L’alito dell’estate era fortissimo. Zagare menta gardenie gelsomini gigli sembravano impazziti alla Villa Regina Margherita di Bulàla.
Il fatto era che la Villa riapriva dopo tre anni di chiusura per lavori in corso (una gettata oscena di cemento, una riassettata ai muri di cinta una passata di vernice ai cancelli degli orribili lampioni tondi tondi che spuntavano qua e là tra i rami degli alberi come giganteschi testicoli di vetro).
Forse inconsciamente la scelta da parte del Sindaco e della Giunta era caduta su quel tipo d’illuminazione proprio perché quelle sfere di vetro liscio risultavano emblematiche d’uno dei pochi motivi d’orgoglio, sopravvissuti a Bulàla, allo scempio della nuova generazione dei Take That e Madonna: l’organo genitale maschile, per l’appunto. La virilità.
Ma queste erano solo congetture di Sasà che con l’ossessione del suo inesistente sesso smisurato sbandierato ai quattro venti da suo padre Cornelio, tra alti e bassi, c’era vissuto una vita.
Chissà dove stava la verità. Forse erano stati comprati quei lampioni solo perché in svendita, senza badare affatto alla foggia e, meno che mai, alle possibili analogie d’ordine anatomico.
Forse solo per favorire la ditta che li produceva. In entrambi i casi, niente a che vedere con le supposizioni di Sasà Azzarello.
Chissà dove stava la verità! Niente di più vero per fare capire qual fossero ambascia e pena di Sasà Azzarello alle prese con l’Ada una volta che, per bocca della ragazza, per sua spontanea precisazione, anzi correzione, Sasà aveva saputo che non era vergine, visto che lui non aveva capito un tubo.
Sì, proprio di correzione s’era trattato. Era toccato all’Ada correggere l’idea di verginità totale immacolata che Sasà s’era fatto all’atto di penetrarla la prima volta, giacché lui – si ricordi che solo con buttane era stato Sasà, poche volte e con scarsi risultati – non ci aveva proprio capito niente.
O meglio tutto l’opposto aveva capito. Forse per la disperata volontà di assecondare ciecamente, contro ogni evidenza, i desiderata del padre Cornelio.
Altro che spenzerito (serafico) Sasà di fronte alla pacifica sconfessione dell’Ada riguardo alla sua presunta falsa verginità.
Sconfessione accompagnata da un sorrisetto malizioso che lasciava intendere da quella bocca grande grande che due fossette conchiudevano a mezza mascella: «Che coglione sei Sasà mio? ci sei mai stato con una donna o…? non lo sai che ci vuole il sangue… e lo sforzo all’imboccatura… e l’impegno a superar lo Stretto del Canale?!»
“Oh sventura! Se solo ne fosse stata zitta quella creatura divina!” si diceva con sincero rammarico Sasà pensando alle disavventure con Maddalenina conseguenti alla perdita dell’Ada!
Invece no! Aveva voluto parlare precisare puntualizzare.
«Per amore di verità» aveva detto.
Che c’entrava la verità?! Per sé nel più profondo delle viscere se la doveva tenere la verità. Oltretutto che lui non la cercava la verità, non la voleva la verità!
Che c’entrava lui, Sasà, con la verità?
Lui niente cercava, solo il suo amore. Solo che tacesse benedetta creatura!
Che sono cose che si dicono quelle? che sono smentite da farsi, specie quando uno non abbia chiesto niente?
E Sasà che ancora se ne torturava di quella storia con l’Ada pensava proprio a se stesso.
A sé, che non aveva chiesto mai una virgola, forse proprio per il terrore della risposta (terrore determinato dall’effetto devastante che avrebbe avuto su suo padre Cornelio e, infine, sia pure per altri motivi, su di lui).
Quale amore di verità! La vita gli aveva rovinato quella verità. La sua e quella dell’Ada.
