La Villa Regina Margherita era stata chiusa per tre anni con la scusa LAVORI IN CORSO come si leggeva sul cartellone davanti al cancello arrugginito. Inverosimilmente arrugginito e chiuso.
C’erano voluti tre anni per una gettata di cemento in terra, una rozza sistemazione delle aiuole. Tre anni per una passata di vernice alla cancellata d’ingresso direttamente sopra la ruggine che già sforacchiava la vernice bianca con sboffi bucherati, da vaiuolo, grandi un’unghia e quattro piastrelle di terza scelta alla latrina turca, dietro il chiosco, all’angolo, in direzione dell’albero di Giuda.
La chiusura della Villa era stata per Sasà Azzarello una vera calamità, una delle sue più declamate disgrazie perché la Villa era il Tempio dei suoi pensamenti, la sua Stoa, il suo Ginnasio, il santuario delle sue idee.
Non se n’era dato pace per tre anni. Ne aveva parlato straparlato inveito deplorato, ogni sera, nelle sue chilometriche passeggiate, con ogni tempo. Sole grandine diluvio afa bufera tregenda.
La testa sempre alla Villa. Fuori non gli riusciva di concentrarsi. Solo pensieri miserelli stentati intisichiti itterici. Non un pensiero forte degno della sua mente. I suoi pensieri glieli concimava la Villa. Per questo anche da ragazzo v’andava tra i vecchi, sbalordendoli con le sue stranezze oratorie le sue demenze eloquenziali.
Per questo già da allora la preferiva alla piazza Vittorio Emanuele, dove se ne stava la gioventù.
Privi di quel miracoloso concime ch’era la Villa i suoi pensieri avevano perso tempra vigore nobiltà robustezza fierezza arditezza. Tutto avevano perso, non erano che pensieri stitici debolucci anemici.
Sasà ne era arciconvinto del potere della Villa sul suo intelletto.
Per questo non s’era dato pace mai della chiusura della Villa, nel suo girovagare dalla pretura al cimitero, dal cimitero alla pretura – sopra il muraglio del Bastione – sempre con lo stesso ritornello, sempre con medesimi interrogativi: perché non si sbrigavano?… in Consiglio comunale sedevano degli inetti, delle minchie morte. Gli operai si nannuliavano… l’impresa rubava… il capocantiere si portava a casa il cemento e le piastrelle buone per la sua villetta al mare… lo spreco era incredibile una vergogna… pugno di culattieri parassiti leccaculo scuncicacazzi avevano ridotto la Villa a un cantiere e gatti topi randagi faluche ci facevano il loro quartier generale con una pacifica spartizione del territorio… che bastardo! il progettista… che culorotto il direttore dei lavori… e via dicendo di questo passo a mezzavoce, su e giù per il paese, Sasà Azzarello aveva passato tre anni senza la sua Villa.
Il risultato era disastroso. I suoi pensieri erano ridotti allo stremo, leucemici ormai e il Cataratta era lì lì per prendere il sopravvento anche riguardo alla sciagurata ipotesi dell’uguaglianza.
Questo stato di debilità di fiacchezza può far capire quanto spaventosa fosse la prostrazione di Sasà Azzarello senza la sua Villa Regina Margherita.
Mezzo cuore gli avevano strappato quei furfanti assessori e consiglieri chiudendo la Villa. Quanto al fegato non se lo sentiva più già da tempo, segno che doveva essersi sciolto accanto al sacchetto della bile.
In siffatte quotidiane lamentazioni riguardo alla Villa Comunale Sasà Azzarello era ampiamente sostenuto dai suoi abituali amici, il Bronzino il Pinna l’Ammazzapreti e insino il Cataratta…
Ne condividevano appieno lo sdegno le filippiche serotine l’accalorarsi del gesto l’impennata della voce e poi che – innegabile! – il suo italiano era fino di grammatica, bene acculato di sintassi, sulla questione della Villa gli riconoscevano il ruolo di portavoce del gruppo.
Insino il Cataratta, in merito all’oscena faccenda della Villa e agli intrallazzi per la sua sistemazione, non poco lo spalleggiava.
