Era proprio quella l’ora della sera in cui cielo e mare sembravano la stessa cosa, visti con gli occhi. Visti col cuore no.

Sasà Azzarello nel lasciarsi dietro i cancelli della Villa Regina Margherita, ormai già sul lastricato del corso, non poté fare a mano di girarsi per un ultimo sguardo, come a imprigionarli, cielo e mare, in quei suoi piccoli occhi di topo.

Sempre più cancellati dall’osso sopraccigliare che, con l’età, si era per così dire dato solennità imponenza.

L’albero di Giuda restava in lontananza, proprio sulla timpa che precipitava a mare. Appena appena se ne intravedevano i rami più alti, quelli asserpolati e stravolti che tanta paura destavano nei paesani.

I pennacchi arancione erano come spariti nel buio della sera, lugubramente vegliati da grandi lampioni che davano una luce sinistra albicante.

A Sasà, che cielo e mare li guardava col cuore, non parvero affatto la stessa cosa.

Medesimo il colore, forse, quel turchino di magnolia indifeso tra cui svolazzavano ignare libellule destinate a morirci contro ignobili lampioni che restavano lì, a vegliarlo il silenzio della notte.

Solo il colore medesimo ché, quanto al resto, non erano affatto la stessa cosa.

Il cielo aveva il suo affanno la sua vicenda la sua pena la sua luce il suo silenzio, come anche il mare. Ma non erano affatto la stessa cosa. Per una volta Sasà rinunciò a fare filosofia e concluse dicendo piano tra i denti assiepati alla gengiva: il mare è il mare il cielo è il cielo.

Se il Cataratta l’avesse sentito di certo avrebbe commentato: «Finalmente una giusta l’hai detta Sasà…» pur forse rammaricandosi in cuor suo di non poter esclamare quel minghiate minghiaaaaaate che gli veniva proprio bene con quella a della penultima prolungata come fosse un tenore nel bel mezzo d’una romanza.

Ora l’aspettava il ritorno a casa, la cena senza tovaglia sulla carta dell’involto del pane, e la tartaruga Giuda s’era stata più prudente di lui a non uscire sul terrazzino.

In cuor suo Sasà pregò di trovarcela Giuda. Chissà! sotto il lavandino ad aspettare la goccia dal tubo e rinfrescarsi quel capizzo di collo che si fugava dal guscio in cerca di fresco.

Prima però doveva passare dall’ospizio e lasciarvi Rorò. E quello era uno strazio che ogni sera puntualmente si rinnovava da cinque anni. Con un magone che gli sfondava la bocca dell’anima, e qualche lacrima che il poco pelo delle ciglia impigliava giusto in tempo a non bagnargli il misero telo di carne sul petto.

Dopo che era toccato all’Ada rianimare Sasà per lo spavento d’averla creduta morta, per qualche giorno lui non aveva più fatto parola di suicidio. Lo spavento era stato grosso, terribile. Del resto che non fosse stricnina lo sapeva solo l’Ada.

Sasà sembrava tranquillissimo, troppo. Cheto come il mare quando prepara la ddraunàra la terribile tempesta di vento.

Non una parola riguardo al problema, ormai rassegnato alla sua inettitudine circa la soluzione dello stesso.

Suo padre Cornelio sì che li sapeva trattare i problemi, grandi e piccoli, insignificanti e spaventosi, e risolverli in un niente.

E mentre Sasà tra ammirazione e sensi di colpa pensava a suo padre Cornelio, uomo di polso di temperamento di ferro, ebbe una pensata formidabile, un lampo di genio.

La sua pensata riguardava il cugino Rorò che suo padre Cornelio gli aveva messo alle costole come guardia del corpo partendo da Bulàla, alla volta di Padova.

Sasà da qualche tempo s’era accorto che ogni cinque del mese da Bulàla partiva da parte di suo padre Cornelio un vaglia telegrafico indirizzato a suo cugino Rorò.

Perché mai Cornelio Azzarello poteva mandare danari a quel cretino che detestava da sempre? Da quando nascendo un minuto prima del suo Sasà aveva minacciato di rovinargli la gioia di quell’unico figlio?

Affetto? neanche a parlarne. Neanche per sogno. Una capra, sì, la poteva volere bene. Ma quel cretino di Rorò che gli aveva fatto passare terribili momenti d’angoscia: mai e poi mai!

Per questi motivi e altri (Rorò cresceva grande biondo muscoloso un gigante, mentre Sasà nero peloso mingherlino) più d’una volta era stato sul punto di tirargli il collo al nipote Rorò.

