Crudeli destini e liberi amori
sognando il sol dell’avvenire
Nel giugno del 1902 un gruppo di italiani residenti a Paterson scriveva ai giornali firmandosi «cittadini onesti» per lamentare, «dacché Umberto I fu vittima di un attentato anarchico per mano di un suddito italiano che ebbe per qualche tempo residenza qui», di essere rimasti «per più di un anno muti ascoltatori di esagerate e ingiuste accuse fatte alla colonia intera, inchinandosi allo sfogo del dolore nazionale. Non è tempo ormai che le malignità e le calunnie contro di noi finiscano?» si domandavano, invitando la stampa a «porre l’argine della verità e la verità è questa: gli italiani di Paterson vivono di onesto lavoro e sono degni di rispetto se non forse di ammirazione».
Il clima di sospetto sulla numerosa comunità anarchica là residente non si era ancora diradato, ma fra le continue visite della polizia ai circoli e ai luoghi di ritrovo, Ersilia Cavedagni ed Ernestina Cravello erano nel frattempo diventate amiche. Di quella ragazza piccola e bionda che anagraficamente sarebbe potuta essere sua figlia, Ersilia amava la spontaneità e la passione che sapeva mettere in tutte le cose, perciò aveva deciso di coinvolgerla in un vecchio progetto che le girava in testa: dare vita a un giornale capace di fare propaganda anarchica tra le donne. «La Cravello dimora con il fratello Vittorio, mentre la Cavedagni, amante del noto Ciancabilla, è da ritenersi anarchica pericolosissima», scriveva l’11 settembre del 1903 il regio consolato italiano di New York, segnalando inoltre il ritorno a Paterson di Emma Quazza, che la Corte d’Appello di Milano aveva assolto per insufficienza di prove dall’accusa di complicità nel regicidio: «È stata ricevuta quasi in trionfo da alcuni anarchici, al punto che anche i giornali americani parlarono di lei. Dice di non essere anarchica e di avere preso in odio il Bresci da quando seppe del misfatto da lui compiuto, da allora però è rimasta in relazione con gli anarchici di Paterson e deve ritenersi che divida adesso le idee politiche di costoro o simpatizzi con essi perché si è prestata ad aiutarli nella loro propaganda sovversiva prendendo parte a spettacoli anarchici quali la recita del dramma Senza patria di Pietro Gori e altri consimili».
Il giornale tanto sognato da Ersilia non vedrà mai luce per mancanza di fondi. E lei si rimetterà di nuovo in viaggio, destinazione San Francisco, assieme al suo inseparabile compagno, arrivato ai ferri corti con Malatesta per la direzione de La Questione Sociale. Pare che tra i due, oltre a tante parole, fosse scappato persino un proiettile che aveva ferito Malatesta di striscio a una gamba. In California Ciancabilla ci arriva con un giornale appena fondato, L’Aurora. È il suo nuovo strumento di propaganda, il megafono dal quale invocare e applaudire l’atto individuale contro i simboli del potere. Ma il destino mette fine a ogni cosa. Il 16 settembre 1904 muore di tisi, a soli trentadue anni, in un ospedale. I primi sintomi della malattia, una tosse insistente e qualche traccia di sangue sul fazzoletto, si erano manifestati tre anni prima, dopo l’arresto a Springvalley, nel Minnesota, dov’era scappato per non ritrovarsi coinvolto nella repressione seguita all’assassinio del presidente degli Stati Uniti William McKinley, avvenuto a Buffalo il 6 settembre 1901, durante l’inaugurazione della fiera espositiva panamericana, per mano di un anarchico di origine polacca, Leon Czolgosz, deciso a vendicare con due colpi di revolver Gaetano Bresci, che il 22 maggio era stato trovato impiccato nella sua cella, ufficialmente suicida. In un pacco di carta che secondo alcuni