iii
Ciuffo controllò il cellulare. Erano le nove meno venti, e gli unici idioti che ancora se ne stavano nell’ufficio del cid erano lui e la Steel. Tutti gli altri se n’erano tornati a casa secoli prima. Maledetti fortunelli.
Lui, invece, era bloccato lì.
Ad aspettare.
Il sedere gli si stava indolenzendo, per tutto quel tempo passato sulla sedia. Si mosse un po’. Armeggiò con la tastiera. Ricontrollò il telefono. Erano ancora le 20:40.
La Steel non alzò gli occhi dal taccuino su cui stava scrivendo. «Se hai bisogno del bagno, vacci e basta».
Lui smise di agitarsi. «Dobbiamo restare ancora a lungo?»
«Se hai finito di scrivere i rapporti degli interrogatori ai vicini della Galloway, va’ pure a casa».
«Sì». Restò dov’era. «Li ho finiti circa mezz’ora fa».
Lei strinse gli occhi e lo guardò, accigliandosi. «Mi stai tenendo d’occhio, non è così?»
«Io? No». Tentò di offrirle la sua migliore espressione innocente.
«Non sai proprio mentire. E puoi rilassarti, agente Quirrel, non sto aspettando che tu vada a casa per andare da Jack Wallace con una mazza da cricket e la fiamma ossidrica».
Oh, grazie a Dio.
Ciuffo buttò fuori un lungo sospiro di sollievo. «Bene».
«Userò una sega elettrica».
Lui la fissò, lì seduta con i capelli alla Albert Einstein. «No, sul serio?».
Lei si alzò e recuperò la giacca. «Torno a casa. Puoi anche seguirmi, se vuoi». Ammiccò. «Ma niente baci con la lingua».
Ciuffo seguì le luci posteriori della mx-5 della Steel giù lungo Union Grove. La testa del sergente dondolava di qua e di là mentre procedeva. Il cielo era attraversato da striature arancioni e scarlatte, mentre le nuvole passavano dal viola al nero. I lampioni emanavano la loro luce giallastra. Altra luce proveniva dalle finestre delle villette a schiera in granito che fiancheggiavano i due lati della strada.
Lei andò dritta alla rotatoria, immettendosi su Cromwell Road.
Ciuffo fece lo stesso, con la sua Panda che grattava emettendo rumori strani ogni volta che cambiava marcia. Forse avrebbe dovuto portarla dal meccanico per una controllatina. Ma se poi il meccanico avesse detto che era ora di abbattere la povera Betsy? E se non fosse riuscito a vedere e comprendere la bellezza della ruggine che ne ricopriva le fiancate e i coprimozzi? E quella parte del paraurti posteriore tenuta insieme da mezzo rotolo di nastro adesivo? E quell’odore di plastica bruciata che usciva dai cerchioni se doveva procedere su una strada irregolare?
Dei campi da gioco scivolarono via sulla destra, con tutti i fari accesi, per permettere a dei vecchi ciccioni di fingere di giocare a rugby.
La Steel rallentò sulla rotonda di Anderson Drive.
Okay, era un po’ un giro lungo, ma potevano svoltare a destra lì, risalire il viale a due corsie e tagliare su… No. Non aveva messo la freccia, stava continuando dritta.
Ciuffo si piegò in avanti, facendo cigolare il volante. «Dove stai andando, maledetta vecchiaccia?». Indicò. «Casa tua è da quella parte».
Un camion a diciotto ruote gli passò accanto, rombando verso sud.
Ciuffo superò la rotonda e si immise su Seafield Road. Ora c’era un tratto di parco a sinistra, mentre a destra si avvicendavano delle graziose villette bifamiliari in granito. Spinse sull’acceleratore, avvicinandosi alla mx-5 della vecchiaccia. E lampeggiò con i fari.
Vide comparire un dito medio nel piccolo lunotto sul retro dell’auto.
«Brutta vecchia cacabiscotti…».
Risalirono lungo tutta la Seafield, con le sue grosse case e gli enormi giardini. Superarono il Palm Court Hotel. E anche la piccola fila di negozi. Su fino all’incrocio, proseguendo dritti al semaforo.
«Dove diavolo stai andando, mostro? C’è qualcuno, qui, che ha un cofanetto di Buffy da cui tornare!».
