L’arrivo a casa era stato perfetto. Tranne il fatto che tutto il vicinato era fuori come quando passava la processione della Madonna.

Farabutti delinquenti serpi zecche” pensava Cornelio nel dare le 1800 lire pattuite all’autista, “già la croce mi vogliono gettare… schierati come una mandria di bufali… e ancora non l’hanno vista camminare… figuriamoci appena cammina con quel culo a bùmmulo…

Ah Sasà! che hai combinato figlio mio?!

Ah Sasà curìna del mio cuore!

E come ti salvo io?… ma l’hai visto che culo Sasà?!

Recitava muto Cornelio, e un po’ se ne dava la colpa della disgrazia di Sasà ché poca esperienza di femmine gli aveva fatto fare.

Due sole volte al casino! povero ragazzo, come poteva insospettirsene dal culo Sasà?…

Ah fosse stato lui!… fosse toccata a lui una simile faccia di buttana che per giunta il matrimonio voleva…

Invece no! era toccata al suo adorato Sasà, figlio di famiglia che neanche le unghie da solo si sapeva tagliare! Un ingenuo un poeta un filosofo, Sasà. Lui rime conosceva sonetti endecasillabi terzine e quartine… Non culi a giara!

Carolina era lì sulle scale secondo l’ordine ricevuto, con uno spazzolone da strigliarci i cavalli. Alle prese con i gradini già dalle sette del mattino.

L’aveva lavata, la scala, da giù a su dieci volte, mentre che di solito si lavava non più di due volte al mese, se non aspettavano visite.

Cornelio aprì il portoncino con un cuore sì e un cuore no (avevano capito tutto le due cretine? c’era da fidarsi? l’avrebbe trovata Carolina sulla scala a sbottare sangue e sudore?)

Alla vista di Carolina, piegata in due con tale una smorfia di dolore di sofferenza come neanche quella volta che aveva fatto la peritonite, Cornelio si fece animo: bene bene!

In cucina, al primo piano, sua moglie Tommasina puliva trippa col coltellaccio da macellaio.

Ai piedi una pilozza d’alluminio piena di trippa sporca. Allato un secchio, sempre d’alluminio, dentro cui finiva quella pulita già.

Sul viso della donna lo stesso disfacimento la stessa contrizione lo stesso spasimo di Carolina.

Bene! le due cretine erano state di parola.

Cornelio Azzarello che in virtù della pedagogia contava di risolvere la questione senza urla né minacce, sebbene… dio solo lo sa… quanto gli schiattasse il fegato, aveva predisposto questa messinscena d’arrivo al fine d’atterrirne la friulana e liberarsene, una volta per tutte.

La faccenda, però, si prospettava meno semplice di quanto lui l’avesse pensata.

Tanto per cominciare, Cornelio vide fallire miseramente ogni tentativo di fare dormire l’Ada nella stanza al primo piano, quella di Sasà. La migliore, con un bel balconcino, gli stucchi attorno al lampadario, e uno scrittoio in pura noce.

Di conseguenza fallì anche il progetto di mettere a dormire Sasà nella stanzetta sul terrazzo, di solito usata come ripostiglio per le scope gli stracci i secchi, con l’intenzione di scucchiariarlo (separarlo), già dall’inizio, dalla cavallona che se l’era spolpato fino all’osso. Uno di qua uno di là, c’era nelle intenzioni di Cornelio.

Le cose non andarono affatto così, anzi Cornelio dovette rassegnarsi a cedere la sua camera matrimoniale, dove più che ronfi scorregge catarro non s’era mai sentito null’altro.

Ma forse era meglio quella convivenza a letto dei due. Avrebbe messo in chiaro, senza bisogno di discorsi, tra lui e suo figlio Sasà che la friulana era buttana. Buona tutt’al più per il letto, per una convivenza more uxorio, di quelle che cominciavano e finivano in un lampo, senza problemi senza intoppi.

Ma quanto a sposarsela in chiesa col velo di tulle, l’organo per l’Avemmaria, i fiori d’arancio, i confetti e tutto il resto: mai! Mai e poi mai.