testimoni lo stesso Czolgosz aveva gettato in una fogna poco prima di entrare in azione, i poliziotti avevano trovato quello che definirono il vademecum del perfetto anarchico: «Un atto non dovrebbe mai essere soggetto di discorsi ma dovrebbe essere eseguito in silenzio. Bisogna evitare la compagnia di tutte le persone sospette e ricordare che chi non è con noi è contro di noi. Dopo progettato un atto, non si facciano nuovi amici. In caso di arresto la compostezza è essenziale e un tentativo di resistenza non deve essere fatto che quando offre possibilità di riuscita», c’era scritto. Emma Goldman, che aveva conosciuto Czolgosz a Cleveland e che dopo l’attentato era stata arrestata per complicità, ma subito scagionata, si era impegnata in tutti i modi per cercare di evitargli la condanna a morte: «Leon Czolgosz, ed altri uomini del suo tipo, lontani dall’essere creature depravate e dai bassi istinti, sono in realtà esseri supersensibili incapaci di resistere alle grandi pressioni sociali. Ciò porta loro a reagire in forme violente, anche sacrificando la propria vita, perché non possono essere testimoni pacifici della miseria e della sofferenza degli esseri umani. Per tali atti si devono incolpare i responsabili delle ingiustizie».[1] Ma al termine di un brevissimo processo durato appena qualche ora, la sedia elettrica era entrata in funzione nel penitenziario di Aubun il 9 novembre 1901.
Durante tutto il loro periodo americano, Ersilia Cavedagni e Giuseppe Ciancabilla non avevano smesso di inviare soldi agli anarchici d’Italia. «Alla Posta andavano accumulandosi sempre più i denari che per opera specialmente di Ciancabilla e di Ersilia Cavedagni, generosamente affluivano a noi, a sostegno della nostra battaglia, a incoraggiamento della nostra resistenza, a conforto dei nostri sacrifici», dirà qualche anno dopo Nella Giacomelli, che da Ciancabilla riceveva anche parole appassionate: «Niuno lo sa ch’io t’ami, eppur vorrei gridare al mondo questa voce che tumultua nel cuor tremendamente. Ma niuno intender la potrebbe. Sei così lontana tu, così lontana! Neppur l’anima tua forse mi sente», si legge in una lettera spedita da Chicago il 3 gennaio 1903. Nella in quel principio di secolo si presentava come una signora elegante dall’aria un po’ snob: «Sono timida e mi sento a disagio tra la gente. Per questo ho preso questa maschera altezzosa e arcigna che mi rende tutt’altro che simpatica», scrive di sé nel suo diario. Una nota della prefettura di Lodi la descrive come «una donna di media statura, con i capelli castani, gli occhi cerulei, di abbigliamento decente e con sul viso segni di vaiolo». Alle spalle ha una adolescenza complicata, un padre morto suicida e un rapporto conflittuale con la madre: «La odio, mi fa schifo, non la sopporto, non l’ho mai amata. Una persona grigia che ha sempre pensato solo ai soldi, crudele al punto da bruciarmi tutti i giornali socialisti che portavo a casa», si sfoga nei suoi appunti di ragazza. Non andavano molto meglio i rapporti con la sorella Fede: «Lei sentiva per la mamma una tenerezza profonda, ne era succube e che bel gioco per la mamma avere sottomano un così morbido materasso su cui sfogare le sue ire». Andarsene non appena maggiorenne le era sembrato inevitabile: «Feci il mio baule e mi preparai a partire dopo l’ennesima discussione. Cominciò ad insultarmi: non ho fatto nulla per te? Non ho sacrificato la mia vita? Meglio era se ti avessi cresciuta ignorante e messa a fare la sguattera! Mi strappò la borsa di mano e alzò il braccio nel gesto di colpirmi con essa. Feci un balzo, le afferrai le mani, tremavo di collera», ricorderà di quel giorno.