Lei mise la freccia a sinistra e si infilò in un parcheggio accanto a un basso e brutto edificio e a una sorta di centro comunitario. Raggiunse a passo d’uomo una fila di bidoni dell’immondizia e si fermò. Mise la retromarcia ed entrò in una specie di recesso vuoto all’interno dell’edificio dipinto di beige e marrone.
Lui parcheggiò lì accanto. Controllò il telefono.
Secondo la mappa, quella era la Airyhall Library. Aperta dalle nove alle diciannove il lunedì e il mercoledì; dalle nove alle diciassette il martedì, il giovedì e il venerdì; e dalle dieci alle diciassette il sabato. Chiusa per un’ora a pranzo e per tutto il giorno la domenica. Quindi, non era lì per prendere in prestito un libro.
Ciuffo uscì dalla macchina.
Il suono di qualcuno che cantava si sentì attraverso il tettuccio dell’auto.
«Got home today, and whadda you know,
My tv’s covered in electric snow,
Got a “what devours, comes from below”,
And here’s me missing my favourite show!».
Era forse la Steel?
Sì, era lei che cantava, a tempo con la radio, con un sottofondo a base di banjo e fisarmonica.
«Get gone,
Get gone,
Get gone three times and turn to stone!».
Lui aprì lo sportello e si sistemò sul sedile del passeggero.
La Steel continuò a tamburellare con le dita sul volante.
«Sono tornata a casa, stasera,
E il mio compagno dice che vuole usare la cera,
Si sente Christian Grey e vuole che gli obbedisca,
E io gli ho detto: “Strozzati con una lisca!”».
Era pure abbastanza brava, con quella voce graffiante da nonna rock.
Lei si piegò di lato e lo pungolò con l’indice. «Avanti, Ciuffetto, non fare il timido».
Sì… ma anche no.
«Get gone,
Get gone,
Get gone three times, I’m on my own!».
Un assolo di fisarmonica si fece sentire dalla radio.
Lui le restituì il tocco con l’indice. «Aveva detto che sarebbe andata a casa!».
«Io dico un sacco di cose».
Ciuffo guardò fuori dal parabrezza, verso la parete laterale del centro comunitario, mesta come il muro di una prigione. «Questo non mi farà licenziare, vero?»
«Ti farei mai una cosa del genere?». Continuò a tamburellare sul volante a tempo di musica. «E si canta in cinque, quattro, tre…».
«È che, davvero, non voglio essere licenziato».
«Sono tornata a casa, ma non so perché,
C’è qualcosa che non va in me,
Perché questi corvi non mi lasciano stare,
E per l’eternità mi devono tormentare!».
Sì, molto confortante.
«Sergente?»
«Get gone,
Get gone,
Cos this old world’s all made of bones…».
Lei gli sorrise. «Avanti, Ciuffo, non devi fare altro che cantare “get gone” una dozzina di volte, fino alla fine. Pronto? Via…».
Lui borbottò il ritornello, sentendosi avvampare sempre di più a ogni ripetizione. Fino a quando, finalmente, il dj fece sfumare nel nulla quella maledetta canzone.
«Un vecchio classico per voi! Questa era Catnip Jane, con Three Times Gone».
Ciuffo si afflosciò sul sedile. «Grazie a Dio».
«E non dimenticate, ci sentiamo per il Karaoke con gli ascoltatori alle otto, e avremo un ospite speciale, che ci parlerà delle proteste di questo sabato dell’Unione Agricoltori del Nordest. Ma prima, ecco dei messaggi da parte di…».
Lei spense il motore. «Ce l’hai una ragazza, Ciuffo? O un ragazzo? O una pecora preferita?».
Lui lanciò uno sguardo fuori dal finestrino del passeggero, verso una grossa saracinesca grigia e uno spazio vuoto, con l’angolo di una sorta di prefabbricato. Un sentiero fiancheggiato da alberi, un piccolo capanno e il retro di una casa. Lo spazio tra la parete di mattoni della biblioteca e i bidoni dell’immondizia dava sul piccolo parcheggio. Non c’era traccia di auto, però, a parte il brutto furgone marrone abbandonato in un angolo con due gomme a terra, il cofano ammaccato e un adesivo con la scritta “segnalato alla polizia” sopra.
Ciuffo tornò ad appoggiarsi al sedile. «Jack Wallace non comparirà qui all’improvviso per riportare una copia de Il vento tra i salici alla biblioteca, lo sa, vero?»
«Tutti dovrebbero avere qualcuno da amare. Qualcuno di cui fidarsi. Qualcuno che non ha bisogno di essere tosato due volte l’anno».
