La guerra, un Lenin per l’Italia
e una bomba in un teatro
«Non un uomo, non un centesimo per il militarismo! Proclamazione dello sciopero generale in caso di guerra e boicottaggio internazionale delle potenze belligeranti!» avevano gridato gli anarchici nelle piazze e sui giornali. Il fronte però a un certo punto si era incrinato. E anche se, come ha spiegato lo storico dell’anarchismo Pier Carlo Masini, «l’interventismo nel movimento anarchico non fu un fenomeno, non fu una corrente, non fu neppure il tema di un dibattito o il termine di una scissione, ma solo una serie di sporadici e slegati casi personali, qualcuno di rilievo e qualcun altro di nessun rilievo», di certo fece scalpore la presa di posizione di Kropotkin. «Io considero che il dovere di ognuno che ami l’ideale progresso umano nel suo complesso, e specialmente di quelli che sono inscritti nel proletariato europeo sotto il vessillo dell’associazione internazionale dei lavoratori, sia di unirsi con ogni forza, secondo le singole capacità, per schiacciare l’invasione dei teutoni nell’Europa occidentale», aveva scritto dal suo esilio londinese sul giornale La Libertà, e si era attirato la piccata risposta di Emma Goldman e tanti altri: «Ci addolora molto il mutato atteggiamento di Kropotkin. In quanto a noi, la grande catastrofe europea non ci toglie dal nostro posto nella fraterna internazionale umana. Noi condanniamo incondizionatamente tutte le guerre capitaliste senza cercare di difendere con sofismi l’una o l’altra cricca di pirati».
L’Italia, nonostante la pace firmata con i turchi nell’ottobre del 1912, continuava a essere impantanata in Libia in azioni di controguerriglia con le popolazioni locali, soprattutto in Cirenaica. Nell’agosto del 1914 Cesare Agostinelli, un anarchico di Ancona fra i protagonisti, due mesi prima, della settimana rossa che nel nome dell’antimilitarismo aveva incendiato le Marche e la Romagna, da direttore del periodico Volontà scriveva a Nella Giacomelli per dirle: «Ho cestinato questa settimana un altro lunghissimo articolo di Renzo Provinciali più schifosamente patriottico di quelli di Gioda e di Gigli presi insieme. Hai letto l’articolo di fondo della settimana scorsa sul Libertario firmato dalla Rygier? Se puoi procurartelo vedrai anche quello che razza di roba è».
Da quando Gavrilo Princip aveva ucciso a Sarajevo l’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando, Maria Rygier si era messa a parlare di «Serbia sentinella del mondo slavo», sognando, in chiave antiaustriaca, una guerra liberatrice capace grazie al popolo di spazzare via anche la monarchia italiana: «Ciò che noi vediamo intorno a noi non è l’avvilimento e lo sgomento che accoglie l’approssimarsi delle grandi sventure collettive, non è la disperazione, non è nemmeno la tristezza; ma è invece l’ansia coraggiosa e fidente di un primo successo che dischiude gli animi a nuove speranze», aveva scritto sul Libertario, firmando poi un appello che definiva la neutralità un abietto egoismo nazionale: «Il predominio dell’imperialismo tedesco significherebbe il ritorno ad una società militare e feudale, il nostro dovere quindi è di opporci risolutamente alle forze conservatrici e moderatrici. Tutte le guerre di liberazione sono le nostre guerre e noi rispondiamo con entusiasmo e con amore al doloroso richiamo della Francia. Gli eventi incalzano, è l’ora dell’azione!» Molti vecchi amici la guardavano con diffidenza; Luigi Fabbri per esempio, che di lei conosceva anche il padre e che l’aveva avuta come collaboratrice a Il Pensiero apprezzandone la stravagante impulsività, ora seguiva con profonda amarezza quella che considerava una inspiegabile involuzione. Che ne era stato della Maria Rygier che soltanto un anno prima aveva commemorato Bresci a Parigi e che nel 1912 era finita per l’ennesima volta in carcere perché accusata di complicità con Antonio D’Alba, un muratore ventenne che a Roma aveva attentato a Vittorio Emanuele III? Si sapeva che dopo aver denunciato il marito per adulterio per averlo trovato a letto con l’amante, si era trasferita per un po’ a Roma a casa dell’anziano padre, poi a Nizza: «Ha il suo recapito abituale presso il giornale Le