A Milano arrivava con in borsa il libro sulla città che il giornalista socialista Paolo Valera aveva scritto una ventina d’anni prima: «Vi condurremo nei luoghi più orridi e spaventevoli, lasceremo dietro le nostre spalle i sontuosi palazzi e le vie superbe ove affluiscono il fasto e l’opulenza per addentrarci in quelle viuzze ove rigurgita la torma dei pezzenti cui la società incivilita non ha voluto e non vuole accettare nel proprio grembo. Seguiremo questi centomila infortunati, questi martiri di ogni ingiustizia sociale, là ove riposano, là ove trafficano, là ove mangiano, là ove digiunano, là ove amoreggiano».[2] Ma non sarà questa la Milano che Nella incontrerà. Entrerà in un bel palazzo di piazzale Oberdan come istitutrice dei sei figli di Ettore Molinari, uno stimato professore di chimica nato a Cremona, laureatosi al Politecnico di Zurigo e fresco di cattedra alla Bocconi. Si era specializzato in acidi grassi, raion ed esplosivi, era stato per qualche anno direttore chimico del Lanificio Rossi di Schio e aveva da poco dato alle stampe un Trattato di chimica generale ed applicata all’industria che pareva godere di un discreto successo, vista la richiesta di traduzioni in inglese, francese, tedesco e spagnolo. Politicamente, era stato socialista a tal punto da volerlo rimarcare nel giorno del suo matrimonio: «Ettore Molinari ed Elena Delgrossi, quali uomini e quindi esseri socievoli, quali socialisti e quindi ribelli ai pregiudizi sociali, si uniscono in matrimonio per combinare le loro attività e convergerle al raggiungimento di un ideale umanitario, il socialismo, essendo esso la vera sintesi morale e materiale della vita umana», si legge nelle partecipazioni. Poi, durante un soggiorno a Londra, l’incontro con Kropotkin e Malatesta che lo convinceranno a preferire l’anarchia e a dare alle stampe un opuscolo, Guerra all’oppressore, nel quale fornisce istruzioni pratiche sulla fabbricazione di esplosivi.
Nella si trovò di fronte un uomo non ancora quarantenne, alto, dalla barba folta, gli occhialini tondi e d’oro, che pretendeva per i suoi figli, quattro maschi e due femmine il più grande dei quali aveva dieci anni, una educazione che fosse rigorosa, ma nel contempo ricca di principi libertari. Lei aveva deciso di essere refrattaria all’amore: «Diffidavo degli uomini, non avevo più curiosità per la vita troppo triste e ingiusta. Mi interessava spendere tutta la mia forza d’animo e l’intelletto nella propaganda per le idee socialiste». Profondamente delusa da una relazione da poco conclusa con Oberdan Gigli, un ragioniere ventenne «dalle passioni malsane», «Bambino! Tu non mi scrivi più, tu mi hai abbandonata. Io l’ho sentito la sera in cui ti lasciai, ed è per questo che le mie mani non si volevano staccare da te», gli aveva scritto disperata nel gennaio del 1903 prima di tentare il suicidio. Invece di quell’uomo nuovo che entrava nella sua vita finì presto con l’innamorarsi: «Sto per diventare la donna di un uomo che ha moglie e figli» confesserà proprio a Oberdan Gigli. Un amore naturalmente libero: «Perché sono contraria all’indissolubilità e alle costrizioni dell’amore obbligatorio, autoritario e legalizzato». Era il 1904, Milano sembrava bruciare. Ogni giorno scioperi sempre più massicci e violenti bloccavano la città. Il 10 maggio, durante uno sciopero generale che i socialisti avrebbero voluto di ventiquattr’ore ore e gli anarchici a oltranza, un anarchico di nome Angelo Galli era stato ucciso a coltellate dal custode dello stabilimento Macchi e Passoni in via Carlo Farini perché aveva cercato di entrare per controllare che non ci fossero operai al lavoro; un altro suo compagno, Luigi Gerosa, era rimasto gravemente ferito. Non erano solo rivendicazioni economiche delle prime neonate organizzazioni sindacali, ma protesta politica: «Milano operaia offriva un aspetto indimenticabile. Servizi pubblici, stampe, officine, commercio, dappertutto il lavoro era sospeso. Alla stampa di tutte le gradazioni, compresa quella democratica, era posto il bavaglio, unico mezzo per impedirle di mentire almeno per qualche giorno», ricorderà Arturo Labriola nel suo Storia di dieci anni. Nella Giacomelli ed Ettore Molinari