«Io non mi scopo una pecora».
«Tutti i gusti sono gusti». Lei giocherellò con i controlli al lato del sedile, reclinandolo un po’ all’indietro. «E ora: io vedo… qualcosa che comincia per L».
Ciuffo sporse le labbra e annuì. «…Poi sono uscito con Rebecca. Era carina. Cantava in una band che faceva cover di canzoni country».
«Non hai proprio gusto. Allora, ti arrendi?»
«Ma poi si è trasferita a Manchester per l’università, ed è finita così. “Furgone del pane”?»
«No».
«Poi c’è stata Siobhan. Non so perché siamo finiti insieme; in realtà non mi sembrava che le piacessi molto…». Un sospiro. Non aveva importanza quello che faceva, per lei sbagliava sempre. E poi russava. «“Furgoncino”?»
«E quella bella agente dei crimini contro gli animali con quel seno delizioso?»
«Be’?».
Lei lo guardò, maliziosa. «Te la sei già portata a letto?»
«Dio, ma pensa solo a una cosa, lei?». Si agitò sul sedile. «Comunque, la conosco appena. “Furgone marrone”?»
«Be’, e che stai aspettando? Vai a trovarla! Dovevi organizzare il funerale di quel povero cagnolino, pigro idiota che non sei altro».
«E quando? Le sono stato dietro per tutto il giorno!». Davvero. «Un momento, sarà mica “furgone ammaccato”? Quello lì che sembra caduto giù da un palazzo?»
«Ci sei arrivato, finalmente». La Steel prese un paio di tiri dalla sua sigaretta elettronica. «Sta a te».
«…Ma poi una volta sono tornato a casa dal lavoro e Lisa aveva rotto tutte le tazze che avevamo in casa, aveva accoltellato il frigo con una lama da arrosto da venti centimetri ed era scappata con tutta la mia collezione di dischi».
«Pfff…». La Steel si afflosciò ancora di più. «Comincio a pentirmi di avertelo chiesto. La tua vita sentimentale è uno schifo».
Ciuffo si girò sul sedile. «Potremmo cambiare argomento, allora. Per esempio, che ne dice dei buchi neri?»
«Cos’è, un doppio senso malizioso?»
«No, senta qui: le particelle di materia e antimateria escono fuori dalla schiuma quantica, ogni tanto, okay? Diciamo che siano un elettrone e un positrone. Di solito si annullano a vicenda, ma Stephen Hawking dice…».
«Ciuffo, tu…».
«…Che se succede vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero e l’elettrone riesce a sfuggire, ma il positrone ci cade dentro, allora…».
«Ciuffo!».
«…La massa negativa del positrone inghiotte un pezzettino del buco nero, e quindi alla fine evaporerà. Certo, questo dipende dal fatto che nessun’altra particella di materia cada nel… Ahi!».
E poi lei lo colpì di nuovo. Dritto sul braccio. E non fu neanche un piccolo schiaffo, ma un colpo secco e ben assestato.
«Ahi!». Lui si massaggiò il punto dolente. «La smetta!».
«Ho cambiato idea. Niente fisica. Torna pure a raccontare la tua orribile vita sentimentale. Cerca almeno di metterci dentro un po’ di pepe, eh? Vorrei sentire almeno un po’ di brividi caldi, prima che tu mi annoi a morte».
«…Vomito tutto addosso a lei. Non mi ha voluto più parlare, dopo quella storia». Si strinse nelle spalle. «E poi sono uscito con Hannah per tre settimane. Lei era tremenda».
Molto, molto tremenda.
In tutti i posti migliori.
Una volta, perfino nel piano di sopra di una corriera notturna per Glasgow.
Un sorriso caldo gli sollevò gli angoli delle labbra.
La Steel lo pungolò. «Ehi!».
«Mi scusi. “Bus storto”?»
«Dovresti condividere i dettagli piccanti. E comunque, no».
«Ma suo padre è finito dentro per guida in stato di ebbrezza e di colpo tutti i poliziotti sono diventati dei “fascisti bast…”».
Lei lo colpì di nuovo. Forte.
«Ehi, basta!».
«Zitto, idiota!».
Una figura in ombra, vestita di nero e con uno zaino sulle spalle uscì da dietro i bidoni dell’immondizia. In stile ninja. Sempre che i ninja potessero avere freddo alla testa, considerando lo spesso cappello di lana nera che indossava. E a quel punto, notarono che era una donna.