Una una soltanto al mondo ce ne poteva essere che dicesse la verità su quel tasto delicato, e per disgrazia era toccata a lui! (Questo era uno dei loci commiserativi su cui più indugiava Sasà Azzarello.)
A lui che amarla voleva, solo amarla devotamente eternamente sconfinatamente. Dalla mattina alla sera dalla sera alla mattina.
Un amore che giungesse fino alla Via Lattea alla costellazione dell’Orsa Maggiore e Minore.
A lui una simile disgrazia.
Solo amarla voleva Sasà. Solo questo e silenzio e bocca cucita.
Se questo era chiedere troppo…
La verità: che brutta bestia! più del colera uccide più dell’enterite acuta più della calcolosi più…
Sasà a questo punto sciorinava tutte le sue esigue conoscenze in tema di patologie mediche ritenute mortali.
«Però pure tu ti ci sei messo Rorò… per forza a zio Cornelio lo dovevi dire?… non lo sapevi come la pensava? che testa cruda da vero bulaliòto… mica come me internazionale cosmopolita con una visione laicocentrica del mondo… ah Rorò! bello mio… te la sei cantata e mi hai rovinato…»
E a questo punto scandiva: r-o-v-i-n-a-t-o!
«Un segreto e che? non lo potevi tenere? acido ti faceva? Va bene che io non c’ero riuscito a tenerlo il segreto… ma io ero il diretto interessato prigioniero in un peristilio d’assilli ma tu?… niente avevi che fare?… Il telegramma a quel modo lo dovevi scrivere?»
(È proprio cosa ardua la verità, soprattutto quando scrivendo si ha la tentazione di volerla individuare in una parte o nell’altra, ristabilire in qualche modo, e la storia di Sasà ci ha rinforzato in questo convincimento perché nemmeno quella che Sasà sbandierava, come verità, lo era. Non nel senso che fosse una menzogna ma nel senso che Sasà aveva una verità della pelle una degli occhi una della ragione una del ricordo una del rimpianto…)
La friulana Ada, alta un palmo più di lui, glielo aveva detto chiaro e tondo ancora stesi su un costolone d’erba a fianco a un canale, i piedi prossimi allo sputo dell’acqua in riva al fiumicello, dove Sasà aveva sciolto il suo cinto virginale non certo quello dell’Ada.
Gli aveva detto tra il leggiero sciabordio dell’acqua che gli azziddìcava (solleticava) non poco i piedi rattrappiti dall’ammollo prolungato, del colore delle lucertole morte nell’acquitrino, con le unghie viola come quelle dei cadaveri. Unghie lunghe, per di più, perché da solo non ci riusciva a tagliarsele, abituato che al paese ci pensava sua madre Tommasina, dopo il bagno della domenica mattina.
«Non è la prima volta, Sauro (lei lo chiamava quasi sempre Sauro, l’altro nome Sasà le pareva nome di canarini) non ti sarai mica fatto strane idee…»
«Ora dico» questo sottovoce borbogliava Sasà mentre s’avviava ai cancelli d’uscita della Villa Comunale spingendo la carrozzina del cugino Rorò «avessi chiesto! lo capirei… ma io niente avevo detto… beato pacifico ero col sorriso degli angeli alla bocca e i piedi al fresco dentro l’acqua del canalone…»
Pure strane idee le chiamava. E che strana idea è se uno se la vuole pensare vergine la sua donna… a chi fa danno?
Ah Ada! Ah creatura adorata, se solo avessi tenuto cucita quella bocca, se solo te la fossi ingoiata la tua verità o l’avessi affidata alla corrente del canalone o allo scarico del cesso!
Sasà il sospetto – quasi certezza – che l’Ada non fosse vergine ce l’aveva avuto. Eccome!
Non c’era stato sfondamento, non s’era perso tempo, non s’era visto sangue, il suo inguine era stato risucchiato nelle profondità addominali dell’Ada come l’acqua del lavandino quando la zia Carolina ci levava il tappo… ggluuscccccchhh e giù d’un colpo.