E allora? qual era il debito contratto da Cornelio con il nipote? Quali i favori da ricompensare lautamente in danaro con un mensile fisso?

Certo una faccenda a cui Cornelio doveva tenere moltissimo a giudicare dalla puntualità del vaglia e dalla consistenza della somma. (Rorò spendeva e spandeva come mai al paese. Scarpe nuove giacca a doppio petto…)

Doveva trattarsi d’una questione seria e delicata che forse lo riguardava, … ma sì certo… sicuro come aveva fatto a non pensarci…

Gli occhiuzzi di ratto di Sasà si illuminarono all’improvviso perché aveva capito, infine, cosa legasse Cornelio a Rorò.

Rorò coi danari dello zio se la spassava, locali donne sigarette, e se ne fregava di spiare il cugino Sasà, perché proprio come aveva profetizzato Cornelio al momento della partenza alla Stazione centrale di Catania, in mezzo a pacchi pacchetti valige borsoni ceste di limoni per la diarrea e d’arance per l’influenza… – il Continente dà alla testa… più del vino attenti mi raccomando… il Continente se li mangia i picciotti… senz’esperienza… – il Continente gli aveva dato in testa e lui, Rorò, si comportava come uno che, avendo perduto la memoria, viva per un istintivo presentimento nel terrore di ritrovarla.

Anche un’altra cosa aveva capito Sasà, e quest’ultima gli accendeva gli occhi come fuochi d’artificio.

Aveva capito come dare una soluzione al suo assillo, come sgravarsi dall’angoscia che ogni oncia di carne gli aveva divorato (solo pelle era ormai solo pelle trasparente come le porcellane…) come non fare torto a suo padre Cornelio ai suoi principî nascondendogli l’amara verità sulle condizioni dell’Ada.

Sarebbe stato Rorò a informare suo padre e lui a informare Rorò. Doveva avere l’aria d’un grande segreto, d’una confessione delicata, e così studiato il tono della voce (greve solenne accorato) le parole (enigmatiche spettacolari esplosive), il ciglio (aggrottato aggrondato annuvolato) esordì: «È questione di vita o di morte… Rorò… se parli è la tragedia… se la notizia arriva a Bulàla è la fine intesi Rorò? gran segreto… mi raccomando bocca cucita… da uomo a uomo…»

Rorò che non era affatto cretino come lo pensava lo zio ma solo un po’ stordito, un po’ lento di carattere più che altro, colse nelle confidenze del cugino Sasà l’occasione d’una vendetta perfetta, da anni agognata, invano inseguita inutilmente ché Cornelio con la sua parlantina da Direttore didattico l’aveva avuta sempre vinta. E non se la lasciò sfuggire.

Una bomba sicuro! Come una bomba tra le mani gli doveva esplodere la notizia!

La friulana… i buoi scappati dalla stalla (allusione alla consumata verginità)… Sasà nella trappola d’una buttana… il lardo rancido…

Tutto, proprio tutto c’era: Rorò era diventato lestissimo di cervello nell’addizionare le digrazie di Cornelio, sì da farlo letteralmente impazzire a Bulàla, dov’era. Sì da farglielo schizzare il cuore come una cozza dal guscio!

E pure il fegato.

Alle otto in punto di mattina del tre di luglio all’apertura dell’ufficio postale partiva il telegramma. Non prima perché di notte il servizio veniva sospeso.

Ci studiò tutta la notte Rorò sul testo del telegramma con la penna in mano.

Senza un attimo di cedimento senza sonno senza fame né sete. Solo quattro volte a pisciare per una cistite cronica.

Studiò il tono (sibillino funesto fatale) le parole una a una (chiare – ma non troppo – lancinanti – moltissimo! – irreparabili).

Per la prima volta nella vita Rorò credette di volergli bene a Sasà, che gli offriva una così eccezionale occasione di riscatto.

Che Rorò fosse stato efficacissimo nella stesura del telegramma lo possiamo confermare dallo sconforto dalla prostrazione in casa Azzarello il tre di luglio alle dodici in punto. Ora della fatale consegna.

Una settimana dopo, per l’esattezza il dieci di luglio – non un giorno di più né uno di meno – Cornelio Azzarello con le basette a virgolone sulle guance tenute insegate dalla brillantina, era al binario 1 della stazione centrale di Catania ad aspettare il treno dal Continente, col prezioso carico del suo Sasà.

Cornelio aveva impegnato per tutto il giorno l’unico tassì di Bulàla, un macchinone a otto posti che gli costava 1800 lire.