La Donna Ninja con lo Zaino si guardò intorno per un attimo, ma forse la macchina della Steel era parcheggiata davvero in modo da essere invisibile, o forse la Ninja era un’idiota, perché si portò verso il basso muretto che separava il retro della biblioteca dal centro comunitario. Lo superò con un salto e puntò con cautela verso una porta dipinta di rosso.
Altri sguardi in giro, poi prese un piccolo piede di porco dallo zaino. Un colpo secco al chiavistello ed entrò, chiudendosi la porta alle spalle.
La Steel rimise dritto il sedile. «Be’, speravo nell’arrivo di uno spacciatore, ma andrà benissimo anche questo».
Uscì dalla macchina e chiuse in silenzio lo sportello. Lanciò uno sguardo a Ciuffo, portando l’indice alle labbra. «Shhh…». Poi proseguì in punta di piedi fino al muretto, lo superò e si schiacciò contro i mattoni accanto alla porta scassinata. Come in una scena di Scooby-Doo.
Quella donna era pazza.
Ah, be’. Tanto valeva partecipare.
Ciuffo uscì dalla macchina e si avvicinò. Superò la ringhiera del muretto e si fermò accanto a lei, con le mani in tasca. «Finora abbiamo: “vandalismo”, “tentativo di furto con scasso” e violazione del Codice Civile Scozzese, legge 1982: Sezione Cinquantotto, Parte Uno, cioè: “porto di oggetti atti allo scasso”».
«Shhh!». La Steel si avvicinò di nuovo un indice alle labbra, bisbigliando: «Vuoi stare zitto?».
Poi spinse la porta scassinata ed entrò.
Lui la seguì in uno stretto corridoio con le pareti di blocchi di cemento. Un mucchio di oggetti per la pulizia lo rendeva ancora più stretto.
Un’altra porta in fondo si apriva su un corridoio molto più grazioso, con la moquette sul pavimento e pareti intonacate e sparse di poster e cornici. “puoi fare la differenza per la tua comunità!”, “corsi di ginnastica per mamme disponibili ora!!!”, “insieme, possiamo fare qualsiasi cosa!”.
C’erano porte da entrambi i lati.
La Steel indicò.
Giù in fondo, una di esse si chiuse lenta grazie al braccio metallico che le impediva di sbattere, soffocando dei rumori strani all’interno. Era come se un enorme gatto si stesse facendo le unghie lì dentro.
Si avvicinarono e sbirciarono dal pannello di vetro della porta, notando una sorta di caffetteria piena di sedie di plastica e tavolini. C’erano anche due sgabelli e un piccolo bancone di lato, con una minuscola cucina dietro di esso. E bacheche piene di disegni infantili.
La Donna Ninja con lo Zaino aveva trascinato una pila di sedie lontano dal muro, e questo spiegava i rumori di poco prima. Adesso era lì di fronte, con lo zaino ai suoi piedi, e stava scrivendo delle parole con la vernice spray sui mattoni di cemento, in grosse lettere rosse e gocciolanti: “la signora brockwell è una grassa e stupida vacca!”.
Povera signora Brockwell.
Ciuffo entrò nella stanza.
La graffitara ninja arretrò per ammirare il suo lavoro. Poi ci aggiunse un punto esclamativo in più e sottolineò tre volte la parola “vacca”.
La Steel si schiarì la gola con un potente «Er-h-mmh!», per poi aggiungere: «Non mi sembra esattamente un Van Gogh, vero?».
La Donna Ninja con lo Zaino si bloccò dov’era.
«Yu-huuu!», la salutò la Steel, agitando una mano. «Lo sai che ti stiamo guardando?».
Una singola parola sussurrata spezzò il silenzio. «Merda…». E poi scappò: afferrò lo zaino e scattò verso l’unica altra uscita, ancora con la bomboletta di vernice spray in mano.
«Oh, no, neanche per sogno!». E Ciuffo si lanciò all’inseguimento.
Lei saltò oltre una fila di tavoli con una capriola in stile parkour. Atterrò e si mise lo zaino in spalla in un unico, fluido movimento. Non si fermò neanche un attimo per riprendere fiato.
Molto fico.
Ciuffo si scagliò contro i tavoli, facendo rovesciare un paio di sedie. Lei superò l’uscita, ma l’agente le era alle calcagna, ed entrarono entrambi in una grossa stanza con file e file di sedie di plastica rivolte verso lo schermo di un proiettore.