petit Niçois. Sembra che una delle ragioni della sua permanenza qui sia la mancanza di denaro, attendendo essa di riscuotere la rendita del proprio patrimonio che in Polonia ammonterebbe a circa un centinaio di mila lire. Nel complesso fa vita tranquilla e riservatissima, sovente in compagnia dell’anarchico Libero Tancredi il quale, scioltasi la compagnia Mazzini, andò ad arruolarsi nella legione straniera. Confermo inoltre all’Eccellenza Vostra che le voci diffuse dai giornali circa le intenzioni della Rygier di iscriversi tra le infermiere della croce rossa francese corrispondono a verità», informava il consolato il 27 ottobre 1914. Probabilmente si era scordata anche del soldato Masetti, che nel frattempo, evitata la fucilazione grazie a una sentenza del tribunale militare di Venezia che giudicava il suo gesto «commesso in un momento di morboso furore», aveva cominciato il suo peregrinare da un manicomio all’altro: «Mia cara Maria, io da lei ne ho avuto abbastanza dell’aiuto della difesa ed io le sarò sempre grato a lei e a tutti quelli che si sono prestati per me», le aveva scritto un giorno per ringraziarla.[1]
«È terribile! Ciardi, Corridoni e adesso anche la Rygier apologisti della guerra! È un contagio che non risparmia nessuno!» aveva commentato un pomeriggio Benito Mussolini a casa di Leda Rafanelli.[2] Era allora direttore de L’Avanti!, si dichiarava molto vicino agli anarchici e lei aveva voluto conoscerlo dopo averlo sentito parlare a una commemorazione della Comune di Parigi. Ne era nata una frequentazione fatta di incontri tenuti il più possibile nascosti. Mussolini era già un uomo sposato con Rachele Guidi, dalla quale nel 1910 aveva avuto una figlia, Edda, e aveva una relazione dal 1913 con Ida Dalser, una trentina di Sopramonte, allora provincia austriaca, conosciuta nel 1913 a Milano dove faceva l’estetista. «Mi servono sensazioni nuove che nemmeno l’amore sa darmi. Ho bisogno di gloria, di ricchezza, di novità, di tumulto», confidava Mussolini a Leda, innamorandosi di lei ogni giorno di più. Un amore non corrisposto, seppure durante quei pomeriggi fra tè e incensi Leda presentisse «il pericolo, le conseguenze di un momento di debolezza, l’influenza, l’insidia della terribile ora sessuale». Alla fine c’era scappato un bacio sul pianerottolo, mai nulla di più secondo Leda: «Scrivetemi su carta non profumata, vi ho già detto quale potere deleterio esercitino i vostri profumi su di me», non si dava pace Mussolini. Lettere buttate giù quasi sempre nel cuore della notte dopo la chiusura del giornale: «Carissima Leda, da tre giorni non mi scrivi. Perché? Lo indovino. Ti credevo più forte, più umana. Finito dunque? Già finito questo nostro amore che sembrava meraviglioso? Tu non puoi credere quanto questo silenzio mi faccia soffrire. Scrivimi, magari per maledirmi, ma scrivimi, te ne scongiuro».[3]
Si videro per l’ultima volta ai primi di ottobre del 1914 alla redazione de L’Avanti! Quel giorno Il Resto del Carlino pubblicava un articolo di Libero Tancredi, al secolo Massimo Rocca, anarchico torinese, ex redattore del Grido della Folla e da subito convinto interventista, che accusava Mussolini di fare il doppio gioco invitandolo a uscire allo scoperto: «Tu sei l’unica persona capace di avere un’opinione fra il gruppo di piccoli uomini che oggi dirige il partito socialista. Io ti accuso di non aver saputo dare al giornale che ora tu dirigi più di nome che di fatto, una direttiva sicura, la quale sarebbe forse stata erronea, ma non avrebbe prodotto l’enorme equivoco che oggi andate consolidando a danno dello stesso partito socialista, oltre che della Nazione. Carte in tavola dunque. Ti domando di finirla, anche perché la gentaglia che ti darà il calcio dopo averti usato, va dicendo che tu ti adatti a tutto, pur di conservare lo stipendio. Ti domando di porre un termine all’equivoco scandaloso di una protesta anti guerresca che vorrebbe essere ideale e non lo è». Leda si trovò di fronte un Mussolini «bianco come un gesso e con gli occhi fuori dalle orbite».[4] Non la lasciò andare via se non dopo essersi fatto promettere che mai l’avrebbe giudicato, criticato, tradito, qualunque cosa fosse successa.