Sasà capiva benissimo il tacito messaggio di suo padre Cornelio che, stranamente, acconsentiva senza fare storie, quasi di buon grado, a farlo dormire assieme all’Ada, nella medesima camera. E in un disperato estremo tentativo di salvare il salvabile aveva cercato di dissuadere la ragazza… Inutilmente.

Mentre Carolina e Tommasina allibite per questa soluzione inattesa cambiavano le lenzuola di percalle nel letto grande e vi mettevano quelle di lino con le applicazioni al tombolo delle grandi occasioni, Cornelio commentava con un sorriso aperto, tale che se ne vedevano le gengive rosse infiammate intartarite: «Giusto… giusto Sasà, ragione ha la signorina!… gli innamorati insieme devono dormire… ci si diverte da giovani… non da vecchi… è vero signorina Ada? ho ragione?»

Le parole di Cornelio giungevano come una mina a far saltare in aria ogni propugnacolo di Sasà, ogni tentativo di difesa del suo disperato sciagurato amore.

Dopo le prime due settimane, mentre la friulana, lungi dal partirsene, cusciuliàva per casa felicissima, con tale spavalderia come già fosse la padrona, Cornelio Azzarello si trovò ad affrontare un nuovo inatteso problema.

Carolina e sua moglie Tommasina si erano ammutinate. Niente più scale, niente trippa, niente salsa di pomodori sul terrazzo al sole cocente.

Carolina minacciava anzi d’andarsene dalla casa di Cornelio dopo una vita di convivenza, portandosi dietro la sua lauta pensione d’invalidità.

Questa minaccia riguardo alla pensione, che di fatto da sempre intascava Cornelio, aveva tagliato la testa al toro.

Con la pensione di Carolina infatti Cornelio Azzarello ci mantenava Sasà a Padova, ci concimava la vigna fuori paese. Ne restavano escluse solo le spiatine di Rorò che Cornelio pagava a parte, dal suo stipendio di Direttore didattico.

«Basta! quando è troppo è troppo…» protestavano le due donne, sì efficacemente, sì proterviamente che Cornelio s’era affrettato a chiudere la schermaglia con un armistizio a loro totale vantaggio.

Quando uno ha una guerra da vincere, non si può perdere in una scazzottata!

La friulana mangiava ch’era uno spavento. Specie per la trippa a spezzatino, cucinata con la cipolletta il basilico e il pomodoro fresco, ci perdeva la testa.

«Squisita… una sciccherìa… sì ancora sì un altro po’… una meraviglia la s’è!» (e quando diceva un altro po’ la friulana intendeva dire un intero piatto, che tradotto in ore lavorative di Tommasina, addetta alla pulitura della trippa, equivaleva a tre se non quattro ore).

Pure se non diceva niente, Tommasina che tutto luglio aveva passato con la trippa sotto il naso aveva assunto tale feroce aggrottatura della mascella da preoccuparsene non poco il marito Cornelio.

Le fatiche vere e proprie del Direttore Azzarello non erano alla Piazza e sul corso Vittorio. Sebbene ogni giorno, con quel caldo che faceva bestemmiare i santi, Sasà e la friulana col pantaloncino corto davanti, e lui dietro.

Dietro a scongiurarlo, prima ancora che potessero formularlo, quelle piulacce dei paesani, l’atroce pensiero: la buttana si portò Sasà bell’acquisto fece al Continente!… Il Direttore Azzarello cornuto lo fece il figlio sì cornuto doppio… con quella risatella di chi sicuro di non avercele le corna è implacabile con chi invece ce le ha.

Cornelio Azzarello, sottovoce, con la gengiva orribilmente contratta diceva: «Si diverte… Sasà giovane è… il sangue ce l’ha caldo e si diveeeerte… l’amica s’è portato per qualche giorno… si diveeerte il ragazzo ché poi a settembre deve studiare…»

Arrivato al si diveeeeerte Cornelio Azzarello aggiungeva una strizzata d’occhi e uno strano schiocco della lingua che chiariva ogni cosa riguarda al divertimento di Sasà.