“Ma che importa! anche diecimila centomila tutto pur di salvarlo il suo Sasà, che tornava come una recluta ferita al fronte” pensava il Direttore didattico Cornelio Azzarello mentre il treno in lontananza s’annunziava con tale sventolare di braccia, dai finestrini, che parevano panni stesi ad asciugare.

La partita era decisiva e lui non doveva sbagliare d’una mossa, non una che fosse una!

Il macchinone nero, il petto in fuori, l’imponenza naturale della sua figura dovevano immediatamente far capire alla friulana di qual tempra fosse il nemico, quale il suo coraggio, quale aspra la pugna.

Del resto la pedagogia (benedetta Pedagogia!) non diceva forse che i figli ribelli si dovevano prendere con le buone? Che la ribellione è autonomia personalità coscienza di sé?

E lui i guanti gialli usava. Tutto tutto pur di riavere il suo Sasà!

Quei due chilometri di binario sembrarono a Cornelio Azzarello interminabili. Forse più della distanza tra luna e sole.

Ma si capisce fremeva in cuor suo, ché quel suo figlio stravagante era, una ne pensava e cento ne combinava!

“Chissà… quelle due cretine che aveva a casa! si poteva fidare?” in quel momento pensò a sua moglie e a Carolina “avevano capito tutto? per filo e per segno?”

Bisogna chiarire che Cornelio Azzarello, dopo il telegramma assincopante, un’intera settimana c’era rimasto tappato in casa.

Primo per studiare il caso e gli interventi, cercando sempre le soluzioni gli esempi sui testi di pedagogia.

Secondo – questa era stata l’impresa più improba – per ammaestrare le due cretine riguardo al piano e alla strategia da lui preparati meticolosamente.

Ma quelle, dure di cervello erano. Capivano, non capivano, se lo scordavano, indugiavano, si confondevano, tornavano a chiedere… una disperazione! tenuto conto che il caldo era micidiale.

E lui, Cornelio, come unico conforto alle sue disgrazie, non aveva altro che le limonate col ghiaccio della ghiacciaia, tanto che, spremi spremi, a Carolina s’era storto il polso.

Il piano prevedeva non un attacco frontale scoperto con minacce e intimidazioni del tipo:

«Basta, Sasà!… te la devi scordare questa buttana… fuori ti butto… il cornuto vuoi fare?»

(Anche perché alla domanda il cornuto vuoi fare? Sasà avrebbe risposto candidamente – ah minghione con gli occhi intuppati (ciechi): – sì! per quello che gliene fregava…)

No, niente di tutto questo. La falange nemica andava indebolita ai lati, alle ali, con mosse sotterranee velocissime, facendo finta di niente.

Una parolina oggi, una domani, buttate là a caso, di quelle inturciniàte (ambigue) che solo Sasà doveva intendere.

Un ruolo fondamentale, però, ce l’avevano le due donne di casa, le cretine, Tommasina e Carolina, nel senso che dovevano servire a dare l’idea alla friulana di cosa l’aspettasse, una volta moglie di Sasà. (A questo remotissimo lugubre pensiero Cornelio tremicchiò tale nei ginocchi che a momenti ci finiva lui sotto il treno.)

Le sue istruzioni alle due cretine erano state chiarissime. Mille volte le aveva ripetute. Per filo e per segno.

Pazienza se era estate. Pazienza se c’erano quarantadue gradi! e un’afa da scorticare la lingua se solo si aveva l’avventatezza di tirarla fuori dalla cavea del palato!

C’era da ustionarsi a spaccare pomodori sul terrazzo sotto un sole che faceva le piaghe ai muri? pazienza!

C’era da spaccarsi la schiena lavando la scala tre cinque volte al giorno? pazienza!

C’era da pulire trippa da mane a sera? pazienza!

Le due donne si dovevano mettere in testa di pazientare di fronte a qualunque sacrificio, se serviva a salvare Sasà.

Cornelio aveva fatto un’immane provvista di trippa in due giornate di macello al mattatoio comunale. La trippa, soprattutto nella parte delle millepelli, era faticosissima da pulire, e Cornelio pensava che Carolina coi trenta chili di trippa che lui aveva stipato all’uopo, nella ghiaccera, avrebbe reso perfettamente l’idea di moglie-serva che, per analogia, per associazione di idee, avrebbe dovuto tale impressionare la friulana da farla scappare, la mattina dopo il suo arrivo…

Cornelio, genio qual era, aveva lavorato di testa. Un dedalo intricatissimo di strategie trabocchetti tranelli elaborato con somma perizia.

A ogni mossa del suo piano era affidato un significato ben preciso, studiato nei minimi particolari. Calcolato al millesimo.