Queste osservazioni, sommate, portavano dritto dritto al fatto che l’Ada fosse guasta, non fosse giusta (per dirla alla Bulàla).
Ma a un certo punto il sentiero dell’Ada da molle pianeggiante nella radura d’ingresso, irto s’era fatto quasi impervio. Tanto che l’inguine piccino di Sasà era intruppicato come arpionato, e non riusciva a disincagliarsi. Fermo né avanti né indietro.
Dopo un attimo, però, di nuovo confortevole ameno il sentiero era diventato, fino all’estremo approdo dell’uncino di Sasà.
Quella minima tortuosità, quella difficoltà sia pur d’una frazione di secondo, poteva legittimare la tesi della verginità dell’Ada.
E Sasà ci s’era gettato a capofitto su quest’ultima tesi. Gli consentiva di non avere pensieri, di non affrontare il padre Cornelio, di ubbidire ai principi ricevuti in tema di donne, assieme alla Comunione. Di mettere d’accordo capre e cavoli.
Sasà era felicissimo di questa soluzione che la sorte gli offriva nella specie d’un qualche fisiologico benedetto restringimento della vagina dell’Ada, o d’un fatto infiammatorio che in quell’unico punto ne ritardava il totale risucchio – gluuuugggggggg.
Sasà non chiedeva altro che fingere di credere l’Ada vergine.
Di farla fino in fondo la scena di non aver capito… anzi di corredare quel momento d’intimità di tutti i corollari verbali che ipso iure conducessero alla indiscussa verginità della sua Ada.
E così era stato.
«… Tesoro un bruto sono… uccidimi… ti ho profanato nell’inviolato fiore… il candido giglio si fe’ rosa purpurea…» eccetera eccetera siccome la sua incandescente esuberanza retorico-letteraria gli suggeriva.
Forse, però, aveva ecceduto… forse anche lui aveva sbagliato, forse che doveva tacere muto. Un pesce.
E pure l’Ada allora avrebbe taciuto… forse l’aveva provocata quella verità contagiosa più del vaiolo… forse… chissà…
Questi dubbi ancora dopo cinquantanni lo perseguitavano anche se non bisogna dimenticare che Sasà di questo tormento di questa pena di questo dolore aveva fatto il più serio motivo della sua miserabile esistenza. L’oratio maxima della sua vita.
Aveva scelto la sua verità Sasà riguardo all’Ada: era vergine la friulana. Punto e basta.
Non chiedeva che un silenzio di conferma come dice il proverbio chi tace acconsente, non avrebbe voluto per nessuna ragione al mondo appurare né approfondire Sasà.
Credere voleva – e già ci credeva fermamente tenacemente visceralmente! – alla sua verità.
E invece l’Ada, unico amore della sua vita, gliela aveva rovinata la vita per sempre, vomitando l’altra verità: «Non è che ti sei fatto strane idee Sauruccio mio?… è per via che siamo su un declivio e per via che la sponda del canalone sale su di botto dalla riva e fa ponte sotto il mio culo… è per via che sono messa male col bacino che non poggia…»
Quante spiegazioni! Cento non una! (una la si poteva confutare.) Mille spiegazioni!
Una raffica di spiegazioni che trapassavano il cervello di Sasà come i colpi d’una mitragliatrice… e come mai si sarebbe potuto riparare? dove? quando?
Non gli dava scampo il suo amore. Dava una due cento spiegazioni a conferma della sua non verginità. Ci s’accaniva come fosse un vanto da non perdere per nessun motivo al mondo. Un primato. Macché! un unicum…
E se a un certo punto Sasà non si fosse dato per vinto mostrando di convincersene, avrebbe incalzato senza pietà alcuna, pure se lo vedeva pallido pallido. Tramortito con gli occhietti sprofondati chissà dove!