Il giorno dopo L’Avanti! usciva con in prima pagina la sua dura replica: «Voi, o signori del Carlino, che non avete avuto ragione a rifiutare a Libero Tancredi la pubblicazione della lettera ch’egli mi ha diretta, avete ancor meno ragione, io ritengo, di respingere questa mia risposta anche se necessariamente non molto breve. Carte in tavola dunque e parole chiarissime. Sono stato francofilo, nel senso politico e sentimentale della parola, sino al giorno del Patto di Londra. Oggi lo sono ancora e non mi sono rimangiato nulla caro contraddittore, ma mi rifiuto di esaltare superficialmente la guerra della Triplice come una guerra rivoluzionaria democratica o socialista secondo la volgare corrente opinione dei circoli massonici o riformisti. Quanto all’intervento dell’Italia, è questione da esaminare ormai da un punto di vista puramente e semplicemente nazionale. Reazione o rivoluzione non c’entrano più. Ho detto e ripetuto pubblicamente che l’Italia ufficiale è imbottigliata, inchiodata nella sua neutralità. Ho detto, ho scritto e ripeto che l’Italia poteva fare la politica della grande potenza ai primi di agosto, stracciare il trattato della Triplice Alleanza, unirsi alla Triplice Intesa e con questo gruppo tentare la buona o cattiva fortuna. Che cosa rimane ora dell’acre ritorsione tancrediana? Nulla o ben poco. Il Tancredi è un anarchico-fenomeno, un anarchico che esalta la guerra e vorrebbe spingere l’Italia alla guerra. Ora, se v’è qualcosa che comincia ad essere un po’ ripugnante, è appunto questo anarchismo che maschera le sue inversioni intellettuali e politiche sotto il pretesto comodo e simpatico dell’eresia. Non è certo da siffatto campione che io posso accogliere, caso mai, l’imposizione di risolvere i miei casi di coscienza. Il consiglio deve partire da altre bocche e quanto all’ora, la scelgo io!» Fu solo una questione di giorni. La sua nuova linea «di neutralità attiva e operante» gli costò la cacciata dal giornale, poi l’espulsione dal Partito socialista.
L’Italia entrò ufficialmente in guerra il 23 maggio 1915: «Cittadini e soldati! Siate un esercito solo! Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento!» aveva incitato i suoi sudditi Vittorio Emanuele III. Amara, Leda commentava che i giornalisti avevano subito preso partito: «Affilarono le penne, si affidarono a inchiostri speciali per corrodere, incidere, falsare la verità, per ingannare il loro pubblico. E tolti i pochi, nobili giornalisti dei fogli indipendenti, militanti sotto le bandiere perseguitate dalla legge dei pavidi uomini d’ordine della borghesia danarosa, tutti gli altri si gettarono sulle loro scrivanie come sopra ad un letto di postribolo per rendervi ogni meandro della loro intelligenza subdola e scaltra, imbellettati d’ideale, di patriottismo, di civiltà, in gara per mandare la miglior parte dell’umanità al macello, a vantaggio dei loro avidi ventri, per riempire le loro capaci tasche del denaro che pioveva da ogni parte».[5]
Qualche settimana prima Luigi Fabbri, dalla sua casa di Corticella, aveva scritto a Nella: «Ho saputo che se ci sarà la guerra ci acciufferanno. Intanto qui sono guardato a vista e la benemerita non perde d’occhio la mia casa neppure di notte. Non ne sono lieto certamente, ma che cosa ci posso fare?» Anche lui, come la gran parte degli anarchici, scelse l’esilio: Svizzera e America soprattutto. Nella e Leda invece si erano convinte che solo le donne avrebbero potuto fermare il conflitto. Perciò scrissero e diffusero quel volantino che tanti guai avrebbe causato loro: «Donne d’Italia! Unitevi tutte al grido di abbasso le armi! Madri, spose e sorelle! Se l’amore che dite di sentire per i vostri figli, per i vostri mariti e per i vostri fratelli non è una menzogna, se l’esistenza dei vostri cari vi è veramente sacra, unitevi tutte nel fatidico grido di Abbasso le armi! Per l’umanità, per la civiltà, per l’avvenire, sia unica la vostra volontà e sia forte il vostro grido affinché risuonando in ogni contrada strappi al dolore muto ed alla passiva rassegnazione tutte le femminili energie e le sollevi all’azione contro le barbarie devastatrice. Su la tempesta di fuoco e di sangue che imperversa senza tregua da oltre venti mesi, sopra gli urli dell’odio e della morte che travolgono tante genti, sopra il rombo micidiale e orrendo delle artiglierie che mietono tante giovani e preziose esistenze, risuoni alto e vibrante il vostro grido generoso: giù le armi! Viva la fratellanza umana!»