si ritrovarono a essere fra i protagonisti dell’anarchismo milanese: «Agitarsi ed agitare in tutti i modi ed in tutti i luoghi, nelle strade come nel comizio, nell’osteria come nell’officina, in caserma come nelle camere del lavoro, ovunque vi siano degli esseri che hanno un cervello per pensare», scrivevano usando gli pseudonimi di Ireos, Petit Jardin o Epifane sul Grido della Folla o La Protesta Umana, giornali che avevano contribuito a fondare. E sempre privilegiando la scelta individualista: «Tutti gli atti individuali che paralizzano l’opera dello Stato devono essere incoraggiati. Tutti i danni che si possono arrecare alle aziende borghesi devono formare l’arma formidabile che costringerà in tutti i sensi la borghesia sino ad atterrarla. Solo in questo modo cesserà presto questa infame società che sfrutta e affama centinaia di migliaia di uomini per procurare la ricchezza e l’ozio a poche migliaia di privilegiati», ribadivano in un opuscolo intitolato Verso l’anarchia. «Ettore e Nella erano intelligentissimi, ma quanto diversi da me! La mia anarchia è agli antipodi dalla loro!» dirà anni dopo Luigi Fabbri, classe 1877, di Fabriano, maestro elementare, uno degli uomini di punta dell’anarchismo italiano. E sua figlia Luce, ricostruendone la vita in un libro intitolato Luigi Fabbri. Storia di un uomo libero, li fa rivivere in un suo ricordo d’infanzia: «Li rivedo ancora, in visita nella nostra casa di Corticella, lui severo e riservato, lei alta, o per lo meno alta ai miei occhi, vestita elegantemente di nero, tutti e due già maturi. Non parlarono molto con noi bambini, ma moltissimo con il babbo, che dopo o forse anche prima, ma solo dopo averli conosciuti ne ho fissato il ricordo, ne parlava spesso designando Nella con il suo pseudonimo di Petit Jardin, che per me, che cominciavo a studiare il francese, aveva un fascino speciale».[3]
La sconfitta militare di Adua del 1896, costata quasi diecimila morti, aveva costretto Crispi alle dimissioni e l’Italia era ridiventata giolittiana, ma il nuovo corso non pareva aver cambiato le sorti dei tantissimi anarchici costretti al domicilio coatto sulle isole di Ponza, Ventotene, Ustica, Pantelleria: i morti, si erano definiti con una buona dose di ironia. I socialisti avevano proposto una serie di candidature protesta per consentire ad alcuni di loro una via d’uscita, e il dibattito all’interno del movimento anarchico si era fatto serrato: «Se di qui si dovrà uscire inchinando una bandiera che non sia la nostra, se la liberazione dovrà essere subordinata ad una transazione, se ci dovessimo vergognare, se dovessimo tornare diminuiti, monchi, transfughi dopo aver bruciato ad idoli che ripudiano gli incensi di una adorazione bugiarda, meglio restare», aveva reagito da Pantelleria il vercellese Luigi Galleani, riuscendo poco dopo a fuggire verso Malta, la Tunisia, poi l’Egitto, dove era stato nuovamente arrestato in seguito al regicidio compiuto da Bresci, ma non estradato, potendo così riparare a Londra e infine in America, a sostituire Ciancabilla alla guida de La Questione Sociale. Più possibilista verso quella mano tesa dal partito fratello era Francesco Saverio Merlino, già da tempo biografato dalla prefettura di Napoli: «Si rivelò, fin da fanciullo, di carattere irrequieto, ma tenace e di mente svegliata. Nel ’70 egli, ancor giovinetto, apprese con entusiasmo che moti convulsionarii si erano, d’un tratto, manifestati nelle viscere del corpo sociale, dopo, specialmente, che l’Internazionale, lasciata l’Inghilterra, era comparsa nella Francia in forma ufficiale con un giorno di regno. E il Merlino, che allora attendeva agli studi classici, non tardò ad infatuarsi di quelle teorie utopistiche, ond’è che sui postulati dell’Internazionale basò la sua cultura politicosociale. Conseguì poi nella università di Napoli la laurea in giurisprudenza e si dette all’esercizio della professione legale, diventando l’avvocato grazioso degli affiliati alla setta anarchica, nella quale non tardò a mostrare apertamente di avere fede di apostolo; e sia per il suo carattere, sia per i suoi entusiasmi giovanili, sia per la sua cultura ordinata e completa divenne tosto il capo degli