Lei si lanciò in mezzo alle sedie, tagliando in diagonale attraverso la sala e puntando dritta alle tende in un angolo.
Quello che si lasciò dietro somigliava a una scena di battaglia di un film ad ambientazione medievale: sedie di plastica rovesciate che puntavano le loro gambe di metallo in ogni direzione come lance, in attesa di infilzare un ignaro Ciuffo.
No, grazie, non avrebbe corso quel rischio.
Passò dall’esterno, invece. Era una rotta più lunga, ma almeno non avrebbe rischiato di ritrovarsi impalato.
Lei tirò indietro una delle tende, rivelando un’uscita d’emergenza. Afferrò la sbarra di metallo proprio mentre Ciuffo chiudeva la mano sul suo zaino.
«Non andrai da nessuna parte!».
La porta doveva essersi aperta abbastanza da far scattare l’allarme, perché una sirena assordante si fece sentire da qualche altoparlante nascosto. Forte abbastanza da rimbombare nelle ossa.
«lasciami!». La Donna Ninja con lo Zaino si girò di scatto.
Da vicino e da davanti, non sembrava proprio una tipa da parkour. Piuttosto, sembrava la madre di qualcuno: mezza età, occhiali, i capelli che sfuggivano da quel berretto di lana nera in ricci castani a cavatappi. E un ringhio a denti scoperti. «grrrrah!». Alzò la bomboletta che aveva ancora in mano e premette il pulsante.
Uno spruzzo sibilante di nebbia rossa esplose in faccia a Ciuffo. «aaaaaaaargh!». Chiuse gli occhi in tempo, ma non la bocca. E ora tutto sapeva di sostanze chimiche e trementina.
La lasciò andare e si coprì il viso con entrambe le mani.
Lei continuò a spruzzare, vuotando la bomboletta.
La sentì cadere sulla moquette con un tonfo metallico.
Ciuffo tentò di riaprire gli occhi, nonostante le ciglia appiccicose, mentre lei spingeva con la spalla l’uscita di sicurezza.
No!
Si gettò contro di lei, in un placcaggio da rugby, avvolgendole le braccia intorno alle cosce e finendo insieme sul marciapiede all’esterno.
«lasciami!».
No.
Le strisciò addosso, mentre lei lo colpiva a schiaffi e pugni sulle spalle e sulla schiena.
Ma questo non lo fermò.
Ciuffo prese le manette e le afferrò un polso. Click. Un minimo strattone per farle spostare la mano nella direzione sbagliata, un minimo di pressione e…
«aaaaaaaaaaaaargh! mi stai spezzando il polso! mi stai spezzando il polso!».
«e allora smettila di colpirmi!».
Lei si afflosciò, e Ciuffo la costrinse a portare indietro l’altro braccio per finire di ammanettarla. Poi la trascinò in piedi.
Era coperta di manate di vernice rossa.
La Steel comparve, con le mani in tasca. Gli sorrise, divertita. «Sembri il culo di un babbuino».
Ciuffo le lanciò un’occhiataccia, con la faccia tutta appiccicosa, la pelle tesa e una terribile puzza di vernice addosso.
Il piccolo idiota si stava ancora lamentando, quando raggiunsero il Quartier Generale della Divisione. Borbottava e mugolava. Lanciava occhiatacce e mugugnava, mentre conduceva la donna arrestata oltre la porta sul retro. Poveretto.
«Dannata vernice, sporco ovunque, su tutta la mia povera, piccola macchina…».
Gnè, gnè, gnè, sono tutto coperto di vernice, gnè, gnè, gnè.
Roberta tenne la porta aperta per lui e Ciuffo condusse la loro artista di strada nel blocco di detenzione. Per farlo sorridere, si lanciò in una versione fischiata de La signora in rosso.
L’idea le fece guadagnare un’occhiataccia scarlatta. «Oh, quanto è fottiziosamente divertente, vero?».
La donna arrestata si girò a guardarlo infastidita. «Devo andare in bagno».
«Oh… sta’ zitta». La spinse verso il bancone.
Il sergente Downie era di turno quella sera, in tutto il suo pallore senza mento. Un verme albino in uniforme da poliziotto. Downie alzò lo sguardo da quello che stava leggendo e fece cenno a Roberta di avvicinarsi.
