XV
Il barone Fisichella, che tra monsignor Airoldi e l’abate Vella faceva la spola, arrivò in casa dell’abate di prima mattina: a sorpresa, ché di solito compariva nel pomeriggio; e trafelato, sudato, confuso.
Disse subito che aveva brutte nuove, ma ce ne volle prima che arrivasse a dire chiaro e tondo “Vi arresteranno, prima di sera vi arresteranno.”
L’abate restò Impassibile.
“Monsignore è dispiaciuto, amareggiato… Proprio non se l’aspettava.”
“Io me l’aspettavo” disse l’abate.
“Ma santo cristiano, e non potevate difilarvi da qualche parte, nascondervi?”
“Non ho voglia di muovermi, sono stanco… E poi, chiamatemi pazzo, ma ho il desiderio di vedere dove si va a finire.”
“Ma questo posso dirlo io che ne sono fuori: vediamo come finisce quest’imbroglio, stiamo a vedere come se la cava l’abate Vella… Ma voi ci siete infilato così” portò la mano di taglio al disotto della bocca, ad indicare il livello d’acqua in cui l’abate stava per affogare.
L’abate scrollò di noncuranza le spalle.
“Non vi capisco” disse il barone “parola mia d’onore, non vi capisco.”
“Nemmeno io” disse l’abate.
“Ma, dico: il carcere… Non vi impressiona, non vi spaventa?”
“Mi mancava a provarlo.”
“A me manca di provare… Scusatemi, stavo per dirla grossa.. Beh sì, mi manca di provare… Voi mi capite… E che, mi faccio…?’’
“Quello che a voi manca di provare non appartiene all’uomo: ché capisco quello che volete dire… Ma il carcere sì, il carcere è dell’uomo; direi anzi che è nell’uomo.”
“Già già già” fece il barone: quasi un vocalizzo. E intanto pensava «Diamogliela buona, questo qui è pazzo spaccato.» Si alzò.
“Vi sembro pazzò?” domandò l’abate.
“Macché, ma nemmeno per sogno… E, sentitemi bene questo che sto dicendovi è l’ultimo avvertimento che monsignor Airoldi vi manda: tenete duro sul codice di San Martino, che non l’avete guastato, che l’avete tradotto per filo e per segno; e fate come volete per il Consiglio d’Egitto, che è falso o che non lo è, come volete… Ed anche se confessate che è falso, non vi mancherà modo di giustificarvi, di attenuare la vostra colpa: poiché in effetti il Consiglio d’Egitto è nato dal vento che tirava, a suffragio di quel che il Caracciolo e il Simonetti tentavano di fondare; addirittura per loro suggestione, velata o diretta, come vi pare… Tenetevi su queste posizioni, insomma, e monsignore non mancherà di aiutarvi.”
“Vedremo” disse l’abate.
“Sapete come si dice? Aiutati che Dio t’aiuta: e, in questo caso, aiutandovi metterete monsignore in condizione di aiutarvi.”
“Vedremo” disse ancora l’abate.
Si salutarono. L’abate restò in cima alle scale mentre il barone scendeva, prima di arrivare al portone il barone si voltò per l’ultimo saluto.
“Scusatemi” disse l’abate “ho dimenticato di domandarvi dell’avvocato Di Blasi: ci sono novità?”
“Niente: solo che è cotto.”
“Cotto?”
“Non ha voluto parlare: gli hanno dato il fuoco, voi capite…”
“E ha parlato?”
“No. Ma ormai hanno tutti gli elementi, il processo comincia domani… Ci sarà una sentenza a cuoio di mulo, un esempio da ricordarsene” portandosi la mano alla gola diede immagine dell’esempio, della forca.
“E una cosa che si sa già?”
“Ma certo” disse il barone. Fece un saluto con la mano e uscì dal portone.
L’abate tornò a sedere davanti alla finestra. Se ne stava così per ore ed ore, come un paralitico.
La ferocia delle leggi, l’esistenza della tortura, le atroci esecuzioni di giustizia, di cui una volta era stato persino spettatore, non avevano mai turbato i suoi sentimenti: li metteva in conto di eventi naturali o, a pensarci bene, li considerava come opera di correzione della natura non dissimile, e altrettanto necessaria, della potatura delle viti e della rimonda degli ulivi.
Sapeva che c’era un libro, di un certo Beccaria, contro la tortura, contro la pena di morte: lo sapeva perché monsignor Lopez, proprio in quei giorni, ne aveva ordinato il sequestro. E conosceva le idee di Di Blasi in proposito. Ma ci sono tante belle idee che corrono per il mondo; solo che il verso delle cose è un altro, violento e disperato.