internazionalisti-anarchici di Napoli». Merlino sosteneva sul Messaggero che «combattendo ad oltranza, come abbiamo fatto, il parlamentarismo, ci si sia data la zappa sui piedi perché abbiamo contribuito a creare questa orribile indifferenza del pubblico per il sistema parlamentare, non solo, ma anche per le libertà costituzionali, sì che il governo ha potuto impunemente violarle senza che un grido di protesta si sia levato dai figli di coloro che dettero la vita per conquistarle». Malatesta gli rispondeva da Londra, dispiaciuto di dover polemizzare con un vecchio amico: «Ma noi siamo avversari del parlamentarismo perché crediamo che il socialismo debba e possa solo realizzarsi mediante la libera federazione delle associazioni di produzione e di consumo, e che qualsiasi governo, quello parlamentare compreso, non solo è impotente a risolvere la questione sociale e armonizzare e soddisfare gli interessi di tutti, ma costituisce per se stesso una classe privilegiata con idee, passioni e interessi contrari a quelli del popolo che ha modo di opprimere con le forze del popolo stesso». Ettore e Nella, collezionando l’ennesima denuncia «per avere fatto pubblicamente l’apologia di fatti previsti dalla legge come delitti contro lo Stato e l’ordine pubblico, per avere incitato all’odio fra le sue classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità», rincararono la dose sul loro giornale: «La Protesta Umana, che anche questa settimana è stata sequestrata, raccomanda a tutti gli operai che sono stanchi di essere turlupinati dai politicanti di non votare! I gesuiti rossi, che dopo il ’98 furono liberati dal carcere per opera di popolo e di rivoluzionari, oggi hanno dimenticato le centinaia di condannati politici, scioperanti, antimilitaristi e anarchici che soffrono nelle patrie galere. Al silenzio di questi vili e rinnegati che tengono bordone alla forca e alla loro fiera elettorale, rispondete fischiandoli».
Scampare alla scure della censura e dei sequestri preventivi pareva impossibile: «Era il tempo in cui essere trovato in possesso d’un foglio anarchico bastava a giustificare un arresto, e l’essere noto come fattorino, ad esempio del Grido della folla, voleva dire essere braccato come un bufalo selvaggio. I giornali subivano continuamente il sequestro, cioè l’immediata confisca delle copie. L’ostinazione nostra di conquistarci il diritto di propaganda era pari a quello dell’autorità di sopprimerci», racconta Nella,[4] che preferiva occuparsi dell’amministrazione del giornale affidandone la direzione, per 90 lire al mese, a Giovanni Gavilli, un fiorentino quarantenne quasi cieco fin dall’infanzia per via di una congiuntivite infettiva. Era approdato a Milano dopo cinque anni di confino a Pantelleria, aveva una laurea in lettere, un violoncello che sapeva suonare divinamente e un quaderno che riempiva di poesie: «Terra non vidi mai, né mar, né cielo / canto gli orrori di quel tetro nulla / che l’anima mi trasse in caldo e in gelo / e fe’ mia vita più che verno brulla». Prima di diventare anarchico era stato repubblicano e massone, e i rapporti di polizia lo segnalavano spesso a Napoli nel retrobottega della salumeria di Dionisio Malagoli, un tizio originario di Soliera, provincia di Modena, classe 1859, già condannato per associazione di malfattori e oltraggio alla forza pubblica: «Egli appartiene al gruppo degli anarchici ed è stato anzi uno dei più noti caporioni. Ha dimorato per qualche anno a Milano e nel luglio 1888 fu il depositario della bandiera e delle carte di quel circolo socialista», l’aveva schedato la prefettura, segnalandolo inoltre come oratore ai comizi popolari dove «insiste sulla propaganda diretta alla rivoluzione sociale risultando tra i principali sobillatori della folla incitandola al disordine». Il suo negozio era da tempo uno dei principali ritrovi dell’anarchia napoletana, molto attiva in quegli anni, soprattutto nelle lotte per la casa che nei rioni popolari opponevano migliaia di inquilini alla Società Risanamento Napoli, costituita nel 1888 con il compito di ricostruire la città partendo proprio dai rioni più poveri e degradati che erano stati falcidiati dall’epidemia di colera di qualche anno prima.
