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«Sergente?». Ciuffo bussò alla porta del bagno. «Sergente, è lì?».

Le urla del bambino si sentivano dall’altra parte del battente di legno graffiato.

Bussò ancora. «Sergente?».

Sì, forse era meglio entrare e sperare che non fosse seduta sulla tazza.

Spinse la porta.

Il bagno dell’appartamento era un vero porcile. Nel lavandino c’era dell’acqua sporca, e una stria di sporcizia segnava l’interno della vasca. Vi regnava il fetore denso di un bagno mai pulito. Rifiuti di ogni tipo erano sparsi sul pavimento di linoleum.

La Steel era in ginocchio davanti alla vasca. Aveva preso una felpa rossa da qualche parte e la stava immergendo nell’acqua del lavandino, passandola poi sul sederino nudo del bimbetto urlante. «Lo so, lo so… Shhh… Chi è un bimbo davvero coraggioso?».

Ciuffo si schiarì la gola. «L’ambulanza è arrivata».

Il piccino strillò di nuovo.

«Non c’è acqua calda, e lui è pieno di abrasioni. Shhh…».

Il che spiegava il colore dell’acqua nel lavandino. Ciuffo tirò via il tappo, facendola vorticare nello scarico. Poi lo riempì di nuovo. «Il vicino ha detto che non la vedevano da cinque giorni».

«Cinque giorni». La Steel fece una smorfia. Poi immerse il tessuto nell’acqua pulita. «Cinque giorni con un pannolino sporco, a grattare via cibo per cani dai barattoli, mentre tua madre si decompone su un materasso…». Sbatté le palpebre. Tirò su con il naso. Poi inspirò con forza. «D’accordo. L’ambulanza».

 

Ciuffo indicò a sinistra, immettendosi sulla strada principale. Note allegre e ritmate uscivano dalla radio dell’autopattuglia: una donna che cantava quanto fosse il giorno perfetto per amare, e che tutti dovevano uscire a ballare.

Lanciò uno sguardo alla Steel.

Era affondata nel sedile del passeggero, e fissava fuori dal finestrino. Le mani abbandonate in grembo. Il viso inespressivo.

Tentò un sorriso. «Avanti… guardi il lato positivo. Immagini cosa sarebbe potuto succedere se non fossimo arrivati e non avessimo buttato giù la porta!».

Nessuna risposta.

«Sarebbe morto, no? Abbiamo salvato la vita a quel piccino, oggi».

Ancora niente.

«È vivo solo perché…».

«Non hanno chiamato la polizia». La voce era inespressiva come la sua faccia. «Se ne sono rimasti chiusi nei loro appartamenti, ascoltando quel povero bambino piangere disperato, e non hanno fatto niente».

«Sì, ma…».

«E poi, quando Sally ha cominciato a puzzare, non ci hanno chiamato comunque. Hanno preso del deodorante per ambienti e hanno cercato di nascondere la puzza». La Steel chinò il capo. «Sai cosa, Ciuffo? Odio gli esseri umani».

 

La finestra in fondo al corridoio era sbarrata per metà. L’altra metà era coperta da un vetro grigiastro con una ragnatela di crepe. I graffiti strisciavano sulle pareti. E non erano neanche di quelli artistici, ma solo parolacce e disegni di genitali. C’erano dei sacchi dell’immondizia ammucchiati in pile puzzolenti lungo i muri.

L’uomo che aveva aperto la porta dell’appartamento al piano terra chiuse un occhio, mentre l’altro mostrava una pupilla nera come melassa e grande quanto una palla da bowling. Si grattò l’inguine, spiegazzando le mutande sporche e la maglietta macchiata. Portava un calzino grigiastro con un buco sulla punta. Sporcizia e lividi si univano sulla pelle pallida e pelosa di braccia e gambe.

Ciuffo gli mostrò la foto. «Ci riprovi».

La Steel premette la punta di un piede contro uno dei sacchi dell’immondizia. «Avanti, Shuggie, non è difficile: dov’è Daphne McClellan? Voi due avete convissuto, no?».

L’uomo ondeggiò un po’, fissando la foto e aggrappandosi allo stipite della porta. Poi un lento sorriso gli comparve sul viso sporco. «Nah, ma parlate di Natasha, giusto? Natasha Sparkles». Mosse le mani. «Non è qui. È fuori. Fuori. Fuori».

«Certo che lo è». La Steel gli ringhiò contro. «Dove?».