La Villa era il cuore del paese, dopo la Piazza. La filosofia di Sasà Azzarello spiegava, non senza l’ausilio di paradossi e assiomi, che alla Piazza si riservavano i vaneggiamenti i bollori le bottedisangue della gioventù. Alla Villa le meditazioni le riflessioni i pensamenti della vecchiaia.
Come dire che la vecchiaia era meglio, meglio assai della gioventù. Il vino maschio a fronte della debilità baubaujna del vinello spocchiosetto in prima spremitura.
In genere, dopo i cinquantanni, era fatidico quasi fisiologico il passaggio dalla Piazza, di fronte alla Matrice, alla Villa Comunale dopo i Quattro canti.
Dapprima erano piccole sortite, quando sì quando no, come per caso, di passaggio, a corri e fuggi. Minime soste vicino al cancello con la scusa di posarci la borsa della spesa e fare riposare il braccio, o di vedere quella tal pianta o quell’altra.
Piccole sortite sempre in principio della Villa. Più di qua, dalla parte della strada, che di là, dalla parte della Villa vera e propria.
Timidi passi da soldatino di leva mandato in avanscoperta nel territorio del nemico. Passetti da lumaca, rincalcando i calcagni come puntelli. Passetti asmatici guardinghi presi con comodo.
Tanta circospezione si legittimava col fatto che quando si veniva adocchiati dal branco dei frequentatori abituali della Villa non c’era più scampo. Finita! finita per sempre!
Era questione d’un attimo. Una zanzara nella pancia d’un ragnaccio.
Il branco a un tempo adocchiava e catturava. Un sorriso una pacca sulle spalle una stretta di mano una tiratina di gomito e ci si finiva dentro peggio della selvaggina nel fosso quando i cani le stanno alle costole.
Ci si ritrovava in mezzo alla Villa in uno stato di trance, storditi dal cicalare allegro del branco, ramminchioniti dai saluti di benvenuto, dai convenevoli.
Era come se dalla Piazza alla Villa si cambiasse continente latitudine e longitudine. Succedeva come quando ritornava dall’Australia o dall’America uno di Bulàla e tutti addosso da vere sanguisughe al caffè.
A chiedergli conto di questo e di quello – le femmine australiane i dollari i bordelli – a rapinargli fiato e cervello, a lasciargliela secca la lingua e i polmoni.
Accedere alla Villa nella condizione di fruitori abituali, di inquilini fissi era segno inequivocabile d’una resa incondizionata alla vecchiaia ai suoi acciacchi alle sue miserie ai suoi cedimenti.
Un aspetto positivo nel battesimo d’ingresso ufficiale alla Villa c’era però. Una sorta di liberazione, di catarsi rispetto alla paura che destava la vecchiaia.
La Villa diventava uno strumento di forza di resistenza di sicurezza proprio perché per lo più s’affrontavano discorsi – la malattia l’invalidità la morte – che alla Piazza venivano rigorosamente banditi.
Alla Piazza si discorreva d’affari politica femmine sindacato salario manodopera… Nessun accenno ad artrite varici prostata prolasso coliche.
Il passo era lesto spacchioso, le tibie forti, i muscoli del petto generosi sul costato ingrugnato, le teste spavalde turrite di riccioli cespugliati anniuricati da malandrinetti di paese.
La parlata era spiccia chiara maschia, i toni rombanti ingurriosi. I periodi brevi ma incisivi, con due intercalari ossessivamente ricorrenti: minchia e culo.
Intercalari che, per la meccanicità con cui venivano pronunciati, erano in un certo senso analogici all’ora pro nobis del Rosario in chiesa alle cinque del pomeriggio.
Erano un marchio a garanzia d’una totale lucidità di mente, d’un vigore da toro, se mai qualcuno ne avesse dubitato, e in quel caso il dubbio lo si leggeva nettonetto nella sua pupilla selvaggiola.
Minchia solo minchia ristabiliva pesi e misure. A un tempo metro e bilancia d’intelligenza di mascolinità di talenti e virtù.
Non era un fatto di parola, né di sillabe o vocali. Il carisma della parola minchia era legato a un fatto di pronunciamento dilatativo. Soprattutto della labiale m che aveva una partenza per così dire in scalata pressappoco mmmmmmmm con un’intonazione bovina.