Era la fine di aprile del 1916 e Nella Giacomelli pagò quel volantino con due anni di confino: «Rimpatriata a Lodi per sospetto di propaganda pacifista, mi sono vista costretta ad abbandonare la mia casa ed i miei impegni professionali per venire a risiedere in questa città che, per aver lasciato da venticinque anni, mi è del tutto estranea e non mi può offrire alcun appoggio ed alcuna risorsa in caso di bisogno», protestò con il prefetto. L’inattività forzata pareva sfibrarla. Quando in ottobre Guerra di Classe le chiese un articolo a commemorazione dei martiri di Chicago, lei confessò tutta la sua rabbiosa rassegnazione: «Commemorare degli eroi? Per l’esempio di chi? Di questa mandria di schiavi genuflessa davanti a tutti gli altari della menzogna e del tradimento? Io credo che oggi, nel trionfo bestiale delle forze nemiche e nell’abuso spudorato che se ne fa contro di noi, per il nostro annientamento e la nostra soppressione, contro ogni diritto e ogni giustizia, non ci sia che una preparazione: quella degli animi, per la rivincita di domani. Abbeveriamoci di fiele, amici, nutriamoci di collera, perché per il giorno che verrà si sappia essere spietati ed insaziabili. Alleviamo lo spirito alla vendetta, indurendolo nello spettacolo feroce di questa criminosa gazzarra di potenti in cui tanto strazio si fa di ogni sentimento umano ed impariamo ad odiare per saper essere implacabili quando suonerà la grande ora dei rendiconti. Ed allora l’omaggio che renderemo a tutti i nostri martiri, a tutti coloro che consacrarono nella storia con il loro eroismo l’eterna bellezza di un’idea, sarà degno di loro riscattando molte delle nostre debolezze, che forse sono anche colpe».
A guerra finita si contarono più o meno nove milioni di morti e circa venti milioni di feriti: «Dalle trincee si riversava tumultuosa e travolgente un’alluvione umana, e irrompeva contro il mondo che aveva voluto la guerra, l’aveva esaltata e acclamata, ne aveva goduto gli enormi profitti e ora ostentava le sue nuove ricchezze con la boria insolente del cafone parvenu. Uomini che avevano marcito per anni nel fango, nel sangue, nella crudeltà e nel terrore, tornavano a fare i conti con i responsabili del loro soffrire», si legge nell’autobiografia di Armando Borghi,[6] diventato nel frattempo leader dell’USI, il sindacato di estrema sinistra fondato a Parma nel 1912. Scontando il confino tra le montagne dell’Impruneta nel 1917 aveva conosciuto, grazie a un amico comune, Virgilia D’Andrea, una donna piccola, minuta, pallida, con i capelli scuri e lisci, nata a Sulmona, in provincia dell’Aquila, l’11 febbraio 1888: «Aveva le mie stesse opinioni. Era una creatura di eccezione. Conosceva la gioia di fare il bene. Era cresciuta nel dolore, le era morta presto la mamma; e subito dopo il padre, risposatosi, fu assassinato da un rivale in amore quasi sotto gli occhi di lei e di un fratellino. Aveva studiato in un convento di monache. Era cresciuta assetata di luce, di libertà, d’amore. Diplomata maestra, completò i suoi studi nella Università di Napoli, e si dette all’insegnamento, maestrina del popolo. Povera buona maestrina, che era salita sulla cattedra con ancora le trecce di fanciulla. Il terremoto di Avezzano l’aveva lasciata in vita, ma le era rimasto l’orrore della sventura che piomba sulla miseria e sull’abbandono. Aveva un’anima gentile e dava colore e vita di poesia e di pietà ad ogni cosa che le vivesse accanto. Ci intendemmo e presto fummo marito e moglie. Amore libero dicevano taluni, come se potesse esistere l’amore schiavo».[7] Insieme, alla vigilia di Natale del 1919, furono tra i primi ad abbracciare in una trattoria fuori Genova Errico Malatesta, sbarcato a Taranto dopo un lungo esilio forzato a Londra. Fra i tanti che si erano spesi per farlo tornare, anche colui che aveva sostituito Mussolini alla guida de L’Avanti!, Giacinto Menotti Serrati, conosciuto in carcere: «Pretendere di qualificare come malfattore un sano idealista dalla levatura morale di Malatesta è, semplicemente, voler ridicolizzare la giustizia italiana. Ci auguriamo che i deputati, i quali fanno le leggi, e i magistrati, che le applicano, vadano un pochino a scuola di dirittura politica e morale da questo vecchio anarchico malfattore che ha consacrato tutta la sua vita al proprio ideale ed è uno dei più bei caratteri della società contemporanea». Il