 

La musica si faceva sentire nel Regents Arms: Kylie esortava tutti a fare il trenino. E una cosa del genere, lì, non sarebbe mai accaduta. La maggior parte degli avventori di quel locale immerso nella semioscurità faceva pensare che non sarebbero riusciti neanche a camminare in linea retta, figurarsi a fingere di essere delle locomotive.

Mancavano dieci minuti alle quattro di quel mercoledì, e i clienti abituali erano già alla quarta o quinta pinta di birra, con i boccali vuoti che coprivano il pianale dei tavolini. Alcuni non si erano neanche curati di passare a casa a togliersi la tuta da lavoro, per andare a placare il demone della sete.

La parete dietro al bancone era piena di apostrofi, sembravano tutti rubati a qualche cartello o scritta. Almeno tre di loro dovevano aver passato del tempo sull’insegna di un McDonald’s. Il proprietario di quella bizzarra collezione lanciò un’occhiata alla foto che Ciuffo gli stava mostrando e sospirò. Poi indicò un tavolo accanto al distributore di sigarette.

La Steel piegò le spalle e avanzò in quella direzione.

Ciuffo sorrise al barman, in segno di scuse. «Ha avuto una brutta giornata».

«Hmmph». L’uomo tornò a ficcare bottiglie di alcolici nel frigo.

D’accordo.

Ciuffo si affrettò a raggiungere la Steel, mentre lei si fermava davanti al tavolo.

Daphne McClellan era lì, seduta con un uomo più anziano di lei: capelli grigi, maglione grigio su una camicia bianca e una cravatta grigia. Aveva gli occhi chiusi ed entrambe le mani posate sul tavolo. Daphne indossava un paio di stivali in vinile alti al ginocchio, una minigonna e un top di pizzo che mostrava un corpo scheletrico così coperto di finta abbronzatura da sembrare una di quelle mummie che ripescavano dalle torbiere.

Aveva una mano nei pantaloni del suo amico, e la stava muovendo, con un’espressione annoiata sul viso, mentre il braccio si spostava su e giù.

La Steel mollò un calcio alla gamba del tavolo, facendo tintinnare i bicchieri sul pianale. «Spero che tu stia indossando i guanti, Daphne. Sai, il sesso sicuro e tutto questo genere di cose».

Lei ritrasse la mano. «Urgh, non di nuovo». Roteò gli occhi e si afflosciò sulla sedia. «Non sto facendo niente!».

Il suo amico si affrettò a tirarsi su la zip dei pantaloni e scattò in piedi. «Io non… questo non è… noi…».

«Tu, vecchio pervertito». La Steel accennò con il pollice alle sue spalle. «Vattene a spenderti la pensione da un’altra parte».

L’uomo uscì dal pub quasi di corsa.

La Steel scostò una sedia e vi si accomodò. Fissò Daphne McClellan, dall’altra parte del tavolo. «Quanti figli hai, Daphs?».

Lei si strinse nelle spalle, smuovendo le ossa sotto quella pelle che sembrava cuoio. «E a te che te ne frega?»

«Ne hai tre». La Steel si sporse in avanti, ringhiando quelle parole. «E dovresti essere la loro madre, dannazione! Dove sono?»

«Da… da mia madre. Il tribunale le ha dato la custodia. Li vedo quando posso, ma…».

«e allora perché cazzo abbiamo trovato il tuo bambino che si nascondeva in un armadio a casa di kenny milne?». La voce della Steel rimbombò nel locale. Tutti smisero di fare quello che stavano facendo e la fissarono.

A quel punto, Daphne abbassò gli occhi, grattando con le mani, fino a poco prima occupate, il pianale del tavolo. «No comment».

 

La Steel entrò dalle porte sul retro della stazione, facendole sbattere contro le pareti con un rimbombo violento.

Già. L’umore non era affatto migliorato, nel frattempo.

Ciuffo condusse Daphne nell’ala di detenzione, cercando di starle dietro. Raggiungendola proprio mentre lei colpiva con una mano il bancone.

«Ehi, di casa!».

Big Gary posò il suo albo da colorare. Sospirò. «Cosa posso fare per lei, oggi, Sua Maestà Furiosa?».

Le parole vennero fuori come se lei stesse masticando una boccata di vomito: «Condotta pericolosa. Abbandono di minore. Adescamento. Sesso in luogo pubblico. E tutto il resto che ti viene in mente». Poi si girò per andarsene.