C’era rimasto mezzomorto Sasà sul corpo dell’Ada, coi piedi da becchino ammollo, congelati da quella maledetta verità che lo uccideva. No peggio! che intanava dentro di lui scavando gallerie cunicoli come le zecche sottopelle.
Perché Ada non ci s’era aggrappata all’esca di quella menzogna che lui sua sponte le offriva?
Ah dolce melodia d’una menzogna che acquieti gli animi intartariti dai pregiudizi!
Ah aspro talento della verità che confondi e imbalordisci i pensieri degli amanti!
Ada, nel riadattarsi le pieghe della gonna, ormai in piedi con i calcagni fuori dal canalone, lo guardava con gli occhi di chi non ha minimamente capito che una condanna definitiva è stata pronunciata. Un verdetto senza appelli.
E, per una strana beffa della verità, a sancire la condanna contro di lei era proprio colui che più d’ogni cosa al mondo diceva d’amarla.
Più dell’aria stessa o della luna, nelle notti di luna, quando infuriava tra i tegoli di terracotta e spingeva i gatti ad accoppiarsi.
“Magari l’avesse sussurrata, la verità, a sorsellini, in tempo che lui potesse strozzarglielo il fiato assieme al resto…” pensava Sasà stravolto solo al ricordo, pure se cinquantanni erano passati e faticava non poco a spingere per il lastricato del corso la carrozzina di Rorò.
Sasà Azzarello – per quanto stava a lui – non ci badava proprio alla verginità.
Mica la pensava da siculo lui!
Lui nella testa nordico era, mitteleuropeo. Cultura transalpina era la sua.
I suoi pensieri del nord erano: anima logos thumòs cogitazione…
Quelli del sud (pensieri s’intende): minghia sugaminghia stutacannìli (posizione erotica che vede la donna soprastante l’uomo) corna futtutìna (amplesso) al Cataratta li lasciava.
Degni di quel pezzente erano che prima, durante e dopo il suo matrimonio, alle nuzze (tacchino femmina) lo infilava il suo citrangolo di bestia!
Tutti lo sapevano a Bulàla che confortava il suo uccellaccio spiumato vecchio con le nuzze quel porco animale quadrupede bipede biscia insetto vermo del Cataratta! Roba da scomunicarlo.
Amarla voleva, Sasà Azzarello, l’Ada la friulana per tutta la vita se solo santo Vito l’avesse resa muta in quel momento in cui il demonio la spingeva alla verità!
Solo che stesse zitta, solo quello ci voleva ed era fatta.
Detto fatto, Sasà se la sarebbe sposata. In un fiat.
Un angelo per sé avrebbe voluto Sasà, altro che quel demonio di Maddalenina col fiato aspro di cipolla e la caviglia gonfia come l’ernia all’inguine!
La donna della sua vita Ada doveva essere. Aaaaaaadaaaaaada – e s’incantava come un vecchio grammofono dalla puntina rotta nel pronunciarne il nome, Sasà.
Che poteva mai dire suo padre Cornelio di fronte a quella creatura divina solenne come Atena Artemide Era?
Che mai avrebbe potuto contestarle? che era del nord?
E se anche, lui pronto con occhi di bragia:
«Razzista d’un terrone… miserabile massone…» e dritto in faccia il libro di pedagogia…
«Barbaro troglodita…» e dritto in faccia il libro d’educazione civica…
«Primitivo cavernicolo…» e giù dritto in direzione dei coglioni il libro di diritto costituzionale che pesava un accidenti…
A spada tratta in quel caso Sasà l’avrebbe difesa la sua Ada. Ma così come poteva difenderla da suo padre Cornelio? come poteva sostenerlo il suo amore?
Ada gli aveva fornito un’arma micidiale, si era data per ingenuità, corrotta da un folle insano talento alla verità, la zappa sui piedi.
