XIII
La notizia dell’arresto del Di Blasi l’abate Vella l’ebbe da sua nipote.
Mentre lavava le stoviglie in cucina o rassettava le poche cose che c’erano da rassettare, la donna usava fargli la cronaca degli avvenimenti cittadini: ma di solito l’abate, distratto in altri pensieri, non la sentiva; solo di tanto in tanto coglieva in quel monologo interminabile una frase, un nome; e, se gli suscitava curiosità, faceva qualche domanda. Così quel giorno.
“…E a capo della banda c’era un avvocato, don Francesco Paolo Di Blasi” colse l’abate: come chi, camminando, muove col piede una moneta, un lucido frantume.
“Che banda? E come c’entra l’avvocato Di Blasi?”
“Si è messo a capo di una congrega di gente che non conosce né Dio né santi: e avevano intenzione di rubare gli argenti delle chiese, proprio oggi che ci sono i Sepolcri parati… Ma li hanno arrestati.”
“L’avvocato Di Blasi? Non può essere. Chi ti ha raccontato questa scempiaggine?”
“Tutta Palermo ne parla, ed è verità di vangelo. E Nino, che vossignoria sa che delle cose che succedono può fare il giornale, mi ha detto che l’avvocato è stato chiuso a Castellammare: e ha già avuto i tratti di corda.”
Nino era il marito; e come l’abate gli manteneva la famiglia, esclusivamente si dedicava a schiumare notizie tra cocchieri, guardaportoni e sagrestani, nell’assidua frequentazione di luoghi di meretricio e taverne.
“Non può essere, non può essere… E Nino, tu lo conosci meglio di me, è capace di scambiare vesciche per lanterne: specialmente se ha in corpo i suoi quartucci di vino.”
“Ma lo dicono tutti.”
“E raccontami per filo e per’segno tutto quello che hai sentito.”
A suo modo, la nipote fece il racconto degli avvenimenti; a suo modo e a modo di monsignor Lopez. L’abate non si convinse, pur ammettendo che qualcosa di vero ci doveva essere.
Sul tardi, dal messaggero di monsignor Airoldi ottenne un racconto più coerente nella forma ma ugualmente inattendibile nel giudizio. Ma poiché di certo c’era che l’avvocato Di Blasi era stato arrestato, il dispiacere che ne provò l’abate sentì di dover esprimere, come segno di solidarietà, di amicizia, ai familiari.
Per la prima volta nella sua vita effettivamente sentiva di partecipare ad una pena altrui. Una debolezza, un cedimento: ma nel caso particolare non se ne rammaricava, anche se a se stesso faceva avvertimento a tenersi alla larga, per l’avvenire, da rapporti che implicassero sentimenti simili.
«Ma non c’è pericolo» si disse «ormai sei solo come un cane»: senza però farsene un dramma, con fierezza anzi dominando il paesaggio della propria solitudine.
Contrattò una carrozza e si fece portare al monastero di San Martino. Era una sera di mutevole luce, le livide nuvole a tratti squarciandosi del crudo sole al tramonto. Gli alberi ne abbrividivano; e così l’abate, superstiziosamente pensando «Tempo di settimana santa» e a un tale tempo collegando il precipitare di dolorosi eventi, di sciagure.
Quando in portineria chiese dei fratelli Di Blasi, di padre Giovanni e di padre Salvatore, ci fu tra i conversi uno scambiarsi di occhiate, un bisbigliare: e dopo molti se e molti forse, uno si decise ad andar su per vedere se… E tornò dopo un bel pezzo, a dire all’abate che padre Salvatore, solo padre Salvatore, lo aspettava in biblioteca: ché padre Giovanni, poveretto, proprio non si sentiva.
«Ahi ahi, la biblioteca» pensò l’abate; e rivide la scena da cui aveva avuto capo l’imbroglio: l’ambasciatore del Marocco chino sul codice, monsignor Airoldi che aspettava ansioso il responso. «Chi sa se padre Salvatore non lo fa apposta, a ricevermi in biblioteca: il luogo del delitto… Ma avrà ben altre cose per la testa.»
Padre Salvatore stava lavorando. Si alzò e gli venne incontro. Senza parlare si strinsero la mano, poi il monaco gli fece segno di sedere, sedette anche lui.
“Forse vi sto disturbando” disse l’abate “ma non ho potuto fare a meno, appena sentita la notizia, di venire da voi: perché io per vostro nipote…”
“Lo so, lo so” disse padre Salvatore: e all’abate parve di avvertire una vibrazione di insofferenza.
“Un uomo d’intelligenza e di cuore che ce ne sono pochi. E non credo assolutamente a quel che vanno buccinando per la città: il saccheggio alle chiese, l’argento dei Sepolcri… Dicerie malvagie, di gente che non conosceva vostro nipote o che è interessata a spargerle comunque.”
“Avete ragione: non credo si sarebbe mai abbassato a tanto, benché, voi capite, nella banda ci poteva anch’essere gente di diverso avviso; ma lui no, non credo… Ma il fatto è, vedete, che aveva peggior disegno: voleva sovvertire l’ordine, proclamare la repubblica… La repubblica, Gesù mio, la repubblica!”