Oltre a Giovanni Gavilli ci passavano anche Roberto D’Angiò, il foggiano amico di Angiolillo che si guadagnava da vivere dando lezioni di francese; Francesco Cacozza, un calabrese dipendente delle ferrovie arrivato a Napoli per lavoro, incarcerato anni addietro «per cospirazione contro lo Stato» e grande amico di Francesco Saverio Merlino con il quale aveva fondato un giornale, Il Grido del Popolo; Umberto Vanguardia, un giovane senza fissa dimora che preoccupava molto la polizia perché in una lettera alla madre aveva scritto di voler diventare «un santissimo Caserio»; Ciro Petrucci, un ex socialista protagonista nel 1903 di una feroce rivolta a Torre Annunziata che si era conclusa con cinque vittime; Giuseppe Di Domizio, detto il professore, un uomo alto, con piccoli baffi neri e occhi scuri, sempre elegante e con un fratello presunto camorrista come croce. «Fece parte del gruppo qui organizzato dal noto Giovanni Gavilli, ma ora che questo gruppo si è dichiarato per l’intransigenza assoluta, adottando il sistema astensionista in materia elettorale, egli con pochi altri si è staccato dai compagni per costituire un gruppo di cosiddetti libertari, anarchici cioè più temprati che ammettono l’organizzazione e la lotta per la conquista dei pubblici poteri anche per mezzo delle elezioni», aveva scritto di lui la Questura di Napoli nel dicembre del 1901. E poi Luigi Felicò, il più vecchio del gruppo, nato a Gaeta nel 1844, ma arrivato presto a Napoli sulle orme di Carlo Cafiero per organizzare la sezione italiana della Lega Internazionale dei Lavoratori: il solo che poteva vantarsi di avere conosciuto e frequentato Michail Bakunin nel periodo in cui, dopo essere fuggito dal confino in Siberia e approdato in Italia, si era stabilito a Napoli diventando presto una specie di mito. Era il biennio 1865-67 e di quel manipolo di cospiratori, sempre al centro di ogni vera o presunta trama rivoluzionaria, Felicò amava ricordare anche Zoe Obolenskaja, una giovane e ricca principessa russa ultraradicale che dei sogni di rivolta di Bakunin era stata la principale finanziatrice.
