Larabee, che sarei stata al laboratorio prima di mezzogiorno. Dalla camera dei giurati avevo telefonato per aggiornare la previsione all’una. Ora il mio orologio segnava le due del pomeriggio. Larabee voleva certamente notizie dei resti mummificati che attendevano l’expertise.

O forse non era lui, al telefono.

Diavolo, e adesso? Non me la sarei sentita di ammettere con nessuno che ero chiusa fuori dall’auto a piedi nudi.

But you gotta keep your head up…

Certo.

Perlustrai il parcheggio con lo sguardo: pieno di veicoli, non un’anima viva.

Spaccare il finestrino? Con cosa? Frustrata, fissai rabbiosamente il vetro, scorgendovi dentro l’immagine di una tizia furente coi capelli scompigliati. Che genio!

L’occhio però mi cadde su un sottilissimo spiraglio tra il vetro e il telaio. Causa del meccanismo usurato dell’alzacristalli, aveva detto Jimmy, il meccanico. Pericoloso. Sufficiente perché un teppistello qualsiasi ci infilasse un fil di ferro e si ritrovasse in Georgia prima ancora che mi accorgessi del furto.

Sta scherzando?, avevo domandato io. Una Mazda vecchia di dieci anni?

È utile per i pezzi di ricambio, aveva risposto lui, in tono solenne.

Era troppo chiedere una gruccia? Scandagliai i rifiuti che si erano raccolti tra il parcheggio e il muro di mattoni: involucri di carta, ciottoli, lattine d’alluminio… Nulla che potessi infilare nell’auto.

Costeggiai il muro, poggiando cautamente i piedi a ogni passo. Anche se, ormai, le vesciche sembravano due porzioni di macinato, avanzai, con l’orlo dei pantaloni che spazzava l’asfalto.

Le ossa mummificate, in laboratorio, invecchiavano di minuto in minuto.

Considerato il ritardo che stavo accumulando, sarei arrivata all’MCME quasi a sera, poi a casa, da un gatto certamente risentito, dove avrei dovuto accontentarmi di ficcare nel microonde qualunque cosa fosse rimasta in freezer.

But you gotta keep your…

Chiudi il becco!

Poi colsi un luccichio tra i rifiuti, a un paio di metri da me. Speranzosa, mi fiondai in quella direzione.

La mia ricompensa fu un pezzo di fil di ferro di una sessantina di centimetri, forse già parte, a suo tempo, di un arnese di scasso fai-da-te simile a quello che avevo in mente.

Dopo una corsetta zoppicante fino alla Mazda, creai una piccola asola a un’estremità del filo metallico e lo infilai attraverso la fessura.

Usando entrambe le mani, il viso appiccicato al vetro, tentai di prendere al cappio la sicura dello sportello. Ogni volta che l’aggeggio mi sembrava ben posizionato, tiravo bruscamente verso l’alto.

Ero al milionesimo tentativo, quando una voce mi tuonò alle spalle.

«Si allontani dal veicolo.»

Merda.

Con il fil di ferro stretto in una mano, mi voltai.

Un addetto alla sicurezza del parcheggio era in piedi a circa tre metri da me a gambe divaricate. Lo sguardo era di nervosa eccitazione.

Gli feci quello che speravo fosse un sorriso disarmante. O per lo meno distensivo.

Lui non lo ricambiò.

«Si allontani dal veicolo.» Aveva i capelli biondi e il viso paonazzo, giusto di una tonalità più scuro delle mie vesciche. Gli davo al massimo diciotto anni.

Sorrisi di nuovo: «Mi sono chiusa fuori dall’auto».

«Ho bisogno di un suo documento e del libretto di circolazione.»

«La borsa è rimasta dentro. Le chiavi sono nel blocchetto d’avviamento.»

«Si allontani dal veicolo.»

«Se riuscissi ad alzare la sicura, potrei mostrarle…»

«Si allontani dal veicolo.» Il repertorio del biondo era piuttosto limitato.

Feci come ordinava, sempre stringendo il filo metallico tra le dita. Mi segnalò di scostarmi di più.

Alzando gli occhi al cielo, aumentai la distanza e lasciai la presa: il filo ricadde all’interno dell’abitacolo.

«Senta, l’auto è mia. Sono appena uscita dal tribunale. Il libretto di circolazione e i miei documenti sono dentro. Devo andare al lavoro. Nell’ufficio del medico legale.»

Se speravo che l’ultima frase producesse un qualche effetto, mi sbagliavo di grosso. La sua faccia diceva: donna in abiti sudici, a piedi nudi e con uno strumento di scasso in mano. Pericolosa?

«Chiami l’MCME!» lo esortai secca.

Un istante di silenzio, poi: «Aspetti qui».

Come se potessi scappare, senza macchina e senza scarpe!

Il biondo si allontanò in fretta.

Mi appoggiai alla Mazda, furibonda, spostando il peso da un piede martoriato all’altro, lanciando alternativamente occhiate all’orologio e al selciato, in cerca del mio bracciale. Poi cominciai a camminare nel parcheggio, perlustrandolo. Alla fine, sentii un motore.

Qualche secondo dopo, una Ford Taurus percorse la rampa.

Poco prima mi ero chiesta se la giornata sarebbe potuta andare peggio di così.

Be’, ora conoscevo la risposta.