Ora proprio lui Sasà, che più della vita stessa l’amava sarebbe di necessità diventato il suo carnefice. Doveva! Non c’era scampo! non c’era altra via, pure se a lui non gliene fregava un fico secco del fatto che l’Ada fosse andata con uno o con cento uomini, prima che con lui!
«Ma dove li metti» recitava Sasà col cuore morto che batteva rauco come le campane a lutto, mentre tentava d’abbrancarli i calzoni acciambellati alla caviglia «dove li metti i principî d’un padre?»
Gli ideali d’un padre sul proprio figlio, carne della sua carne, sangue del suo sangue?
E suo padre Cornelio di quegli ideali aveva fatto il suo pane quotidiano nelle miserie d’una vita ignobile vissuta tra due cretine: Tommasina e Carolina.
“Ora un figlio può fare torto a un padre? glielo può spezzare il cuore? lo può tramortire alla nuca come il più mostruoso dei delinquenti?” si chiedeva disperato Sasà.
La risposta era implicita, scontata, essendo la domanda retorica. No un figlio non può. Non può.
Sasà non poteva calpestare gli ideali di suo padre che in primis voleva per lui una moglie vergine, come peraltro era stata la sua: Tommasina cretina ma vergine.
Sasà sempre, fino ad allora, aveva tenuto testa al padre dichiarandosi ribelle estremista alfieriano. Ma di ben altro s’era trattato:
Sasà la maglia di lana… Sasà lavati i denti… Sasà a quei figli di buttana sempre tu gliela devi pagare la granita coi miei denari? Sasà finiscila con la recita mentre mangi ché dentro il piatto mi sputi… Sasà non ci tirare la scarpa alla gatta ché si rovina la pelle…
E Sasà a resistere fieramente, a fare caparbiamente di testa sua, a fronteggiarlo il padre che infine cedeva rassegnato e compiaciuto al fatto che quel suo figliolo era ribelle ribelle… i minchioni calano la testa ecco Rorò ch’è minchione cala la testa ma Sasà ch’è un genio ribelle è… ha temperamento… diceva Cornelio Azzarello sotto sotto compiaciuto con le fiaccagote lucide, ripassate a mo’ di brillantina con la vernice testa di moro, quella che usava per colorare la crozza calva.
Già risalendo per l’erta cretosa del canalone Sasà Azzarello lo sentì chiaramente che si dileguavano dal suo corpo l’intellettuale il nordico il poeta. Sparivano, creature nobilissime, esiliate da un demonietto che aveva la voce e i comandi di Cornelio Azzarello.
Usciva l’uno, Sasà, mite magnanimo comprensivo, entrava l’altro, Sasà-Cornelio, despota masculo possessivo.
Già per strada Sasà ebbe le prime allucinazioni. Vedeva i bottoni del vestito dell’Ada, bottoni rotondi, un po’ schiacciati, in finta madreperla, uno appresso all’altro come usava nel dopoguerra dal petto al polpaccio, sollevarsi, persa ogni rotondità, in forma d’orribile pene, irti minacciosi, e accusare l’Ada d’essere proprio come sosteneva Cornelio: buttana.
Per la strada Sasà-Cornelio bevve a tre fontane ché, per le allucinazioni del delirio, gli era venuto un febbrone da cavallo, 42° almeno.
Camminava zigzagando da una parte all’altra della strada con grande meraviglia dell’Ada che impettita come sempre, sostenuta dal misfatto d’averla detta la verità, incedeva con passo militare. Fresca come una rosellina di maggio.
Quelli che seguirono furono tre mesi d’inferno per Sasà e la friulana.
Tre mesi in cui Sasà sperò di venirne a capo da solo, di trovarla una soluzione, senza oltraggiare papà Cornelio che scriveva due lettere a settimana, e ogni cinque del mese mandava il vaglia telegrafico coi danari. Tre mesi che videro Sasà ridursi a una foglia di lattuga in un piatto di brodo.
Esile, Sasà galleggiava nei vestiti, verde in faccia come avesse la malaria o la melitense.