“Ma…”
“Ora ne avete orrore, non avreste mai creduto potesse concepire un così mostruoso disegno… E io vi capisco, direi che vi approvo se il sangue che mi lega a lui, la memoria del mio povero fratello…” tirò fuori un fazzoletto ad asciugarsi gli occhi “Eh Sì, siete anche voi in diritto di averne orrore anche voi.”
«Questa è la prima botta» pensò l’abate; e “Ma no: non mi sento in diritto di giudicarlo, e tanto meno di averne orrore… Vi dico, anzi, che se poco fa ero meravigliato ed incredulo, ora ci vedo chiaro: non credevo vostro nipote capace di tramare il saccheggio delle chiese, ma se mi dite che stava preparando una rivoluzione…”
“Non vi meraviglia?”
“No.”
“Capisco… In fondo è proprio così: i familiari sono gli ultimi ad accorgersi della pazzia di un congiunto, specie se è una pazzia che cresce lentamente; così come, vivendo sempre assieme, ciascuno non nota nelle facce degli altri l’incalzare della vecchiaia… Pareva da senno: e invece era pazzo, pazzo…”
“Mi avete frainteso: io voglio dire che la repubblica era la sua idea; e dunque non mi meraviglio che abbia tentato di realizzarla.”
“Ah” fece il monaco stringendo gli occhi: a scrutare la faccia, peraltro impassibile, dell’abate.
“Se mai” continuò dopo un lungo silenzio l’abate “si può discutere, visto com’è andata a finire, se il momento era opportuno, la forza sufficiente, la prudenza di giusta misura: se, insomma, per ll tempo e le circostanze, non era, nel comune significato della parola, una pazzia. Ma da questo, a dire che vostro nipote è pazzo, ci corre.”
“Ah… Siete anche voi, per caso, delle sue stesse idee? La rivoluzione, la repubblica…”
“Per me repubblica e regno sono lo stesso brodo, la stessa soperchieria. Che ci siano re, consoli, dittatori o come diavolo si chiamino, me ne importa quanto del corso degli astri, e forse meno… Per la rivoluzione, ve lo confesso, ho invece un sentimento diverso: quel levati tu che mi ci metto io, che ci posso fare?, mi piace… I potenti che vanno ad intanarsi e i miseri che fanno trionfo…”
“…Le teste che cadono” aggiunse ironicamente il benedertino.
“Beh, qualcuna…” disse l’abare senza scomporsi: e si sentiva come un ragazzo lanciato a far dispetto “Qualcuna: e del resto a che serve una testa che non ragiona?”
“E dunque non è vero che siete del tutto indifferente alla forma dello Stato, ai modi e alle persone del governo. Se fate distinzione, una distinzione propriamente a filo di ghigliottina, tra le teste che ragionano e quelle che non ragionano, è chiaro che preferireste essere governato da quelle che ragionano, da quelle che secondo voi ragionano: previa caduta, immagino, di quelle che non ragionano” e la voce di padre Salvatore traboccava ora indignazione.
“Già” disse l’abate “forse avete ragione… Il fatto è che non ho mai pensato a queste cose… Eh sì, avete proprio ragione.”
Il benedettino ebbe un pensiero che, per la forma, nella preghiera della sera dovette fare espressa richiesta a Dio di perdonarglielo.
«Questo qui vuol prendermi per il culo» pensò: ma sbagliava, l’abate era davvero caduto in stupore, a scoprirsi interessato a cose che aveva sempre considerato lontane e addirittura repugnanti. Stupore in cui, per la verità, più di una volta gli era capitato, specialmente negli ultimi tempi, di abbattersi: attraverso i discorsi altrui o nella solitudine rampollante di pensieri.
E un ricordo d’infanzia gli era diventato parabola, a spiegare quel che gli accadeva: di quando, bambino, aveva preso a frequentare il catechismo, ed erano tanti bambini fitti come passeri sùlle panche dell’oratorio; e dopo una settimana, passandogli a pettine fitto la testa che cominciava ad accendersi di prurigine, sua madre gli aveva scoperto i pidocchi.
La constatazione di sua madre, una donna cui la miseria non impediva un culto persino esagerato per la pulizia (e in verità l’abate non aveva preso molto da lei), se la risentiva nelle orecchie, nella coscienza “Ti hanno immischiato i pidocchi” come ammonimento ed accusa.
I pidocchi del catechismo. Ed ora i pidocchi della ragione.
Ma subito scacciò, come ogni volta, l’immagine, il ricordo, la parabola: un peccato contro il catechismo; e, ora, un peccato contro l’amicizia.
Si era distratto. Ritrovò su di sé, inquisitorio, cattivo, lo sguardo del benedettino. Si sentì intimidito, confuso.
Disse “E proprio così: uno a certe cose non ci pensa, e poi di colpo se le trova davanti.”
“Avevate per le mani tutt’altre faccende” disse, acre, padre Salvatore.
Il fanciullesco gusto del dispetto di nuovo insorse nell’abate “Già: tutto quel benedetto lavoro di falsificazione dei codici…”
“E me lo dite così?”
“E come volete che ve lo dica? E la verità.”
“Ma sapete che, per quanto pazzo, mio nipote c’è arrivato per primo a sospettare del vostro imbroglio?”
“Davvero? E quando?”
“La sera in cui voi avete annientato Hager, proprio quella sera.”
“Mi fa piacere” disse l’abate “mi fa piacere davvero.”