Il povero Sasà, invece, era ancor più costernato per lo strano comportamento di suo padre.

Era chiaro che suo padre sapeva tutto. Questa l’unica certezza. Eppure non lo chiamava a parte, non lo minacciava, non gli tagliava i viveri, non l’afferrava per il collo a romperglielo come si faceva coi tacchini.

Anzi lo accontentava in tutto e per tutto.

Questo peggiorava la sua angoscia, il suo stato d’animo già a pezzi, e, non ultimo, distruggeva ogni sua speranza sul fatto che potesse risolverla suo padre la faccenda, di sua iniziativa a suo modo, liberandolo così da una interminabile agonia.

Che senso aveva, sennò, averne informato Rorò?

Lui la battaglia voleva, la sfida, il duello con suo padre Cornelio all’ultimo sangue e poi, sconfitto, mettersi il cuore in pace.

Avere la coscienza d’essere stato un vero uomo, d’avere lottato come un titano per il suo amore, e di dovere soccombere al fatal destino.

Allo strazio di vivere senza la sua adorata Ada. Unico amore della sua esistenza.

Padre e figlio in realtà miravano alla stessa cosa al medesimo risultato. Ognuno dei due però voleva agire sotterraneamente scavando nell’ombra, come una talpa, lasciando intendere all’altro di volere la cosa opposta.

Un pensiero tortuoso farraginoso faticosissimo che trovava però padre e figlio sulla medesima lunghezza d’onda.

Sasà non se la voleva sposare affatto l’Ada ma voleva che ciò avvenisse non in virtù d’una sua presa di posizione, giusta o sbagliata che fosse, né per un suo cosciente responsabile rifiuto a sposare l’unico amore della sua vita.

Voleva invece esserne impedito a tutti i costi da suo padre Cornelio. Voleva la sconfitta sul campo. Voleva patire lacrimare sanguinare e, se era necessario, anche la crocifissione.

La sua morale cercava il sostegno d’un alibi importante per non sposare l’Ada. Il suo mancato matrimonio con la friulana doveva dipendere da una violenza da lui subita, da una costrizione fisica e morale di cui lui fosse vittima sacrificale.

Il Sasà cittadino cosmopolita intellettuale riformatore illuminista non avrebbe mai acconsentito a non sposare l’Ada a causa della sua perduta verginità.

Voleva, invece, subire tale cruenta violenza da essere costretto a non poterla sposare.

Sasà c’era sceso in Sicilia con l’Ada non per convincere Cornelio a fargliela sposare. Tutt’altro! perché Cornelio glielo impedisse con ogni mezzo, anche la tortura (segregazione frustate acqua bollente sui genitali) di modo che lui dovesse rinunciare all’Ada solo perché stremato, vinto. Come Ettore ucciso da Achille.

Lui Sasà la pugna cercava, l’Inferno, la sconfitta, e dopo tutto questo patire, la santa pace. La liberazione.

E invece? quale Inferno!

In casa c’era una pace degli angeli in apparenza. Per non parlare poi delle granite, le pastarelle al caffè in Piazza, i maccheroni col sugo, la trippa a spezzatino, la pasta con le sarde e il finocchietto, la marmellata di mele cotogne, le focacce con la tuma e i broccoli…

Cosa aspettava suo padre per principiare le ostilità? Che diavolo s’era messo in testa?

Perché prolungare il supplizio dell’attesa con anguria e maccheroni?

Questi erano i terribili interrogativi di Sasà, il suo tormento, la notte, mentre l’Ada al suo fianco faceva il sonno degli angeli.

Quel divertimento di cui parlava suo padre era lontano anni luce dai suoi pensieri.

Il suo inguine era come narcotizzato, scimunito, alluppiàto. Inerte, gelido come la trippa nella ghiacciaia prima che Tommasina la pulisse.

Quanto all’Ada, da quando erano a Bulàla non faceva che mangiare e dormire.