vecchio anarchico originario di Santa Maria Capua Vetere aveva sessantasei anni quasi tutti vissuti pericolosamente e ancora molte idee in testa: «È il tempo di lavorare in grande scala. Eventi importanti, decisivi, maturano in tutto il mondo e noi dobbiamo metterci in posizione di far sentire l’influenza e l’opera nostra», ribadiva in ogni occasione. Armando Borghi nutriva per lui la stima e il rispetto che si deve a un vecchio maestro e spesso si vantava di essere scappato di casa a sedici anni per andare a sentirlo a un comizio ad Ancona. Per lui quel ritorno era indispensabile: «Noi volevamo Malatesta in Italia. Lo volevamo non tanto per ragioni sentimentali o per ragioni di rivalsa contro il governo che lo aveva escluso abilmente dall’amnistia del dicembre 1914. Lo volevamo perché era indubbio che la sua presenza avrebbe portato un forte contributo di idee, di consigli, di esperienza e di prestigio alla lotta rivoluzionaria. Egli avrebbe trovato in Italia qualcuno dei suoi antichi ammiratori diventati voltagabbana, come il predappiese, ma vi avrebbe trovato anche delle magnifiche folle di simpatizzanti e molti compagni militanti».[8] Virgilia, nonostante trent’anni di differenza, ci entrò subito in sintonia. Forse vedeva, in quell’uomo canuto che parlava un buon inglese e un italiano con spiccate inflessioni dialettali, il padre che aveva a malapena conosciuto; e lui, leggendo le poesie che lei amava scrivere fin da ragazza, ricambiò l’affetto e la stima definendola «la poetessa dell’anarchia degna di prendere il posto che ha lasciato vuoto il nostro Pietro Gori», scomparso ormai da quasi un decennio per l’acutizzarsi di una malattia respiratoria che lo tormentava da tempo: «Io sono dannato ormai ad essere un naufrago della vita vera in questa mia sconsolata zuffa con le insidie del male», aveva confidato un paio di anni prima di morire a Nella Giacomelli.
Malatesta e Virgilia D’Andrea cementarono la loro amicizia dividendo a Milano una provvisoria sistemazione presso la sede sindacale dell’USI in via Mauri 8 e scorrazzando su e giù per un Paese in fermento. Nelle sue memorie Armando Borghi ha ricordato così il clima di quei giorni: «L’entusiasmo si era impadronito delle masse. A Torino degli aeroplani della fabbrica SVA volteggiavano sul cielo della città facendo cadere una pioggia di manifesti rivoluzionari, a Genova venivano occupati tre piroscafi in costruzione, a Bologna i ferrovieri arrestavano oltre duecento carri ferroviari provenienti dalla Francia e destinati alla Polonia, contro la Russia. La Federazione dei Porti lanciava un caloroso appello alle proprie sezioni per la completa solidarietà ai metallurgici. Dalla Sicilia arrivavano notizie della occupazione dei latifondi».[9] Malatesta ripeteva nei comizi che «la necessità dell’ora è l’insurrezione armata. Ci vogliono armi, ci vuole la complicità o la passività di una parte dell’esercito, ci vogliono delle intese perché i servizi pubblici siano paralizzati». Era stato soprannominato il Lenin d’Italia. «Ma niente poteva essere più diverso, Malatesta non si sarebbe chinato a raccogliere la dittatura nemmeno se l’avessero deposta ai suoi piedi», ha scritto uno dei suoi biografi, Max Nettlau,[10] e infatti da quell’abbraccio il vecchio anarchico si schermì: «Grazie, ma basta. Si ricordino i compagni che l’iperbole è una figura di cui non bisogna abusare. Si ricordino soprattutto che esaltare un uomo è una cosa politicamente pericolosa e moralmente malsana per l’esaltato e per gli esaltatori», scrive su Volontà del 16 gennaio 1920. Intanto tira le fila al progetto del quotidiano Umanità Nova, che salutato da L’Avanti! come «un confratello che si propone di contribuire alla santa battaglia dell’emancipazione proletaria» vede la luce il 27 febbraio del 1920. «Noi siamo anarchici, anarchici nel senso proprio e generale della parola, vale a dire che vogliamo distruggere quell’ordinamento sociale in cui gli uomini, in lotta tra di loro, si sfruttano e si opprimono, o tendono a sfruttarsi e ad opprimersi, per arrivare alla costituzione di una nuova società in cui ciascuno, nella solidarietà e nell’amore con tutti gli altri uomini, trovi completa libertà, massima soddisfazione possibile dei propri bisogni e dei propri desideri, massimo sviluppo possibile delle sue facoltà intellettuali ed affettive», si legge sul primo numero.