Dormiva pochissimo ma di questo – grazie a Dio – non s’accorgeva Rorò che ronfava tutta la notte.
Niente università, sempre appresso all’Ada che faceva l’ultimo anno d’infermiera professionale.
Sasà s’era comprato il camice da infermiere coi danari che zia Carolina gli aveva spedito per l’impermeabile. Pure di starsene in corsia assieme all’Ada, appiccicato alle sue costole, letteralmente invasato, durante le otto ore di turno.
Per capire? per spiare dai suoi occhi dai suoi fianchi dal suo colorito minimi segni di conferma? per avere quelle prove d’innocenza d’illibatezza che lei gli negava senza ritegno? per strapparle qualche benedetta menzogna che rimediasse alla fatale verità?
Una volta Sasà, in corsia, pure un clistere aveva dovuto fare per non insospettire la caposala che lo credeva studente nuovo di primo anno.
E lui per non perderla di vista un solo attimo la sua Ada, pure il clistere aveva fatto a uno che doveva essere operato d’emorroidi. Ah se l’avesse visto suo padre Cornelio Azzarello!
Kant Hegel Marx Leopardi Foscolo erano scomparsi dalla sua vita. Totalmente. Tra aghi di sutura clisteri acido borico e alcool denaturato.
Come prima cosa Sasà-Cornelio s’era fatto dire dall’Ada chi le aveva fatto il danno (fare il danno nel linguaggio di Cornelio-Bulàla significava sverginare).
Era stato un carabiniere, in servizio a Padova.
Via via che l’immagine del carabiniere si disegnava agli occhi di Sasà (in forma di sileno satiro minotauro) si aggiunse un particolare fatale per Sasà (quando si dice che sul bagnato ci piove!): il carabiniere era siciliano, di Palermo.
Cornelio si sarebbe preso l’infarto di sicuro a quella rivelazione. Il cuore avrebbe eruttato per aria, atri e ventricoli compresi, come un vulcano.
La sorte lo perseguitava! Sì la sorte lo perseguitava non gli dava tregua, in tutti i modi più abietti e perversi!
In quel momento cominciò a concimarsi a ingigantirsi quell’autocommiserazione che sarebbe stata la più fidata amante di Sasà, la più fedele compagna della sua vita!
Cominciarono i giuramenti. Giuramenti sui santi o sui parenti? Macché!
In treno ogni giorno finito il turno dell’Ada in ospedale, Sasà, stravolto da quella verità che non gli riusciva d’annegare in un canalone, in un fiume, portava Ada da un punto all’altro del Friuli e del Veneto.
Alle stazioni più sperdute, in cima a un pendio, o in fondo a una vallata deserta, laddove Sasà decideva che si dovesse scendere, scendevano lui e l’Ada, che lo seguiva sbuffando alle sue spalle.
Ada lo assecondava pensando da ingenua ragazzotta friulana… è un siciliano sangue caldo è geloso gli passerà… s’accomoda tutto… è buono come il pane… il tempo di farci il callo… un po’ di bizze…
Il luogo di destinazione era medesimo in qualunque stazione scendessero: il cimitero.
Uno cento mille cimiteri. Piccoli grandi sperduti arroccati su greppi ripidi scoscesi dove entrambi, Sasà e Ada, arrivavano stravolti trambasciati dopo un’ora e più di cammino a piedi per torciglioni forre balze dirupi della montagna.
Tarvisio San Giorgio di Nogaro Passo della Mauria Cime dei Preti Auronzo di Cadore Montebelluna San Tino di Livenza Scorzè Spinea Bussolengo Bassano del Grappa…
Friuli e Veneto in lungo e largo, da nord a sud, dalla costa alla mezzacosta all’altopiano per tre mesi, mentre il tepore della primavera cedeva alla calura assassina dell’estate, come le gambette di Sasà cedevano al prolasso fatale dei nervi.