Fra i tanti uomini che si radunavano a cospirare in quel retrobottega, anche una donna. Clotilde Peani era arrivata a Napoli per amore di Malagoli, che aveva conosciuto a Milano durante un comizio contro l’intervento militare in Libia. Bassa di statura, grassoccia, capelli e occhi castani, «di colorito roseo e aspetto piacente», aveva trent’anni e nelle mani un mestiere di sartina imparato nell’adolescenza per volere della madre Angela. Certi giorni lasciava il negozio per recarsi a Pozzuoli dove andava a trovare Pietro Calcagno, un vecchio amico cinquantenne di Fontanetto Po che si stava lentamente spegnendo all’ospedale al termine di una vita costellata di anni di carcere, fame, disoccupazione e fughe all’estero, con l’aggravante di una tubercolosi contratta in giovane età.[5] Un giorno di novembre del 1904 la prefettura di Napoli la segnalò partita per l’estero con un nuovo amante: «Giuseppe Di Domizio da alcuni giorni si è allontanato da Napoli e dalle indagini fatte è risultato che egli risieda attualmente a Parigi, donde poi pare avesse intenzione di recarsi a Marsiglia a prendere imbarco per l’America. Egli è in compagnia della correligionaria Peani Margherita Clotilde, la quale conviveva qui con l’altro anarchico Dionisio Malagoli, che ora ha allontanato per darsi al Di Domizio». Finirono invece in Inghilterra, nella Londra di Pëtr Kropotkin, di Rudolf Rocker e della sua compagna Milly Witkop; dei comizi pubblici in St. James Hall; dei quartieri poveri figli del pauperismo ancora uguali a quelli che trent’anni prima avevano fatto inorridire il pittore Giuseppe De Nittis al punto da fargli scrivere sui Taccuini che «nessun paese come Londra mi ha mai svelato il sottosuolo di sfacelo e di degrado della condizione umana»,[6] e convinto il suo amico e concittadino Carlo Cafiero a mollare la prospettiva paterna di una brillante carriera da ambasciatore per dedicare tutto se stesso all’ideale della rivoluzione sociale: «A chi dunque appartengono gli affamati, i cenciosi, i ladri, le prostitute di Londra? (…) A chi la miriade di miserabili sortita dall’East End in occasione della memorabile dimostrazione per la tassa sugli zolfanelli? A chi, diteci, o savi gazzettieri, a chi appartengono quei sgraziati proletari che a cominciar dallo scorso inverno, difettando di lavoro, venivano da voi, con crudele cinismo, consigliati a recarsi in Australia dove oltre al vantaggio di diventare possessori di terre, avrebbero trovato quello di fare due estati di seguito?»[7]
Clotilde Peani e Giuseppe di Domizio vennero notati nel gennaio del 1905 da un informatore «ad un meeting di sovversivi ebrei tenuto in Whitechapel». Lui si spacciava per un certo Venazzi, dottore in filosofia all’università di Roma, e parlando dal palco aveva portato l’adesione degli anarchici italiani all’iniziativa. Era stato visto confabulare a lungo con Emidio Recchioni, un anarchico quarantenne di Russi, nel ravennate, considerato «un perfetto cospiratore», trasferitosi da poco nella capitale inglese dove si guadagnava da vivere facendo il rappresentante di vini e di carbone; e con Mario Tedeschi, un altro italiano anarcoide e socialista che a Londra gestiva una pensione. Lo stesso confidente si diceva inoltre certo che Giuseppe Di Domizio fosse l’autore «di un manifesto apologetico di Bresci di una violenza inusitata» che proprio in quei giorni, a ridosso dell’anniversario del regicidio di Monza, era stato sequestrato in diverse città italiane e in Svizzera.
Due mesi dopo, al principio della primavera, Di Domizio veniva dato in partenza per New York.
[1] Goldman, Autobiografia. Vivendo la mia vita cit.
[2] Paolo Valera, Milano sconosciuta, C. Bignami e C., Milano 1879.
[3] Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, BFS, Pisa 1996.
[4] Epifane e Ireos, Un triste caso di libellismo anarchico, Tip. Enrico Zerboni, Milano 1909.
[5] Pietro Calcagno, Verso l’esilio: memorie di un anarchico confinato in Valsesia alla fine dell’Ottocento, Contemporanea, Milano 1976.
[6] Giuseppe De Nittis, Taccuino 1870-1884, Leonardo da Vinci, Bari 1964.
[7] Pier Carlo Masini, Cafiero, Rizzoli, Milano 1974.