V
I giorni, uno appresso all’altro, rotolavano a fondersi in quella oscura massa, in quel caos, da cui Giuseppe Vella evocava, con paziente studio e gagliarda fantasia, imani, emiri e califfi. Il tempo pareva soltanto scandito, nel mondo che don Giuseppe assiduamente ormai frequentava, dai colpi di testa del Caracciolo, dalle caracciolate: che in quel mondo, che così le denominava, trovavano frenetica eco di disprezzo e di rabbia.
Già il principe di Trabia aveva messo mano a penna, a nome della nobiltà tutta: «Tutto dì s’innalzano fervidi voti al Cielo per ispirare nel Cuore dei Sovrani una risoluzione, che sia corrispondente alla liberazione di una schiavitù più dura di quella del Popolo d’Israello in Babilonia. Non si rispettano le leggi e gli ordini del Re!… Tutto spira una legislazione più dura di quella del Divano. Da tutti si desidera scansare gli impieghi e si amerebbe la solitudine, se una certa meccanica disposizione di scambievoli affari non portasse seco la necessità di fermarsi in un paese, reso ormai il labirinto delle sciagure e della tetraggine più profonda…»
La lettera era diretta al marchese della Sambuca, ministro a Napoli: e il richiamo al Divano era fiorito in punta alla penna del principe dal gran parlare che si faceva del Consiglio di Sicilia che il Vella stava traducendo e di cui monsignor Airoldi dava primizie nei salotti. Timidamente affioravano anzi, nello specchio della moda, screziature da notti arabe: e il Vella, così chiuso e immalinconito come appariva, dava alle signore il senso che in qualche modo ne portasse il segreto, la misteriosa, erotica dimensione che a volte si concretava nel lampo di un ventaglio; di quei ventagli che, appunto ispirati a quelle favolose notti, aprivano immagini di inusitati accoppiamenti, di strenui piaceri: e finivano spesso, sequestrati come contrabbando, bruciati per mano del boia davanti allo Steri.
Così come i ventagli, dalla Francia veniva ogni moda: e felicemente si avvivava e trascorreva in una società che era, se mai, il labirinto della voluttà e dell’ozio e che unicamente trepidava per le vicende del biribissi e degli adulteri.
Certo, il Caracciolo di fastidi ne dava. Le dame non potevano più ornarsi della gigliata croce verde in campo paonazzo che distingueva i famigli dell’Inquisizione, e più non godevano della conseguente immunità: per cui a una gentildonna che si fosse lasciata andare a qualche capriccio, a qualche imprudenza, poteva capitare, come alla principessa di Serradifalco, di essere arrestata come una cassanota. E la tassa sulle carrozze, con i sequestri di quelle i cui proprietari si rifiutavano di pagarla: la marchesa di Geraci, il duca di Cesarò. E la cattura del duca di Sperlinga: per un omicidio commesso in chi sa quale disordine dei nervi. Senza dire delle nove cariche, accompagnate da pingui onorari, tolte ai nobili e affidate a funzionari; e delle cinque prelature, con cospicue rendite, tolte alla Chiesa.
A danno dei poveri preti, della Chiesa, le caracciolate venivano poi una appresso all’altra: il veto a riscuotere i fiori di stola nera, cioè l’obolo per i funerali; a far questua per messe e opere di carità; e questo e quello, non c’era giorno che non tirasse fuori una nuova angheria, che non cacciasse il suo volteriano naso nelle cose della religione.
E un vento di pietà per la religione vilipesa agitava i nobili che facevano conversazione nel loro circolo di piazza Marina, in un pomeriggio di fine giugno che il mare attenuava di leggera brezza. Ché si avvicinava la festa di Santa Rosalia, e il Caracciolo aveva deciso di fare economia, ridurre da cinque a tre i giorni di luminaria e di fuochi che la città tributava alla Santa.
Decisione così grave che nemmeno quei pochi, pochissimi nobili in qualche modo devoti al vicerè avevano il coraggio cli giustificare: se ne stavano perciò, il Regalmici, il Sorrentino, il Prades, il Castelnuovo, silenziosi in mezzo alla tempesta che infuriava.
Solo Francesco Paolo Di Blasi teneva un po’ testa: avvocato, paglietta anche lui; non del tutto a posto nei quarti gentilizi; con una rendita, sì e no, di mille onze. Già il barone Mortillaro, a nome del senato palermitano, aveva rivolto istanza a sua maestà contro la blasfema decisione del vicerè: e l’istanza era appoggiata, a corte, da una sua sorella sposata a un diplomatico spagnolo. Se ne attendeva l’esito dall’arrivo del postale: il disgusto del re, la mortificazione del Caracciolo.
