31.

Rione Trastevere.

Montato su una carrozza scortata da due archibugieri, lo Svampa partí con il governatore Gessi per la sede distaccata dei birri di Trastevere, presso Ponte Sisto. Non riusciva a immaginare in quale guaio si fosse cacciato Cagnolo, ma per l’intero tragitto evitò d’interrogare l’irritante prelato. E, anche una volta entrato nella caserma, rimase in silenzio mentre si faceva condurre in una segreta adiacente alle prigioni.

In cuor suo, iniziava ad averne abbastanza di quella situazione. Proprio lui, che non amava lasciarsi distrarre né tantomeno sviare dalle indagini, fino adesso non aveva fatto altro che assecondare ora l’uno ora l’altro individuo. Era il momento di smetterla, si disse. Il tempo di togliere dagli impicci il suo bravo e si sarebbe recato di gran carriera alle terme di Diocleziano.

Ma quando giunse a destinazione, in una sala sotterranea illuminata da fiaccole, capí che ne avrebbe avuto ancora per molto.

Cagnolo sedeva su una panca con le manette ai polsi, davanti a un cadavere sdraiato su un tavolaccio di legno. Nelle vicinanze c’erano un paio di armigeri, il caporale dei birri di Trastevere, un notaio e – con suo grande stupore – il venerabile fra’ Ambrogio Brandi, priore di Santa Maria sopra Minerva.

– Venite, magister. Venite, – fece strada Berlinghiero Gessi, senza concedergli il tempo d’acclimatarsi. – Sarete curioso di sapere cosa succede, immagino.

– Oltremodo, – l’assecondò atono il commissarius.

– Ebbene, – spiegò il governatore, – poco prima che vi presentaste al mio palazzo, ricevetti un messaggio che m’informava del cosiddetto ripescaggio del vostro bravo dalle acque tiberine, non lontano da Porta Portese. Insieme a lui, c’era questo pesciolino, – e indicò il corpo sul ripiano.

Sempre impassibile, lo Svampa osservò il cadavere. Un uomo di mezza età vestito con il saio nero dei conversi di san Domenico. Uno strappo del tessuto, all’altezza dell’addome, metteva in evidenza una ferita profonda, cagionata verosimilmente da una spada o da un pugnale.

– Non l’ho ucciso io! – vociò all’istante Cagnolo, scattando in piedi. – Anzi, ho tentato di tirarlo su!

– Saresti diventato cadavere anche tu, – lo canzonò il caporale, rimettendolo a sedere con uno spintone, – se non fossero sopraggiunti i miei birri.

– Affogavo, – borbottò il bravo, cercando d’incrociare lo sguardo del suo padrone. – M’ero scordato di non saper nuotare e…

L’inquisitore lo fulminò con un’occhiata. – Cosa c’entri tu con quest’uomo?

– Procediamo per gradi, magister, – intervenne il governatore. – Riconoscete la vittima?

Lo Svampa aveva già tratto le sue conclusioni, ma preferí rivolgersi al priore della Minerva. – Lascio rispondere voi, reverendo padre.

Fra’ Ambrogio, un uomo basso che aveva superato i settant’anni e che guidava il convento domenicano di Roma da oltre quindici, lo fissò come se avesse appena assistito a un atto di profanazione. – È uno degli inservienti delle cucine della Minerva, – rispose con voce d’asceta. – Anzi, lo era, – e si fece il segno della croce.

– Lo stesso di cui si erano perse le tracce da stamane?

– Precisamente.

A quel punto l’inquisitore tornò al bravo. – E tu come l’avresti trovato?

– Per caso, padrone, – fece Cagnolo. – Passeggiavo.

– Come no, – sbottò Gessi, incredulo. – Fra le baracche portuali di Trastevere.

Il bravo non si scompose. – Mi piace rimirare i mulini galleggianti, vostra eminenza.

– I mulini?

– Embe’? Non si può?

Rosso di rabbia, il governatore afferrò il caporale per la collottola e lo strapazzò con foga. – Fai parlare questo fesso! – gridò. – Fallo, o giuraddio gli faccio cavar la pelle con le pinze arroventate!

– Invece non farete un bel niente, – esclamò lo Svampa, battagliero. – Quest’uomo è sotto la mia protezione.

Prima che Gessi potesse ribattere, il priore della Minerva si avvicinò al tavolo del cadavere e vi batté sopra un palmo. – Fra’ Girolamo, aspettate, – l’apostrofò con sdegno. – Vi rendete conto che costui è quasi di sicuro l’avvelenatore di padre Francesco Capiferro?

– Certo che sí, – disse l’inquisitore. – Ma se il mio bravo asserisce di non aver visto nulla e di essere estraneo agli eventi che provocarono la morte di questo individuo, io gli credo.

– Come osate! – tornò alla carica monsignor Gessi.

– Come osate voi, – gli rinfacciò lo Svampa. – Conoscete l’autorità di cui dispongo. Ebbene, se m’intralciate non esiterò a servirmene.

Il governatore era ben lungi dal voler cedere alla minaccia. – Quale autorità? – obiettò. – Questo omicidio non c’entra nulla con quello che vi è stato affidato.

– Sapreste dimostrarlo? – lo sfidò.

– Cosa insinuate?

– È palese, – ribatté l’inquisitore, fronteggiandolo con piglio aggressivo. – Padre Capiferro, ovvero un elemento indispensabile per la risoluzione del delitto di messer Ferrante Cattaneo, è stato avvelenato guarda caso proprio all’aprirsi delle indagini. Non escludo a tal ragione che si tratti di un sabotaggio. Un sabotaggio riguardante il mio caso.

– Vi state arrampicando sugli specchi, – gli rise in faccia il governatore.

– Può darsi, eccellenza, ma al momento non avete modo di confutarmi –. Cosí dicendo, lo Svampa strappò un martelletto appeso alla cintura del caporale e lo usò per aprire le manette di Cagnolo. Quindi, incurante degli improperi che gli venivano rivolti alle spalle, si avviò con la massima imperturbabilità verso l’uscita.

Non appena fu all’esterno della sede dei birri, lo Svampa allungò il passo verso le sponde del Tevere, con Cagnolo che gli andava dietro massaggiandosi i polsi. Il sole iniziava ad assumere una tonalità cremisi, mentre alcuni uccelli marini, giunti da chissà dove, graffiavano il cielo con i loro versi malinconici.

– E adesso, – ordinò l’inquisitore, – mi dirai tutto quel che hai visto e sentito.

Il bravo annuí. Attese che si fossero allontanati un altro po’ dalla caserma, poi, dopo essersi guardato intorno con un sorriso gaglioffo, raccontò al suo padrone di Gabriele da Saluzzo, della carrozza nera e dell’assassinio a cui aveva assistito.