10.

Cagnolo aspettava il suo padrone davanti al convento della Minerva, seduto sotto uno dei tanti alberi che adombravano lo spiazzo antistante il complesso. Nonostante il caldo, non aveva rinunciato a indossare la casacca in pelle di bufalo e un corto mantello che ricadeva sul fianco sinistro, nascondendo la spada e, in parte, la pistola. A dispetto delle grida che vietavano d’andare in giro armati, non eran tempi, quelli, per obbedire alle regole. Soprattutto se si era al servizio di un frate del Sant’Uffizio.

Il bravo d’altro canto non disdegnava il proprio mestiere. Sempre meglio che lanciarsi alla carica su un campo di battaglia, seguendo gli ordini di qualche scimunito alla ricerca della gloria. Inoltre, lo legava allo Svampa un rapporto particolare. Non si trattava solo degli anni trascorsi al suo fianco, ma anche del fatto che l’inquisitore avesse deciso di proteggere Matilda, la sua unica figlia. La ragazza era bella, cresciuta senza madre e segnata da una storia amorosa che l’aveva sconvolta, costringendo Cagnolo a rinchiuderla in monastero perché non commettesse un atto sconsiderato. L’intervento dello Svampa era stato fondamentale, in quel frangente.

Nessuno scrupolo, perciò, se di tanto in tanto si rendeva necessario infilzare qualche piantagrane o menar ceffoni in una bettola. Cagnolo ci sguazzava, in certe situazioni, tanto piú che, nonostante l’enormità di alcune sue spacconate, agendo in nome della Chiesa l’aveva sempre passata liscia.

Fino ad allora, per lo meno. Il suo occhio notò d’un tratto qualcosa di sospetto nel movimento di bestie e carri che scorrevano a fianco del Pantheon, a pochi passi dalla Minerva. Una carrozza nera, appena fermata ai margini della piazza prospiciente il convento. Forse non era nulla, si disse il bravo, ma avrebbe giurato d’aver visto quel mezzo passare almeno tre volte prima d’arrestarsi lí davanti. Inoltre era strano che una vettura del genere non fosse contrassegnata da stemmi o insegne d’alcun tipo.

Restando buono buono accanto al suo albero, Cagnolo studiò prima il cocchiere, che teneva la faccia celata sotto un capperone, poi i finestrini, sigillati da bandinelle scure che non permettevano di scorgere i passeggeri.

Non si sarebbe meravigliato se da una di quelle tendine fosse spuntata la canna di un moschetto, ma al momento poteva star tranquillo. Lui non era certo un bersaglio per cui prendersi tanto disturbo. Se davvero in quello scatolone c’erano dei confetti di piombo, il dono era per qualche venerabile cappone alloggiato presso i frati domenicani.

Abbassò quindi la falda del cappello, fingendo di sonnecchiare.

La carrozza non accennava a muoversi.

All’improvviso risuonarono i passi di tre frati diretti verso la strada. Cagnolo li seguí con lo sguardo, pronto a ogni evenienza, ma dalla vettura non ci fu alcuna reazione.

Forse s’ingannava, meditò a un certo punto. Forse dietro quegli sportelli di vernice nera si nascondeva una spia, l’amante di qualche prelato o un nobile indeciso se entrare in convento per confessare un terribile peccato.

– Andiamo, – ordinò una voce, strappandolo da quel fantasticare.

Il bravo alzò la falda del feltro e riconobbe lo Svampa.

Prima ancora che il presagio prendesse forma nella sua mente, rivolse un’occhiata alla carrozza in sosta e vide una tendina scostarsi. – Dietro di me! – gridò, scattando in piedi con la pistola già in pugno.

Ma ciò che seguí fu soltanto lo schiocco di frusta del cocchiere. Dopodiché la vettura ripartí, allontanandosi per le vie di Roma.