Gli anarchici avevano tenuto a Firenze nel 1919 il loro primo congresso del dopoguerra. Secondo un’inchiesta del governo non risultavano essere tantissimi ed erano da considerarsi veramente pericolosi solo in alcune città. Parevano però più che mai in grado di soffiare sul fuoco di un fronte sempre più vasto che sognava «di fare come la Russia». I giornali alludevano a un gigantesco complotto internazionale finanziato e orchestrato dai bolscevichi che, attraverso l’assassinio di sovrani e capi di Stato, aveva lo scopo di accendere la miccia della rivoluzione in mezza Europa. Nel marzo del 1921, a chiusa di centinaia di perquisizioni in tutta Italia, Errico Malatesta, Armando Borghi e un giovane redattore di Umanità Nova, Corrado Quaglino, sono in carcere a San Vittore ormai da qualche mese, accusati di cospirazione contro lo Stato e di istigazione a commettere atti terroristici. Da diversi giorni hanno iniziato uno sciopero della fame e Umanità Nova si trova costretta a lanciare un appello: «Malatesta s’avvia alla morte. Le ore decisive precipitano. Lo diciamo col cuore stretto dall’angoscia, con l’animo pervaso dalla vergogna di non sapere, di non poter fare nulla per impedire, se ne sarà tempo ancora, l’orribile catastrofe che getterà col cordoglio l’ignominia su tutti noi. Compagni! Se vi scorre ancora una goccia di sangue ribelle nelle vene, se non è già spento in voi ogni senso di dignità rivoluzionaria, se la parola solidarietà ha ancora un senso per voi, noi vi domandiamo d’insorgere con noi perché l’infamia non venga consumata». Qualcuno prese alla lettera quel grido d’aiuto e la notte del 23 marzo fece esplodere una bomba al teatro Diana di Milano, provocando la morte di ventuno persone e un centinaio di feriti. L’obiettivo avrebbe dovuto essere il questore Giovanni Guasti, ma la notizia che alloggiasse all’hotel attiguo al teatro era falsa, forse frutto di superficialità o peggio di un depistaggio, così a morire furono soprattutto gli orchestrali che stavano suonando Mazurka blu, l’operetta di Franz Lehár. La reazione fu furiosa.[11] Dalle colonne del Popolo d’Italia, il suo nuovo giornale, Mussolini invocò «la risposta della borghesia per dimostrare che l’Italia non è un paese invertebrato come la Russia. Occorre la giusta vendetta e non solo contro gli anarchici, ma contro i socialisti, i comunisti colpevoli di avere seminato troppo odio». Le sedi di Umanità Nova e dell’Unione sindacale furono assaltate e devastate fra gli applausi della gente ai balconi e senza nessun intervento da parte delle forze dell’ordine, quella de L’Avanti! si salvò a fatica perché protetta dai carabinieri. Le retate che seguirono in cerca degli autori della strage portarono in carcere, accusata di complicità, anche Nella Giacomelli: «Dovete assolutamente guardare a questa disgrazia con criterio più giusto e meno esaltato e non aggravare le mie condizioni d’animo già penose con lo spettacolo angoscioso della vostra pena», scriveva alla madre e alla sorella prima di uscire dopo pochi giorni per mancanza di prove. Il suo compagno Ettore Molinari invece la scampò. Stando a una serie di documenti sequestrati a Malatesta, la prefettura lo riteneva «ancora capace di assumere la direzione di attentati terroristici», perciò il prefetto aveva interessato il ministero dell’Interno affinché facesse pressioni per sollevarlo dai suoi incarichi al dinamitificio di Cengio, scontrandosi però con il fermo e ostinato rifiuto dell’azienda: «Il professor Ettore Molinari è un prezioso collaboratore nella produzione di forniture che sono della massima importanza per la difesa nazionale e richiedono la massima segretezza».
Alla fine i responsabili vengono presi. Sono tre giovani anarchici, il più vecchio dei quali ha ventisei anni. Si chiama Giovanni Boldrini, è un operaio di Cicognara, in provincia di Mantova. Lo catturano in Germania dove sotto falso nome fa il muratore. Condannato all’ergastolo, morirà nel campo di concentramento di Mauthausen poco prima della fine della seconda guerra. Poi c’è Ettore Aguggini, un meccanico milanese che il giorno dell’attentato compie diciannove anni. Lo trovano ad Ancona e gli danno trent’anni da scontare nel penitenziario di Alghero, dove morirà nel 1929. Il terzo si chiama Giuseppe Mariani, anche lui un mantovano, di Castellucchio. Ha ventidue anni, è stato operaio delle ferrovie e l’esercito, a seguito di una diserzione, l’ha giudicato infermo di mente. Si fa prendere a Mantova e anche per lui c’è l’ergastolo: «Eravamo galvanizzati non solo dal fatto particolare di Malatesta detenuto e in stato di rivolta con lo sciopero della fame, ma da tutto il fermento politico e sociale del momento»,[12] scriverà nelle sue memorie dopo aver beneficiato nel 1946 dell’amnistia di Togliatti, pare grazie all’interessamento diretto di Sandro Pertini, che l’aveva conosciuto nel penitenziario di Santo Stefano. Vivrà fino a settantasei anni, spegnendosi a Sestri Levante per una broncopolmonite.