“E sostiene i giansenisti!” tuonava il principe di Pietraperzia a coronale conclusione di una sua lunga invettiva.
“I giansenisti?” domandò, già inorridito prima di sapere che cosa esattamente fossero i giansenisti, il dilchino della Verdura.
“I giansenisti, appunto” confermò il principe.
“Credo che il duchino voglia sapere chi siano i giansenisti” intervenne il Di Blasi.
“Già” fece il duchino.
“Beh i giansenisti sono quelli che impastano la faccenda della Grazia a modo loro… Sant’Agostino… Insomma, tutta un’eresia… Ma voi” e si voltò inferocito al Di Blasi “che v’intrigate? Se il duchino vuol sapere chi sono i giansenisti, lo chieda al suo confessore: io in materia di fede un dito che è un dito non lo metto.”
“Avete detto con tale orrore che il vicerè protegge i giansenisti…”
“Sissignore, li protegge: ogni cosa che può mandare a sfascio la religione, lui la protegge.”
“E dunque voi sapete con certezza che il giansenismo può mandare a sfascio la religione…”
“Me l’hanno detto; e, se volete saperlo, me l’ha detto…”
“Il vostro confessore, naturalmente.”
“Il mio confessore: e di dottrina ne ha da buttarne ai cani.”
“Credete che i cani l’apprezzerebbero?”
“Voi avete il dono di portarmi sempre fuori del seminato: ed ecco che siamo arrivati ai cani… Qui si stava parlando della festa di Santa Rosalia, se non vi dispiace.”
“Non mi dispiace.”
“E dunque: la festa deve durare cinque giorni, e chi vuol fare economia la faccia a casa propria… E se si vogliono ristorare i danni del terremoto di Messina con il denaro dei palermitani, con i soldi sottratti alla festa, io dico: ognuno pensi ai casi suoi, e se Messina ha avuto un disastro se lo tenga e provveda da sé… I messinesi! Gente che ha tentato sempre di fottere Palermo…”
“Io so che il paglietta ha fatto qualche passo per trasferire la capitale da Palermo a Messina” disse il duca di Cesarò.
“Lo sentite?” urlò al Di Blasi, al Regalmici, a tutti gli amici del Caracciolo, il principe di Pietraperzia “E voi, palermitani, non vi sentite torcere le viscere?”
“Il vicerè non ha niente contro la città di Palermo” disse il Regalmici “ritiene soltanto che la concentrazione della nobiltà in questo luogo determini degli inciampi, delle remore, al lavoro di governo.”
“Come dire che ce l’ha con noi” disse il marchese di Villabianca.
“E non lo sapevate?” sorrise monsignor Airoldi.
Se ne stava seduto un po’ in disparte, con il Vella come al solito, accanto: avevano fatto il punto sul quotidiano lavoro del Consiglio di Sicilia; ora in silenzio consumavano una deliziosa granita di limone, don Giuseppe se la faceva scivolare in gola a grandi cucchiaiate, con visibile refrigerio.
Il marchese di Villabianca portò la sua sedia vicino ai due, con un sussurro confidò a monsignore “Sapete che stamattina il vicerè ha trovato sul suo tavolo da studio un biglietto su cui era scritto, a lettere grosse, «o festa o testa.»
“Davvero?” esultò monsignore.
“L’ho avuto in confidenza dal marchese Caldarera, che è della casa… Il vicerè, mi ha detto, era infuriato come un toro…”
“Il fatto è appunto questo: che vuole colpire noi, in ogni cosa, con ogni mezzo” diceva il principe di Trabia.
“Ma ha trovato pane per i suoi denti” adulò il barone Mortillaro, alludendo alla lettera del Trabia al ministro di Napoli.
“Eh non lo so, mio caro, non lo so” si schermì il Trabia; e con convinzione, con dolore “Io temo abbiano perso la testa anche a Napoli, il re non può certo contare su consiglieri di saggia levatura, di provata fedeltà… Se il progetto di un nuovo censlmento, di un nuovo catasto, che il marchese Caracciolo ha mandato, riuscirà a passare, ne vedremo di belle: pagheremo le tasse sui nostri feudi né più e né meno di come un qualsiasi borgese le paga sulla sua mezza salma…” riteneva fosse di stile, a provare la sua assoluta serenità, il chiamarlo con titolo e nome invece che il paglietta.