Mezzomorto Sasà, pelle e ossa, più di là che di qua, il naso sì spolpato che s’accasciava come tibia di pollastrella sul mento a becco d’airone, chiedeva alla sua Ada giuramenti. Sempre medesimi, in ginocchio, le mani giunte davanti a tombe di sconosciuti sventurati, di cui l’ovaletto in maiolica con foto rimandava un’immagine sbiadita, insidiata dall’umido e dalle ragnatele.
Occhi sorrisi fissati in chissà quale momento d’allegrezza, così aspramente in contrasto con quelle lapidi marmoree di morte.
Lo giuro mi moro se non dico la verità uno e uno solo… Io giuro dinanzi a questa tomba benedetta… uno e uno solo il carabiniere…
Per un quarto d’ora Sasà sembrava chetarsi, grazie al giuramento, ma poi il demonietto (Sasà-Cornelio) si risvegliava più feroce che pria.
E allora ricominciava il pellegrinaggio tra croci lapidi fiori secchi fiori di panno Lenci tra vasetti di zinco e fotografie di volti stralunati, con la paglia in testa, o il cappello da prete o il pennacchio da bersagliere.
La scelta della tomba ovviamente la faceva Sasà. Erano oltre che – come s’è detto – neonati giovani spose militari, anche preti. Soprattutto preti.
Non che i preti Sasà ce l’avesse in simpatia. Nient’affatto! lui laico era, indipendente, assertore d’una cultura antropocentrica non teocentrica.
Sapeva, però, che l’Ada in famiglia aveva due zii preti, uno zio vescovo addirittura. E tre zie suore di clausura.
Quanto ai militari il discorso era un altro. Cominciavano gli aneliti patriottici di Sasà con conseguenti declamazioni: «Su questo sangue innocente come quello di nostro Signore Gesù per la Patria versato con sprezzo della vita… giura… giura giura ancora giura forte più forte.»
E l’Ada giurava forte più forte coi cannarìni (corde vocali) consunti dallo sforzo, medesimi sempre il formulario e il rituale: Giuro mi moro… mi moro et cetera et cetera…
In Sasà Azzarello che amava l’Ada più che la vita s’era intanato, poco a poco, ma ormai fino al midollo, un orribile proponimento.
Uccidere quello che di ignobile restava in lei del palermitano, carabiniere di prima nomina a Padova, che oramai non poteva più rinnegare.
Inutili tutti i faticosissimi stremanti tentativi in tal senso, che avevano avuto come unico risultato quello di portarlo a un centimetro dalla tomba.
Quel che del palermitano restava dentro l’Ada a contaminarne le carni, l’anima, andava distrutto nel senso letterale del termine.
Così gli abbracci diventarono morse di ferro, gli amplessi stupri e Sasà s’agitava come fosse indemoniato affatturato sul corpo dell’Ada, sferrando pugni ora qua sul fianco destro, ora là sul sinistro, ora sul bacino.
Ora una ginocchiata all’addome, ora uno strattone al torace perché per un fenomeno visionario allucinatorio tra sé e l’Ada ci vedeva il palermitano. Per di più in divisa da carabiniere…
L’uniforme i bottoni dorati le coccarde i baffi svirgolanti accespugliati (chissà perché, Sasà se lo figurava coi baffi il palermitano) prendevano corpo. Prima bassorilievo poi tutto tondo.
Da qui quell’agitarsi scomposto tumultuoso sull’addome dell’Ada che si segnava di lividi neri come l’uva di Solicchiata quand’è tempo di vendemmia…
Un pugno all’occhio del carabiniere, la cui immagine si sovrapponeva a quella dell’Ada, per Sasà, in preda al delirio, in realtà tumefaceva per quindici giorni quello dell’Ada.
Sasà odiava quello che nell’Ada doveva pur essere rimasto del palermitano, e voleva stanarlo a tutti i costi. Una fissazione, la sua, dalla quale niente e nessuno riusciva a farlo desistere.