Ai fianchi aveva messo almeno cinque chili, in due settimane, e quella carne ammansita di grasso, le tirava ancora più giù lo svaso del culo. Con tutto quello che comportava l’esegesi di quella fisiognomica agli occhi dei paesani.

Sasà il trentun luglio, già allo stremo totale (non mangiava non dormiva, aspettava e aspettava, logorandosi il cervello nell’attesa) prese la decisione che, a suo dire, avrebbe risolto la questione una volta per tutte visto che più non poteva contare su suo padre.

Probabilmente la lontananza aveva affievolito la grande affezione d’un tempo.

“Che delusione però!” pensava accorato Sasà.

Che delusione gli dava suo padre!

E dire che proprio da lui si aspettava lo scioglimento di quell’infernale matassa, che anche le ossa ormai gli divorava di minuto in minuto. Peggio della setticemia.

Suo padre non accennava a prendere posizione, anzi era arrivato persino a fare qualche complimento, sia pur di riflesso, alla friulana.

Lodava di continuo la mentalità continentale, libera da schemi e pregiudizi, con discorsi che solo Sasà capiva dove andavano a parare.

Benedetto il Continente… là un uomo è un uomo qua è solo schetto (celibe) o maritato… il concetto uomo non esiste… prima di tutto la prigionia chiamata matrimonio… Ah benedetti voi continentali che avete la testa larga e non ci tenete al matrimonio… quello che conta è il sentimento… solo quello conta altro che la carta in municipio…

E parlando di carte pensava al suo Sasà che nello stato di famiglia con lui figurava nella qualità di figlio adorato: Sauro Azzarello figlio studente c’era scritto, al terzo posto del certificato, dopo Tommasina e prima di Carolina.

E lui, Cornelio Azzarello, grazie alla pedagogia non l’avrebbe perso dallo stato di famiglia quel suo unico figliuolo.

Cornelio e Sasà, padre e figlio, si studiavano a vicenda. Immobile l’uno, immobile l’altro come due che si sfidano a duello, in attesa delle reciproche mosse.

Nessuno dei due prendeva iniziativa. Tre settimane erano passate, la friulana ingrassava a vista d’occhio, mentre Sasà avrebbe potuto fungere da spaventapasseri nel piccolo vigneto degli Azzarello in contrada Costa Zampogna, a ovest di Bulàla.

Cenni, negli ultimi giorni, ce n’erano stati da parte di Cornelio Azzarello.

Sasà l’aveva notato, ma erano minimi, schegge, botti impercettibili mentre lui d’un bombardamento aveva bisogno.

Quali i cenni? quali i sottintesi tale subdoli sotterranei che persino Sasà stentava a catturarli?

Capitava di frequente negli ultimi giorni che a tavola Cornelio si toccasse insistentemente la fronte.

Per la friulana era sudore o prurito. Per Sasà erano corna. O meglio Cornelio disegnava con le dita della mano la topografia che più comunemente si assegnava alle corna.

Ecco come la verità non è mai una e una sola, pur essendo sempre Verità. Verità, nella fattispecie, e quella di Sasà e quella della friulana.

Il trentun luglio Sasà prese l’ultima decisione. Quella che lui in buona fede in quel momento pensava ultima definitiva.

A pranzo la situazione era precipitata e suo padre Cornelio sembrava addirittura rimbambito, un’altra persona.

L’occasione era venuta proprio da Cornelio Azzarello che pontificando sulla mentalità continentale non aveva perso occasione d’esorcizzare la parola MATRIMONIO.

L’Ada, pur se impegnata seriamente con la coscia del tacchino al sugo di pomodori freschi, aveva detto la sua: «El matrimonio prima de tuto, a casa semo tre fie femine e le mie sorele le s’è già a posto maritate co’ la santa chiesa e la benedizion… noi semo cristiani, non volemo star in peccato mortale… mi voio il matrimonio, non se discute… il matrimonio!»

E aveva finito giusto in tempo, prima che l’altro nuovo boccone più grosso le soffocasse la parola in bocca…

Per Sasà quella era stata la goccia che faceva traboccare il vaso!