Big Gary cercò di fermarla. «Un momento, non vuole…».

«No. Ho finito. Basta, per oggi».

Ciuffo la guardò uscire a passo di carica dalle doppie porte della stazione. Poi i battenti si richiusero e loro si ritrovarono da soli.

«Hmph». Big Gary sistemò le sue scartoffie. «Che diavolo le ha preso?»

«Ah… mi spiace per questo». Ciuffo tirò fuori lo stesso sorrisetto contrito che aveva offerto a tutti da quando il turno era cominciato. «Sta avendo una giornata davvero brutta».

 

Roberta abbassò di un altro paio di centimetri il finestrino dal lato del passeggero, facendo uscire nel pomeriggio soleggiato una nuvola di fumo alla ciliegia.

Il sole illuminava metà del parcheggio di Rear Podium, lasciando in ombra le autopattuglie del Quartier Generale, con i suoi sette piani che le torreggiavano sopra. Qualcuno salì le scale che portavano all’obitorio, con addosso ancora il camice verde e le scarpe mediche, per sfuggire all’odore della morte e godersi una boccata d’aria fresca e una sigaretta.

Roberta digitò qualcosa sullo schermo del cellulare:

 

Al diavolo la dieta. Mangiamo cinese per cena e vediamoci Ricomincio da capo!

 

Invio.

Il cellulare rispose con il solito ding-ding dei messaggi in arrivo.

 

Ma dovevamo andare a teatro, ricordi?

 

Lei digitò una risposta:

 

aaaaaaaaaargh!!!!! Dannazione… scusa.

Giornata orribile.

 

Invio.

Lo sportello dal lato del guidatore si aprì, e Ciuffo si afflosciò sul sedile con un sospiro. «La Lund e Barrett dicono che la interrogheranno non appena le sarà affibbiato un avvocato d’ufficio».

Roberta scosse la testa. «Giuro su Dio, Ciuffo, se devo affrontare anche solo un altro bastardo, oggi…».

Ding-ding:

 

Ok, lascia perdere il teatro. Apriremo una bottiglia di vino, quando tornerai. Mettiamo le ragazze a letto. E poi iniziamo le danze, solo tu ed io!

 

Roberta sorrise. Ah, Susan, deliziosa, adorabile piccola impertinente.

 

Mi hai conquistato con “iniziamo le danze”.

 

Invio.

Ding-ding:

 

Ti sei ricordata del mio trofeo, vero?

 

Merda. No.

Ciuffo si mise la cintura di sicurezza. «Allora, dove andiamo?»

«Dalla signora Galloway. E non dimenticarti di fermarti per prendere il latte, il tè e i biscotti. E, già che ci siamo, possiamo anche fare un salto al negozio dei trofei».

 

Ciuffo spostò la busta di plastica da una mano all’altra, mentre finiva la barzelletta e l’ascensore si fermava. «E l’altra suora dice: “Se è così, perché si è scopato un pinguino per tutta la notte?”». E poi ghignò, guardando la Steel.

Niente.

Le porte si aprirono.

«Capisce? Perché il vescovo pensava che il pinguino fosse la madre superiora».

Roberta uscì sul corridoio. «Non lasciare mai il tuo lavoro di giorno».

«Oh, avanti. Era carina».

«Sì, certo, continua a ripetertelo». Avanzò lungo il corridoio fino all’appartamento in fondo. Si fermò.

La porta dell’appartamento della signora Galloway era appesa a un cardine soltanto, con il legno spezzato e graffiato. Qualcuno l’aveva abbattuta a calci.

Oh, dannazione, all’inferno…

Roberta bussò sul battente spaccato. «Signora Galloway? Agnes? Sta bene?».

Entrò, con Ciuffo alle calcagna.

«Signora Galloway? Sono il sergente Steel. C’è qualcuno?».

Una voce alle loro spalle, fredda e dura. «Siete arrivati troppo tardi».

Roberta si girò, sbirciando oltre Ciuffo.

La donna dell’appartamento di fronte era lì, con la sua solita tuta triste, le braccia incrociate sul petto e una smorfia sul viso.

«Cosa è successo?»

«Cosa pensate che sia successo? Dovevate proteggerla! E invece adesso è mezza morta e in rianimazione, perché voi avete fatto casino!».

«Lei…». Roberta sentì un nodo chiuderle la gola, come un tumore. Lo inghiottì a forza. «In rianimazione?»