«A noi sembrava impossibile che quell’attentato fosse opera di anarchici. Sta però il fatto che esso fu opera di alcuni giovani che militavano nell’anarchismo. Come spiegarlo?» si domandò Armando Borghi uscendo dal carcere. Rispondere non era facile: «Ci procurammo di capire cosa c’era dietro quel fatto, ci fu assicurato da chi era in grado di informarci che la bomba non era affatto destinata al Diana, ma a San Fedele, cioè alla questura centrale. Si voleva la pelle di Guasti. Gli attentatori erano già in piazza del Duomo e proprio in quel momento qualcuno – una donna? – li informò che il Guasti non era a San Fedele ma al Diana. Con quella terribile valigia tra le mani perdettero l’uso della ragione e fu la strage. Nota bene. Nella grande Milano, cinque minuti dopo lo scoppio della bomba, le squadre fasciste attaccarono a ferro e fuoco simultaneamente tre sedi lontanissime l’una dall’altra: L’Avanti!, l’Unione sindacale italiana e Umanità Nova. Su questo particolare dei cinque minuti potei accertarmi in modo sicuro quando fui liberato dal carcere. Virgilia, che era a Milano e che giusto per pochi minuti riuscì a mettersi in salvo, mi fornì gli elementi di questa certezza. In Italia nessuno osava più dire che ci aveva conosciuti. La caccia all’anarchico obbligò a darsi alla macchia i nostri più noti. Non saprei descrivere e forse nemmeno rappresentare a me stesso l’atonia estrema in cui eravamo caduti, il caos del nostro pensiero, gli enigmi, le incognite, le tenebre che tentavano di penetrare. Alle mie sofferenze si aggiungeva l’incertezza per la sorte di Virgilia. I giornali avevano pubblicato che i locali dell’unione sindacale erano stati distrutti. Che ne era stato di lei?»[13]
La misteriosa donna a cui allude Armando Borghi si rivelerà essere Elena Melli. All’epoca aveva 32 anni, era originaria di Lucca. I rapporti della polizia la descrivono di statura regolare e robusta, con i capelli castani e gli occhi marroni, un’espressione fisionomica definita ridente. Da un precedente matrimonio con un certo Ramacciotti aveva avuto una figlia che ha chiamato Gemma. Aveva conosciuto il confino nel 1918 ed era già stata arrestata nel 1919 per complicità in un attentato alla Galleria di Milano che era costato la vita a Bruno Filippi, uno degli attentatori. Dopo aver chiuso la relazione con Emilio Grassini, anarchico toscano di San Gimignano conosciuto in Liguria, era diventata la compagna di uno dei tre ragazzi del Diana, Giuseppe Mariani: «Il mio pensiero si ferma su questa società putrida che sta per tramontare. Questa società è una cloaca. Noi combattiamo per la libertà dei popoli e moriremo insieme sulle barricate se sarà necessario», gli aveva scritto dal carcere. Conosceva bene da tempo anche Aguggini e negli ambienti anarchici si era saputo in fretta che insieme con loro aveva progettato e organizzato l’attentato e che era stata proprio lei a insistere fino all’ultimo affinché la bomba fosse collocata davanti a una saracinesca dell’hotel e non alla Questura. Eppure non fu mai interrogata e l’inchiesta neanche la sfiorò, circostanze che le attirarono addosso ombre e sospetti che non si diradarono neppure quando Malatesta, che da un anno era il suo nuovo compagno, garantì per lei portandosela a Roma: «Si sospetta negli ambienti anarchici di Milano e di Roma che persona che vive vicino a Malatesta sia in rapporti con le autorità, poiché notasi che allorché Malatesta si dispone a partire dalla capitale la polizia organizza servizi anche nella stazione di arrivo. Si sospetta molto dell’anarchica Melli Elena, ma su costei Malatesta Errico avrebbe dato le migliori assicurazioni minacciando di abbandonare il movimento anarchico ove si persistesse nella campagna di ingiusti sospetti iniziata da tempo nei confronti della sua amante», si legge in un rapporto della prefettura.