Il carisma della parola era legato a un concerto d’armonie e d’equilibri tra lingua palato frenulo pendulo gengive mascelle e ghiandole salivari, che avevano un’importanza determinante per la tenuta della voce.
«Un conto è la lingua bene ammollata, sazia sazia. Un altro la lingua secca secca intartarita ingrommata» spiegava il Cataratta ch’era maestro al riguardo e non temeva concorrenza.
Nella Villa altro era il tono, altri i discorsi. Ogni allusione al culo, per esempio, era riservata alla patologia più comune e dolorosa dello stesso: le emorroidi.
Venacce bummuliate, spesse un mignolo quanto le costine di castrato, che sbottavano a sangue con dolori amarissimi.
Oppure se si nominava il culo era esclusivamente in riferimento alle pappette d’erbe, al passato di patata, che potevano fare miracoli e addirittura sanarlo, col tempo.
Alla Villa tutti diventavano pazienti, anche quelli che alla Piazza erano stati vuciazzeri eretici indemoniati.
La pazienza alla Villa era un fatto naturale e anche il tono sottovoce della conversazione, le lunghe pause sul sedile di ferro arrugginito, decise solo con l’intesa degli occhi. Una pinzatina delle palpebre, una codina di lucertola sul ciglione dei peluzzi leggieri che cedevano mansi mansi a una folatella di tramontana a uno starnuto e s’accucciavano tra le foglie secche, o tra quei bioccoli di peluria e frasche che i nidi perdono quando invecchiano.
Unico esemplare in tutta Bulàla sfuggito a questa chiarissima spartizione, di qua o di là (più o meno come si faceva con i pulcini: di qua, nella cofina di vimini, quelli grossi perfetti da vendersi al mercato, di là quelli presi dalla rogna difettati da tirarci il collo per il brodo), era Sasà Azzarello.
Andava alla Villa da sempre. Da quando aveva quindici sedici anni, pure al tempo in cui faceva il comizio in Piazza per gli anarchici umanitari e poi l’anno dopo per i monarchici. E quello dopo ancora per i comunisti e infine per i repubblicani.
A quanti – tra questi il Cataratta – gli rinfacciavano gli spaventosi voltafaccia della sua ambigua reprensibilissima condotta politica, a quanti gli dicevano ch’era senza spina dorsale e non si davano pace della sua sfrontatezza, della totale deficienza di carattere, di fedeltà a un impegno, uno che fosse uno: Minchia! come si fa a essere un anno monarchico e un altro comunista ultrà? buffone Sasà!… marionetta… teatrante nato…
A tutti questi – erano un piccolo esercito – Sasà rispondeva schizzando gli ossi sopraccigliari, a che gli occhietti da bruco si vedessero infiammati dal suo nume ispiratore, il suo genio tutelare: la Filosofia! che giungeva a soccorrerlo sempre, a legittimare qualunque buffonata conseguente alla sua radicale assoluta mancanza di carattere di coraggio di impegno.
«Cambiare è segno di crescita… solo la pietra non cambia, lei sventurata che non ha la grazia d’avercela un’anima… anche l’anima muta cresce intristisce… esulta… si strazia… inaridisce… imbarbara ingrotta… e l’uomo assieme a lei… non è al suo servizio forse quella carcassa chiamata uomo?… l’anima detta il cangiamento, l’uomo servitore fedele ubbidisce…»
A questo punto anche da giovinotto interveniva il Cataratta, ch’era coetaneo di Sasà, col suo fidatissimo cavallo di battaglia:
«Minghiate minghiate minghiiiateee… quante ne spari Sasà!»
E lo diceva con tale entusiasmo che specie di notte la voce nella Piazza ai tavolini del caffè Bellavista era più forte delle campane di mezzogiorno.
«La verità è che» proseguiva Sasà «voi buoi azzampati coi cervelli pietrificati… non ci capite niente dell’anima… l’anima non è cosa per voi… per voi è la zappa la tenaglia il broccolo la giumenta… lasciamo perdere lasciamo perdere…»
Sul fatto che quelli del caffè non ci capivano un tubo Sasà Azzarello comunque aveva proprio ragione. Anche se un poco se ne preoccupava del fatto che il partito a lui ostile cosiddetto Partito delle minghiate cresceva a dismisura di anno in anno, di mese in mese, se non addirittura di ora in ora.