“E non vi sembra logico” disse il Di Blasi “e, più che logico, giusto, che chi ha mezza salma paghi per mezza salma e chi ha mille salme paghi per mille?”
“Logico, giusto?… Ma io dico che è mostruoso! I nostri diritti sono sacrosanti: giurati da tutti i re, da tutti i vicerè…
Voi che state occupandovi delle prammatiche dovreste saperlo… La libertà della Sicilia, santissimo Iddio!“ levò in alto le mani congiunte, a riconsacrarla.
“Lo so, infatti: e so delle usurpazioni, degli abusi… Ma, a parte quel che c’è da discutere sul privilegio, all’interno, per così dire, del privilegio stesso, resta da considerare il fatto che il privilegio in sé, cioè quella che voi chiamate la libertà della Sicilia, non si regge più: è una enorme usurpazione che ne contiene altre, infinite altre…”
Chi sa dove sarebbe andata a finire la discussione se la contessa di Regalpetra non si fosse staccata dal gruppo delle sue amiche, splendida nel suo abito di leggero taffetà a righe bianche e rosso ciliegia, il ventaglio a punto d’Inghilterra aperto sui seni quasi nudi, per chiamare il Di Blasi.
“Avevate un discorso importante? Scusatemi, io vi ho chiamato perché volevo dirvi subito, subito subito, che ho letto quel delizioso libriccino che gentilmente mi avete dato in prestito… Delizioso, sì, delizioso… Certo un po’ troppo, come dire?, ardito…” alzò il ventaglio a coprire con civetteria la luce maliziosa del sorriso, degli occhi “Ma voi come fate, ad avere tutti questi deliziosi libri? Tutti questi deliziosi, piccoli libri?”
“Ne ho anche di più voluminosi… Tutte le opere del signor Diderot, poiché Les bijoux indiscrets vi è tanto piaciuto, sono a vostra disposizione.”
“Ne avete altre? Davvero?… E scrive sempre di queste cose il signor…?”
“…Diderot. No, non sempre.”
“Oh Les bijoux indiscrets, che cosa straordinaria!… Io mi son messa a fantasticare, indovinate un po’…”
“A quel che succederebbe se i gioielli delle vostre amiche si mettessero a parlare.”
“E come avete fatto, a indovinare?… Mi son messa davvero in questa fantasia e con un gusto, vi assicuro…”
“E scommetto che avete pensato: se il gioiello di una certa signora avesse parlato davanti al futuro marito, la prima notte di nozze si sarebbe risparmiata di passarla all’addiaccio, nel balcone dove il deluso marito l’ha chiusa…”
“Perché non ci sarebbero state le nozze” disse la contessa ridendo fino alle lacrime; e poi, il bel petto ansante, il ventaglio agitato a raffreddare la rosea animazione del volto “Ma sapete che siete straordinario? Indovinate davvero i miei pensieri.”
“Mi piacerebbe indovinare tutto, di voi.”
“Provateci… Ma a migliore occasione” disse con tono contrariato poiché verso di loro si dirigeva la duchessa Leofantidonna di esasperante virtù.
La quale, salutando di un cenno del capo il Di Blasi, con rauca voce mascolina “Ma avete sentito la terribile novità? Quell’uomo se la prende ora anche coi santi: la nostra Rosalia, la nostra miracolosissima Rosalia… Ma non finisce bene, vedrete che il buon popolo di Palermo questa non la ingoia…”
Di Blasi si congedò con un mezzo inchino, si riaccostò al gruppo da cui si era distaccato: che era piuttosto fluido, intorno a monsignor Airoldi, al marchese di Villabianca e al Vella, che non avevano voglia di muoversi.
Ora si parlava di una benemerenza, di una piccola benemerenza, del Caracciolo nei riguardi della città di Palermo: l’istituzione, con le rendite della soppressa Inquisizione, di alcune cattedre nell’Accademia degli Studi; e altre aveva intenzione di istituirne, tra le quali una di arabo. Naturalmente, questa cattedra era destinata al fracappellano Vella: e monsignor Airoldi ne era contento, indubbiamente più contento dello stesso Vella, che non ad una cattedra tirava ma ad una doviziosa prelatura, ad una rendita ecclesiastica tra le più ricche e sicure che ci fossero nel Regno. Tuttavia gli sorrideva l’idea di allargare e complicare il suo giuoco, di muoversi su una più spericolata trama, mandando avanti una scuola, tutta una scuola, su una lingua araba fondata praticamente da lui, da lui creata. Così l’acrobata passa, sperimentato un ardito esercizio, ad altro più ardito, più difficile.