A quella provocazione suo padre se n’era stato zitto. Non una sillaba, non una smorfia, non un urlo, non quel borboglio soffocato tra le budella che sa d’esplosione, di furore.

Incredibile! Cornelio se n’era stato zitto. Solo le orecchie di Sasà avevano coltivato l’impossibile sogno di sentirlo l’urlo di suo padre indignato, la giusta esplosione di chi viene provocato perfino in casa sua.

«Cristiane siete? buttane siete buttttaaaaaaaane buttanissime, troje col giummo, sucacazzi transalpine siete… il matrimonio? granfaccia di… la vita ci levo a mio figlio piuttosto!… con le mie mani ce lo taglio il cazzzo… io ce l’ho messo e io ce lo taglio sissignora troja… bagascia dolomitica io ce l’ho data la vita a mio figlio e io ce la levo con queste mani…»

Questi anatemi, queste ingiurie, queste minacce avrebbe voluto, più d’ogni cosa al mondo, sentire Sasà dalla bocca di suo padre con la bava nel cannarozzo e gli occhi sputati fuori…

E invece? niente.

Cornelio Azzarello come niente, senza scomporsi d’un pelo, era arrivato alla frutta. Un piattone di fichi neri.

Sasà completamente digiuno – l’unico boccone di tacchino per traverso gli era sceso – aveva capito da quell’episodio che la decisione ritornava nelle sue mani.

Suo padre non era più lo stesso Cornelio Azzarello, eppure solo otto mesi erano passati!

Era stato inutile scendere in Sicilia, logorarsi nell’attesa infinita… Il grattacapo restava a lui con tutto il suo carico d’affanni e fantasmi.

Fu a letto alle tre del pomeriggio del trentun luglio con un’afa che seccava i pensieri dalla radica (non però i pensieri di Sasà riguardo alla nuova pensata, al progetto che definitivamente avrebbe posto fine alla sua sciagurata storia d’amore), l’ora fatale in cui Sasà comunicò all’Ada la sua nuova decisione.

Decisione che nasceva soprattutto da questo ragionamento elementare: escluso il partito del matrimonio, non restava che il suicidio.

In che cosa poteva dirsi nuova questa risoluzione? Poteva dirsi nuova nel senso che Sasà proponeva un suicidio di coppia contestuale.

Lui e l’Ada sarebbero morti insieme. Nello stesso istante. Nessun sopravvissuto, come Romeo e Giulietta, solo che lo scenario si spostava da Verona a Bulàla. Ma Sasà sosteneva giustamente che le geografie non condizionano per niente i grandi amori.

Era questa la variante geniale che Sasà aveva apportato alla vecchia questione del suicidio dell’Ada, che anche questa volta non se lo fece dire due volte.

Scesa a precipizio dal letto come per andare a fare pipì, tornò, un attimo dopo, con una pistola in mano che aveva intravisto giorni prima nello sgabuzzino delle robevecchie, sul terrazzo, dove Cornelio avrebbe voluto far dormire da solo Sasà.

Sebbene Sasà la sapesse scarica – un vecchio cimelio di suo nonno Rolando – già solo a vederla tra le mani dell’Ada tale si spaventò che sotto il lenzuolo, testa comprese, se ne vide appena una sagoma di gatto.

L’Ada con spavalderia (lo conosceva assai bene Sasà, lo sapeva ch’era pavido e che, gira e rigira, la faccenda del doppio suicidio sarebbe andata a monte) disse che per prima Sasà sparasse a lei e poi a se stesso e si stese su un fianco, mezzonuda, indicando col medio la tempia sinistra.

Sasà voleva arrivarci al suicidio ma, a poco a poco, ragionandoci sopra, insomma affezionandocisi all’idea piano piano (come da vecchio avrebbe tentato di fare con l’albero di Giuda). Sinceramente si preoccupò della determinazione della sua Ada, che sic et simpliciter voleva passare all’azione. Senza gli adeguati ragionamenti. Senza i dovuti preparativi.