I funerali delle vittime del Diana, imponenti, sancirono che il vento era davvero cambiato mettendo fine ai due anni passati alla storia come il biennio rosso: «Mussolini è alla testa e la folla guarda attonita l’immensa fiumana dei fascisti. Ora li vede i bei battaglioni. Vede la balda gioventù che ostenta il tricolore all’occhiello e che sul petto porta con orgoglio le decorazioni di guerra», raccontava Il Popolo d’Italia. Non era facile capire quello che stava accadendo, che cosa smuoveva quelle che dieci anni dopo Wilhelm Reich nel suo Psicologia di massa del fascismo avrebbe chiamato «le pulsioni dell’uomo della strada, mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi ad un’autorità». Nei suoi quaderni di ricordi Nella Giacomelli scriverà che: «Nessuno al momento della lotta al fascismo sapeva cosa si dovesse fare e quali mezzi adottare per combattere il passo al minaccioso avanzare dei reazionari. La mancanza di dirigenti capaci e risoluti lasciò libero campo agli improvvisati demagoghi, mentre gli altri non facevano che parlare della dittatura del proletariato senza sapere che cosa esattamente fosse e come si sarebbe raggiunta. Lo stato sembrava non esistere se non fosse stato per l’appoggio che dava al fascismo proteggendo le spedizioni punitive, mettendo a disposizione i propri armati, le guardie regie, imponendo ai carabinieri il non intervento. Fu tentato uno sciopero generale nel ’22, a fine luglio, ma i socialisti erano disarmati e demoralizzati. Contro i fascisti armati e sicuri dell’impunità non osarono andare e i fascisti marciarono contro i circoli e le cooperative saccheggiando e incendiando, presero d’assalto città e campagne bastonando, uccidendo e spargendo ovunque il terrore». In quei giorni Nella ritagliava e conservava articoli di giornale che ai suoi occhi più di ogni altra cosa spiegavano quello che stava accadendo: una forzata purga collettiva a Marsciano, in provincia di Perugia, dove «dopo una manifestazione patriottica alcune squadre fasciste riuscirono a portare varie decine di socialcomunisti paesani in piazza ove erano pronti sopra un lungo tavolo una quarantina di bicchieri pieni di olio di ricino»; la bastonatura a Como di un professore comunista che durante una passeggiata in centro aveva risposto alle prese in giro di un gruppo di fascisti; il fiduciario fascista di un paesino ligure, Borghetto San Nicola, che insieme con un amico alla vigilia di Natale aveva dato fuoco in un bar a un alcolizzato: «Vedremo ora l’opera dell’Autorità giudiziaria, vedremo cioè se si compirà il salvataggio dei responsabili», commentava L’Avanti!
Nel frattempo in America, Ersilia Cavedagni aveva fatto sparire le sue tracce. Era stata segnalata a Seattle nel 1912 grazie a una sottoscrizione inviata a Il Libertario di La Spezia, poi più nulla: «Costei nel 1906 aveva segnalato il recapito 1343 Sedgels Street, Filadelfia, successivamente fece ritorno a New York da dove nel 1910 non ha fatto pervenire lettere ai parenti. Vengono diramate circolari per rintraccio e vigilanza, qualora fosse rientrata clandestinamente nel Regno», si legge in una nota del 27 ottobre 1921. È una donna di sessant’anni, chissà se ancora in relazione con l’anarchico spagnolo León Morel, conosciuto dopo la morte di Ciancabilla.
Anche Ernestina Cravello è sempre negli Stati Uniti, ma un impiegato probabilmente svogliato e distratto cerca informazioni sul suo conto in una Paterson australiana: «Per quanto negli stati della Nuova Galles e del Queensland vi siano due località chiamate Paterson, non vi sono anarchici italiani o di altra nazionalità», risponde il consolato di Melbourne. Sono ormai trascorsi più di dieci anni dalla sua venuta in Italia, assieme all’uomo che aveva sposato, per incontrarsi con le rispettive famiglie, separate da neanche venti chilometri. Tra Valle Mosso e Tollegno erano rimasti quasi due anni, forse cercando di sistemarsi per restare vicino ai loro cari. Ma alla fine avevano deciso di tornare in America, con grande soddisfazione del prefetto di Novara che non aveva mai smesso di tenerli d’occhio e li aveva fatti pedinare sino alla frontiera di Modane, facendosi poi telegrafare dalla Francia la conferma del loro imbarco a Le Havre. Avevano trovato casa prima a Oboken, poi di nuovo a Paterson, dove avevano ricominciato a lavorare nelle fabbriche tessili.
[1] Laura De Marco, Il soldato che disse no alla guerra: storia dell’anarchico Augusto Masetti (1888-1966), Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2003.
[2] Rafanelli, Una donna e Mussolini cit.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] Armando Borghi, Vivere da anarchici, Ed. Alfa, Bologna 1966.
[7] Ibid.
[8] Id., Mezzo secolo di anarchia (1898-1945) cit.
[9] Ibid.
[10] Max Nettlau, Malatesta, Il Martello, New York 1922.
[11] Quanto accadde in quei giorni è stato minuziosamente ricostruito da Vincenzo Mantovani in Mazurka blu. La strage del Diana, Rusconi, Milano 1979.
[12] Giuseppe Mariani, Memorie di un ex terrorista, Torino 1953.
[13] Borghi, Mezzo secolo di anarchia (1898-1945) cit.