La Villa aveva avuto un effetto straordinario da sempre su Sasà, già da quando era giovinotto. Lo confortava lo rassicurava solo con l’esibizione dell’altrui disfatta, fisica e mentale. Col prolasso di corpo e testa.
La miseria della vecchiaia – ch’era il vero trionfo della Villa – rafforzava i talenti di Sasà, le cianchellanti sicurezze, le infratite spavalderie, gli ideali che cangiavano lesti più che gli alberi in novembre. Dalla fronda del giorno prima alla calvizie sconsolata del giorno dopo.
Poiché Sasà frequentava la Villa già dai tempi del liceo, per lui non s’era potuto dire come per tutti gli altri che a un certo punto della vita giocoforza s’arrendevano definitivamente alla Villa niente niente ormai va alla Villa, come dire è finito è rimbecillito il cervello? Pancotto con l’olio gli è diventato e cose simili per dire che uno era scimunito, che valeva ormai quanto la cacca della gallina vecchia.
Sasà era vissuto con tale confusione di luoghi affetti passioni orari ruoli vicende almanacchi destinazioni direzioni che da quando per via dell’età frequentava a tempo pieno la Villa Comunale di fatto questo vantaggio (ammesso che lo fosse) se lo ritrovava.
Insomma Sasà era stato sempre per le filosofiche stranezze dei suoi comportamenti, in un certo senso, vecchio anche da giovane.
L’assurdo era che ora che vecchio lo era veramente, inconfutabilmente – la testa sconsolata con quattro capelli inverditi del colore che prende il panno nero quando invecchia, le spalle impalate – sembrava non accorgersene nessuno se non lui.
Non era stato un fatto di furbizia l’andare alla Villa da giovanotto. Proprio no!
Tutto si poteva dire di Sasà – volubile teatrante animello – tranne che fosse furbo.
Era che quell’uscire da sé, dalle stecche d’una gioventù che lo stringeva peggio d’un busto di gesso, gli piaceva non poco.
Per non parlare poi del fatto che le sue esibizioni d’afflizione di furor di pathos, quell’invocare e a un tempo maledire gli spiriti guerrieri del suo cuore, avevano un grande effetto sui vecchi silenziosi della Villa che assistevano increduli stupiti sbigottiti e talora – quando Sasà esagerava con le narici fischianti peggio della littorina etnea quando arrivava in stazione – un tantino preoccupati.
Sasà alla Villa aveva trovato il pubblico ideale, quello che guardava con pupille stanche renosicce e non fiatava. (I vecchi, si sa, sono avarissimi del loro fiato. E poiché parlando il fiato si sciupa, se ne stanno zitti. Di quando in quando solo un gemito catarroso da vecchie tortore.)
Per capirci ci capivano poco e niente, specie quando Sasà gridava di cupio dissolvi, ubi consistam.
L’unica cosa, però, di cui erano certi era che Sasà, il figlio del Direttore didattico Azzarello, avesse qualche rotella fuori posto, o che chissà con quale diavolo ce l’aveva.
Sasà smaniava s’agitava implorava sputava mimava crisi epilettiche invocava la morte imprecava contro la natura matrigna che lo voleva infelice e sventurato. Saliva d’un balzo sul sedile si gettava a terra dalla spalliera con le braccia aperte ad ali d’uccello.
Poi, però, che il volo non superava il metro arrivava sano e vegeto sulla battuta di terriccio, tra qualche sputo di tabacco e odor di piscio.
I primi tempi, appena tornato da Padova dove aveva studiato all’università, i vecchi della Villa l’avevano guardato con una certa preoccupazione pensando che fosse fuori di testa per qualche malattia da bordelli, sifilide scolo cresta di gallo.
Come succedeva spesso ai soldatelli di leva, che poi per la vergogna non si facevano curare e, quando la malattia gli arrivava al cervello, impazzivano.
Piano piano però, a furia di vederlo ogni giorno, s’erano convinti che fosse solo una sceneggiata, uno spettacolo, che il figliolo del Direttore Azzarello era un teatrante nato, che suo padre aveva gettato chissà quanti denari per fargli studiare fesserie.