“Tempo ci voleva” pensò stremato di sudori freddi Sasà “tempo… e che? tutta questa fretta aveva l’Ada? non pensava ad altro, benedetta figliuola?”

Addirittura: io prima tu dopo… aveva detto.

“E che? Queste cose vanno meditate ragionate studiate a puntino per riuscire a regola d’arte” si diceva Sasà.

Poniamo caso che uno (l’uno valeva per lui) poi non ce l’abbia la forza di rivolgere l’arma contro se stesso, per la vista dell’amata morta, che succede a quel punto? che un suicida dai migliori propositi diventa assassino, omicida. No, mai e poi mai. Sopravvivere all’Ada, al suo amore, e per di più in galera?

L’Ada era una creatura meravigliosa – non c’erano dubbi – però rustica, tutta d’un pezzo, facilona.

Possibile, creatura adorata, che non ci pensasse a queste evenienze, che non ne calcolasse per tempo gli accidenti, le conseguenze?

La pistola doveva scomparire immediatamente ché per come lui la sapeva decisa l’Ada – e Sasà a questo punto ricordava dell’avvelenamento con la stricnina – si dovevano scartare assolutamente le armi letali. Quelle devastanti cui non si sarebbe potuto più rimediare in alcun modo, in caso di ripensamenti.

Già Sasà vedeva la scena. Ada riversa con rivi di sangue sull’occhio sul volto sul petto e lui, immmobile per lo spavento, le dita tremicchianti, lì accanto come una foglietta di lattuga bruculiata dai vermi. Incapace di condurlo fino in fondo il piano, uccidendosi subito dopo l’Ada…

Sasà sapeva benissimo che il coraggio di darsi la morte di sua mano pum pum puummm, uno due tre spari, non ce l’aveva.

Doveva allora, pur mantenendo inalterato il progetto, pensare a una morte quasi accidentale, una sciagura premeditata dove l’inettitudine del suo agire potesse essere corretta da un intervento spontaneo dei luoghi, del fato, di madrenatura. I luoghi erano decisivi. E il luogo su cui si concentrarono le speranze di Sasà, era un laghetto artificiale d’irrigazione, prospiciente alla piccola vigna in contrada Costa Zampogna dove gli Azzarello avevano una casetta grezza, giusto per passarvi qualche giorno al tempo della vendemmia, e farvi un po’ di mostarda.

Più che un laghetto era una specie di palude, un acquitrino. Secco per la maggior parte dell’anno, tranne che in inverno inoltrato.

L’acqua era poca – come pure minimo era il perimetro delle sponde – specie in piena estate, per via che a Bulàla non pioveva mai e i contadini se ne servivano per le vigne.

La zona, proprio a causa della stagnanza delle acque, era infestata da zanzare mosconi zappaglioni moscerini insetti d’ogni tipo.

Era zona di malaria, per questo non c’erano case né i contadini ci passavano i giorni di calura.

Lo stretto necessario ci stavano, il tempo dei lavori alla vigna, e via al paese.

Sasà pensò che il lago come lo chiamava lui enfaticamente per via dell’eccesso dell’esuberanza retorica della procefalìa linguistica, che gli erano talenti naturali, fosse il luogo adatto al suo piano.

Il lago con le sue acque tempestose (in realtà erano acquette morte infangate, avanzi di cisterna) sarebbe stato la loro tomba e avrebbe custodito in eterno il loro sciagurato amore.

In verità, a fine estate, del lago non restava che un pelo d’acque, tanto che i contadini ne approfittavano per ripulirlo da carogne di randagi, pietrisco, e immondizie d’ogni tipo.

Quindi nel caso in cui fossero riusciti a inabissarsi (il termine spropositato come sempre era quello usato da Sasà) dopo qualche ora, tutt’al più, sarebbero stati infilzati col forcone del fieno, e riconsegnati, nella cassa da morto, alle rispettive famiglie. Lui, Sasà, a Bulàla, lei, Ada, nel Friuli.