Ora però, a figurarsi una persona che conosceva, un uomo per il quale aveva stima ed affetto, straziato dalla tortura e destinato alla forca, sentiva improvvisamente l’infamia di vivere dentro un mondo in cui la tortura e la forca appartenevano alla legge, alla giustizia: lo sentiva come un malessere fisico, come un urto di vomito.
«Mi piacerebbe leggere il libro di Beccaria, monsignor Airoldi ce l’ha di sicuro… Ma ormai stanno per arrestarmi: forse non mi sarà nemmeno concesso di leggere libri non condannati… E chi sa se mi porteranno alla Vicarìa o a Castellammare, ho dimenticato di domandarlo al barone; ma forse a Castellammare, monsignor Airoldi avrà messo la buona parola.»
Il carcere davvero non gli faceva paura, era caduto in uno stato di assoluta indifferenza riguardo alle comodità e ai piaceri dell’esistenza: più forte era il gusto di offrire al mondo la rivelazione dell’impostura, della fantasia di cui nel Consiglio di Sicilia e nel Consiglio d’Egitto aveva dato luminosa prova.
In lui, insomma, il letterato si era impennato, aveva preso la mano all’impostore: come uno di quei cavalli di Malta, neri, lucidi, inquieti, lo trascinava nella polvere, il piede attaccato alla staffa. E poi, ormai si era abituato a stare in compagnia dei propri pensieri. Inseguiva i fatti della vita, il passato e il presente, a cavarne sentimenti e significati come un tempo dai sogni degli altri estraeva i numeri del lotto.
«La vita è davvero un sogno: l’uomo vuole averne coscienza e non fa che inventare cabale; ogni tempo la sua cabala, ogni uomo la sua… E facciamo costellazioni di numeri, del sogno che è la vita: per la ruota di Dio o per la ruota della ragione… E, tutto sommato, è più facile finisca col venir fuori una cinquina sulla ruota della ragione che su quella di Dio: il sogno di una cinquina dentro il sogno della vita…»
Il vecchio mestiere di numerista rionale gli dava parole ad esprimere, almeno approssimativamente, la sua cabala; una cabala appena baluginante, che sfuggiva e si spegneva nella superstizione.
E c’erano i ricordi. Dentro il sogno del presente sognava ora il passato. Vedeva Malta sul taglio dell’orizzonte marino, nella dorata nebbia del ricordo. Ed ecco che gli balzava nell’occhio come nel fuoco di un cannocchiale, nel cuore: i campanili aguzzi come minareti, le basse case bianche, le altane. Dai bastioni della città vecchia ecco che spaziava sulla distesa dei campi tra Siggeui e Zebbug: quasi gialle le messi del grano maiorchino, di intenso verde la tuminìa ancora in erba; e il rosso allegro della sulla fiorita, il bianco reticolo dei muretti a secco.
«Issa yibda l-gisemin.» Cominciavano i gelsomini; ne odoravano le terrazze, le strade. I vecchi se la godevano, seduti nei comodi sofà di giunco, a fumare la pipa, a stabaccare; le donne filavano il cotone, ne facevano leggero tessuto nei piccoli telai; qualche giovane ozioso cavava dalla chitarra accordi, accennava motivi che restavano sospesi e vibratili nell’aria assorta. Poi, nella sera, le chitarre si accendevano come grilli, mentre dal porto giungeva il canto dei marinai siciliani, greci, catalani, genovesi: essenza della lontananza, della nosralgia. Di quei marinai che nei loro racconti di ubriachi aprivano il mondo come un ventaglio: e gli avevano rivelato la vasta e varia avventura che i luoghi offrono all’uomo anche il più miserabile, e che nello svariare dei luoghi è per il miserabile l’unica possibilità di cogliere le gioie della vita.
E capitandogli a volte di sorprenderli, nei recessi della marina, in oscuri amplessi con le veneri del luogo, veneri sformate e grevi come quelle preistoriche che da Malta avrebbero poi avuto nome, quei marinai gli avevano rivelato la donna: nausea ed ebbrezza da cui era sorta la sua ardente curiosità en voyeur nei riguardi dei fatti erotici. In effetti, aveva cominciato dalla donna a falsificare il mondo: traendo da quel che di lei vedeva, intravedeva, indovinava gli elementi d’avvio a un fantasticare inesauribile e, con gli anni, perfetto. E attraverso la donna, attraverso la fantasia che aveva della donna, decisamente era pervenuto a quella fantasia del mondo arabo cui il dialetto è le abitudini della sua terra, il suo sangue oscuramente, lo chiamavano.
«Solo le cose della fantasia sono belle, ed è fantasia anche il ricordo… Malta non è che una terra povera e amara, la gente barbara come quando vi approdò San Paolo… Solo che, nel mare, consente alla fantasia di affacciarsi alla favola del mondo musulmano e a quella del mondo cristiano: come io ho fatto, come io ho saputo fare… Altri direbbe alla storia: io dico alla favola…»