La trippa, che di quello scacchiere era una delle principali e più sicure pedine, doveva avere un effetto scoraggiante devastante sulla friulana.

Doveva farle capire che gli uomini siciliani non erano come lei li aveva creduti per via di quel minchione di Sasà, che non sapeva comandare né farsi rispettare.

Questo equivaleva – fuor d’oratio obliqua – chiaro e tondo a precisare che non tutti erano rincoglioniti come il suo Sasà.

Quella buttana avrebbe avuto pane per i suoi denti! Con lui, uomo di mondo, baffo torto, se la doveva vedere. Altro che Sasà!

Questo fu l’ultimo proponimento di Cornelio mentre ormai a frotte sciamavano dal treno i passeggeri, sul binario 1 della stazione centrale.

Cornelio Azzarello riconobbe Sasà da un orecchio scuro color melenzana, col padiglione a ventaglio, che spuntava dalla spalla d’una ragazzotta alta due metri, a occhio e croce.

L’orecchio color melenzana era proprio di Sasà, la ragazzotta era lei, la friulana.

Gli morì il cuore a Cornelio nel vedere Sasà così ridotto. Uno scheletro. Una canna una larva uno spaventapasseri sotto la giacca nuova del corredo.

Ah cuore d’un padre! Ah tormento d’un genitore! E non poter dire una sillaba. No, anzi camuffare, sorridere, far finta di non vederli quegli ossetti allibiti che sulle spalle quasi foravano la giacca nuova di Sasà, tanto erano vedovi di carne!

Anche il fatto che Sasà fosse sceso, timoroso, con la testa inficcata nel petto, dopo la friulana alta due metri, era per Cornelio la conferma del peggio, che peraltro lui aveva sospettato.

Il suo Sasà era nelle mani di quella cavallona. Lui il cavallo, lei il cavaliere (come si diceva a Bulàla). E lo comandava a suon di frustino.

Pezza da piedi il suo Sasà che camminava dietro alla buttana come uno straccetto d’ombra, se non fosse stato per l’orecchio che, almeno quello, non era ombra. Un po’ di cartilagine c’era rimasta.

Due ore e mezzo di Piana, nel tassì a noleggio, sotto un sole che cuoceva le pietre.

Eppure Cornelio aveva l’impressione che Sasà sentisse freddo, vedendolo accucciarsi nella giacchetta come chi cerca conforto di calore.

Si sentiva solo la friulana: caldo caldo che caldo… che caldo! e col lembo della gonna, scoprendo buona parte della coscia, si faceva aria.

“Solo quello sapeva dire la buttana” pensava Cornelio curvando il labbro superiore verso le narici affilate come a dire: troia ancora che hai visto? quante storie per un po’ di caldo… il meglio deve venire… sicuro deve venire…

Sasà se ne stava muto, un pesce. Sasà oratore fino, nato coi sofismi in pizzo di lingua, meglio di Dione di Prusa, muto gli tornava dal Continente. Muto.

Ah cuore d’un padre!

Muto pure l’autista di piazza che guardando la friulana dallo specchio faceva smorfie eloquentissime con la bocca, turciniandola di continuo, come a dire…

Povero Direttore Azzarello!

Proprio come sospettava Cornelio, prima invidiato ora compatito, le critiche le commiserazioni i risolini le gomitate per lui sarebbero stati. Su di lui gli avvoltoi della piazza si sarebbero avventati a sbranargli le carni, ad alzare il sopracciglio in senso di sfottitina!

Lui era il cornuto agli occhi di tutti. Cornuto, un Direttore didattico, per via d’una cavallona friulana…

Ma la battaglia era solo all’inizio.

Cornelio Azzarello in macchina pensò, tra l’altro, nelle tre ore quasi di viaggio, che il culo della friulana era svasato come una giara. Segno d’una femmina quand’è guasta, quando non è più vergine.

Bastava vederla camminare con quel culo a giara e tutti a Bulàla l’avrebbero capito. Non si poteva, quindi, nemmeno tentare una qualche menzogna.

Quella è buttana, non c’è niente da fare ce l’ha scritto anche sul culo, pensava a momenti, sconsolato, Cornelio mentre il macchinone Mercedes attraversava quel tratto della Piana all’altezza di Mineo dove l’aria precipitava con la furia dei tizzoni ardenti.

A calci in culo la rimando a Padova… o nelle sue Prealpi dove più sono i buoi (e pensava ai cornuti!) che i cristiani… progettava con fiero spirito guerriero il Direttore Azzarello, superata la Piana, dopo le curve di Grammichele dove l’aria rinfrescava un poco. E pure i suoi pensieri.