«Dovreste vergognarvi!». La vicina sbatté una mano contro la porta piegata. «lui è tornato!».

 

Era così piccola, lì sdraiata dall’altra parte del vetro, nel candido lettino d’ospedale, con tutti quegli enormi macchinari intorno. Dove non c’erano bendaggi, gessi o medicazioni, la pelle era coperta di lividi. Il movimento quasi impercettibile del petto era l’unico segno da cui si capiva che fosse ancora viva.

Roberta posò una mano contro il vetro che la separava dal reparto di terapia intensiva, sentendone il freddo contro il palmo.

La dottoressa voltò le pagine della cartellina e continuò a parlare in tono nasale e piatto: «…Quattro costole rotte, un polmone lacerato, la milza lesionata, una caviglia rotta, una spalla slogata…».

Era così piccola. Così fragile. Così spezzata.

«…Zigomo fratturato, distacco della retina, polso rotto, emorragia interna…».

«Se la caverà?».

La dottoressa sospirò. Si passò una mano sul viso, tirando le borse che aveva sotto agli occhi. «No. Forse. Una persona della sua età… I traumi sono stati molteplici. Starebbe meglio se quell’uomo l’avesse investita con una macchina».

La vicina aveva ragione: era tutta colpa sua.

Aveva fatto casino, e Agnes Galloway ne aveva pagato le conseguenze.

«Senta, lo so che non dovrei dirlo, ma da medico professionista…». La dottoressa le posò una mano sulla spalla. «Se prenderà il bastardo che le ha fatto questo, voglio che lo ammazzi di botte».

 

Ciuffo la stava aspettando, intento ad armeggiare con il telefono, quando Roberta uscì dal reparto. Se lo ficcò in tasca e la affiancò. «Sta bene?».

Che idiota.

«Certo che no! Come potrebbe stare bene? Philip Innes l’ha quasi uccisa».

Roberta strinse i pugni e fissò con rabbia il soffitto. «aaaargh!».

Un vecchietto di passaggio con la flebo attaccata a un’asta a rotelle si fermò a fissarla.

«Che hai da guardare, nonno?». Lo superò, procedendo lungo il corridoio per entrare nell’ascensore. Premette il pulsante con il pollice e fissò con odio i numeri mentre le porte si chiudevano.

«Avremmo dovuto mandare degli agenti a presidiare l’appartamento! Perché non me l’hai ricordato?».

Ciuffo si strinse nelle spalle. «Ho un trauma cranico, ricorda?».

Inutile coglione.

«Oh, avanti, sergente: non è colpa nostra! Non siamo stati noi, ma Phil Innes».

Lei tirò fuori il cellulare e chiamò la Centrale. «Che cazzo succede con la mia richiesta di ricerca? Avreste già dovuto trovare Philip Innes! Perché non è ancora stato arrestato, maledizione?».

Ding.

Lei uscì dall’ascensore, avviandosi in un altro corridoio uguale a tutti gli altri. «Allora?».

Soltanto silenzio, dall’altra parte della linea. Poi: «Per sua informazione, sergente Steel, non stiamo qui per farci urlare addosso da lei. Se vuole sapere qualcosa, dovrebbe chiedere con gentilezza!».

«Molto bene!». Roberta serrò i denti, sibilando: «Per favore, potrei avere informazioni sul mio ricercato?»

«Ecco, non è stato poi così difficile, giusto?»

«Giuro su Dio che verrò lì con un martello!». Uscì da una serie di doppie porte e raggiunse una reception, in cui un infermiere grassoccio in camice verde stava fissando con gli occhi stretti lo schermo di un computer.

«Philip Innes non è stato visto. Alle autopattuglie e agli agenti a piedi è stato chiesto di restare all’erta».

«aaaaargh!». Roberta attaccò. Si ficcò in tasca il telefono. Poi puntò l’indice contro l’infermiere. «Polizia. Un bambino è stato ricoverato poco fa. Non mangiava altro che cibo per cani da giorni».

L’infermiere non si degnò neanche di staccare gli occhi dallo schermo. «Antibiotici per le ferite, fluidi per la disidratazione, assistenti sociali per tutto il resto. Niente visite».

«Be’… e allora vai al diavolo!». Si voltò e uscì, afferrando Ciuffo per la manica e trascinandoselo dietro. «Andremo a cercare Philip Innes. E lo arresteremo. E, a un certo punto, lui cadrà da tante scale!».