Tracce minime, piccoli segni (un capezzolo zichiniato dalla lingua di quel miserabile, una positio erotica che lui cercava d’intuire da ogni più piccolo movimento dell’Ada, da ogni sua più schietta improvvisazione).
Segnali che per lo più erano falsi allarmi, determinati da un improvviso starnuto una grattatina alla schiena un po’ d’allergia alle fragole…
Quello che del carabiniere di certo c’era – per forza ci doveva essere. E come no? – nella sua adorata Ada, e che non gli riusciva di stanare pur braccandolo come un furetto bracca la lepre nel fosso, poco a poco aveva finito per confondere i suoi sentimenti per l’Ada.
C’erano volte in cui Sasà, quando la guardava in quei fianchi grassi inquartati accippati sull’ossa – fianchi tipici di chi è femmina da letto – sentiva d’odiarla. Sentiva salirgli al cervello un tossico tale che non c’era altra via che metterla alla prova. Una prova dura infallibile. Non una cosetta senza rischio.
Una prova ardua, ideale a mostrare la sua innocenza la sua buona fede: il suicidio.
Sasà le avrebbe chiesto d’uccidersi. Se l’Ada accettava e ci moriva, finalmente dubbi allucinazioni visioni avrebbero smesso di torturarlo. E lui si sarebbe votato per sempre a quell’Angelo del paradiso, con tanto di preci lacrimoni gladioli ed elegie.
Sasà considerava tra l’altro che ridotto com’era, uno spaventapasseri, cereo allivastrato con fibrillazioni da gallo d’India, tachicardie, ronzii nelle orecchie, rischiava di morirci lui di quell’angoscia, da un momento all’altro.
Sasà pensava che la colpa di quella prostrazione che gli stampava la morte in faccia come una formina di mele cotogne era dell’Ada, non perché non fosse vergine, ma perché s’era lasciata andare a quell’osceno “amor di verità”, riducendolo in fin di vita.
Oh destino infame! Per una volta che si era innamorato sincera gli doveva capitare! onesta! leale… peggio di così…
Questo pensava Sasà, e se ne torturava ché lui solo di quella sincerità e onestà ne faceva le spese, ci moriva. Quindici chili in due mesi, occhiaie da spelonca paleolitica, fibrillazione extrasistole e tutto il resto.
Dopo due mesi Sasà s’era determinato al partito del suicidio dell’Ada. Voleva proporre all’Ada d’ammazzarsi.
I giuramenti non servivano a dargli pace ma solo a fargli staccare la carne dalle ossa, il cervello dalla testa, e scuocergli i piedi delicati con vesciche immonde e piaghe che si profondavano un centimetro nel tenerume della sua carne natia.
Mentre l’Ada, a ogni stazione, comprava certi panini con provola e salame da sfamarcisi in cinque a tempo di guerra!
Sasà aspettò il momento buono per parlarne all’Ada, e infine glielo disse. In treno mentre l’Ada beveva lo spumantino dei colli Euganei direttamente dalla bottiglia.
Ah tormento! quel collo di bottiglia in bocca all’Ada afferrato dalla morsa delle sue labbra grandi tritrignose, quel collo di bottiglia arrotondato, cosa non parve al povero Sasà, per via delle allucinazioni! Solo il colore era diverso ché nei maschi non è verdino come il vetro delle bottiglie.
Ripensando alle labbra di lei: una morsa al collo della bottiglia… una calamita… come l’asserpavano la bottiglia e allora dunque forse sicuro col carabiniere… com’era spontanea brava a tirare dal collo della bottiglia… un ritmo un’armonia di gesti perfetti… una sincronia… maxillo-palatale-facciale mai vista…
Quali fossero le visioni di Sasà Azzarello riguardo all’Ada che sucava dalla bottiglia, quale il suo strazio è facile intuirlo.