Mentre che per fare la scimmia, qual era la vocazione del ragazzo, non c’era bisogno d’una lira. Bastava solo affidarlo a qualche circo, di quelli che passavano da Bulàla in estate, ogni anno.
In ultimo s’erano convinti che Sasà aveva il culo chino, cioè che essendo figlio unico aveva il sazio di tutto, aveva il culo pieno, e per giunta faceva la scimmia.
A Bulàla il culo chino era considerato alla stregua d’una malattia. Certo i libri dei dottori non ne parlavano, nell’Enciclopedia medica alla lettera C non lo si trovava tra le patologie contemplate. Né costituiva argomento di diagnosi. Era, invece, una malattia a tutti gli effetti, meno appariscente di altre, ma più insidiosa e recidiva.
Era la malattia di chi non aveva fatto il soldato, di chi a diciottanni aveva un vestito doppiopetto, di chi faceva notte al caffè Bellavista senza pensieri di mestiere.
Di chi mangiava carne tre volte a settimana, e gli altri giorni fegato rognone reni.
Alla Villa i frequentatori abituali lo riconoscevano subito uno che avesse la malattia da culo chino.
Vestiti di lana fina comprata in città, scarpe di concia, la cravatta, i calzini di filo scozia con l’elastico fitto che non li faceva stramazzare alla caviglia come quelli di filanca. La brillantina nei capelli e, soprattutto, discorsi strampalati né in cielo né in terra.
Sasà Azzarello, figlio del Direttore didattico alle scuole elementari Cavour a piazza del Gesù, i sintomi della malattia ce li aveva tutti.
Segaligno, ossuto, asciutto, le giacche a doppiopetto, le mani affusolate, l’unghia curata di chi non ha mestiere, di chi non fa un bel niente.
«Che vuole questo?… chi è?… con chi ce l’ha?» dicevano in principio dinanzi ai capitomboli circensi, alle grida sussultuose di Sasà, quando ancora non lo conoscevano alla Villa, né avevano potuto farci il callo.
«Con la natura se la piglia questo scimunito fuori dalla grazia di Dio e proprio quest’anno ch’è piovuto a tempo giusto e il frumento è grosso come le olive… il fatto è uno solo, che è strammiàto e ha il culochino… abbaia… latra… ulula… con tutto questo studiare fa lo sminghiato e forse pure ci piglia per il culo a noi…»
E ancora: «Il Direttore Azzarello i danari per farlo studiare al Continente li ha gettati dalla finestra, letteralmente gettati… vedete… che meraviglia di risultato!… Ma poi che cosa ha studiato si può sapere? ingegnere non è avvocato non è… medico forse è? ma quale medico e medico! neanche per sogno…»
«Quello al Continente cose di pazzi ha studiato che non valgono un fegato di moschiglione… tanto che ancora suo padre lo mantiene pure se ha moglie…»
«Partito di testa è, sicuro… avanti indietro avanti indietro dalla Piazza alla Villa. Dalla Villa alla Piazza… fa il comizio sul palco rosso e poi si viene a gettare dalla spalliera del sedile con quella facciuzza affilata che mi pare l’arcangelo Raffaele… e quei piedi nichi nichi e quanto corre… dalla Villa alla Piazza e viceversa… senza sosta… pazzo pazzo sicuro la midùdda (il cervello) s’è mangiato al Continente… pace non ne ha…»
«E non ne dà!» di rimando un altro.
«Con questa malattia solo una cosa c’è da fare, mandarli a lavorare, a calcinculo se è il caso… potare levare sterriccio… nettare le porcilaie… i pozzi… e un’altra cosa pure si può fare… lasciarli morti di fame fino a che i budelli calano dentro il cesso assieme al bisogno…»
Infine infine, però, pure se lo criticavano di santa ragione ci si divertivano i vecchi con Sasà alla Villa, ci passavano tempo.
Lo sfottevano (ma lui non lo capiva per niente) ridacchiavano lo compativano.
A qualcuno ci scappava qualche lacrima quando Sasà recitava i suoi melodrammi con la voce in falsetto. Lui, allora, toccava il cielo con un dito, andava in fibrillazione dalla gioia.
Tanto chi glielo doveva dire che quella lacrima era solo un fatto di congiuntivite purulenta?