Ciuffo posò lo zaino della donna sul bancone. «Aggressione. Vandalismo. Effrazione. Possesso di attrezzi da scassinamento. Resistenza all’arresto. Si rifiuta di dare…».
«Ehi». Downie sollevò un dito. «Un momento, agente, i grandi devono parlare, prima».
Ciuffo ringhiò. Difficile capire se stesse anche arrossendo per la rabbia, a causa di tutta quella vernice.
«Mia cara, Big Gary mi ha fatto sapere che sei stata alquanto maleducata riguardo a qualcuno che doveva recuperare il suo Nokia rubato».
Lei scosse la testa. «Non sono stata maleducata, Jeff, ero davvero infastidita».
«Be’, non esserlo più. Sono riuscito a rintracciare quel telefono in magazzino, quindi non devi più preoccupartene». Si posò una mano sul cuore. «No, non ringraziarmi! Mi ci è voluta un’eternità ed è stato un dito nel posteriore non da poco, ma almeno adesso è tornato in possesso del proprietario».
Lei lo fissò.
Aveva…
Il telefono di Tommy Shand?
Con tutto quel sesso con minorenne sopra.
Come si poteva essere così…
Roberta faticò a tirare fuori le parole, come se fossero sferette brucianti di cacca di gatto. «Gli hai restituito il telefono?». Senza quel telefono non c’erano prove da consegnare al procuratore. Ed era ovvio che Josie Stephenson non avrebbe mai denunciato il suo ragazzo, giusto? L’intera storia si era appena trasformata in un assurdo e completo disastro.
«Aveva tutti i documenti del caso».
«Oh, per…». Si sentiva la testa sul punto di esplodere. Davvero. Da un momento all’altro: bang, pop, splat! «aaaaargh!». Si piegò in avanti e sbatté la testa contro il bancone.
«Se non volevi che il telefono fosse restituito, perché non hai detto niente? Non c’erano appunti o note, o altro».
«Arrgh…».
Thunk, thunk, thunk.
«…Aaargh, orribile caccabiscottosa ignobile…». Mezz’ora nel bagno degli uomini con un enorme mucchio di fazzoletti di carta sporchi e una bottiglia di trementina e Ciuffo aveva ancora il colore dei pomodori.
Posò l’ennesima salvietta di carta sulla bottiglia e la rovesciò, facendola diventare di una tonalità più scura di verde. Poi si strofinò una guancia rossa.
«Maledetta stronza fottizìo scopaconigli…».
La porta si aprì di scatto e la Steel entrò. «Urrà per la grande eroina conquistatrice!».
«Dannata schifosa…».
«Sarai felice di sapere che la nostra nuova ospite ha ammesso ogni cosa». Saltellò, sedendosi sul bordo del lavandino accanto a quello di Ciuffo. «A quanto pare, la signora Brockwell aveva squalificato il suo pan di Spagna per averci messo dentro della marmellata di fragole».
Lui bagnò un’altra salvietta di trementina. «Sono sporco come non ero mai stato prima!».
«Chi avrebbe mai pensato che ci fossero sentimenti così violenti in un centro comunitario?».
Blearrrrg… un rancido odore di benzina gli riempì la bocca, mentre si puliva le labbra. Strofinò forte, poi sputò. «La divisa è rovinata. E ha visto in che condizioni è la mia macchina?».
Lei si strinse nelle spalle. «Be’, non potevamo riportare la prigioniera alla stazione nella mia, no? Non ha il sedile posteriore». Gli tese un altro fazzoletto di carta. «E credi di essere nei guai? Che ne dici di me? Io dovevo portare fuori a cena Susan al nuovo ristorante francese. Non sarà felice del pacco che le ho tirato».
«Oh, buuh-huuh!». Lui si girò a guardarla. «Io sono coperto di vernice!».
«Sì, questo è vero, non c’è dubbio». Gli rivolse una smorfia. «Avanti, Ciuffetto, guarda il lato positivo: almeno, io l’ho trovato divertente».
Lui si limitò a fulminarla con lo sguardo.
Roberta si tirò su i pantaloni e si appoggiò al davanzale. Sorrise.
Il reparto era buio e tranquillo, e tutti gli otto letti d’ospedale erano occupati da bambini. Perlopiù erano addormentati, ma il visetto di una bambina a metà corsia era illuminato dal riflesso bluastro di una console da gioco portatile. L’unica altra luce proveniva dall’angolo in cui la lampada a braccio era sistemata sopra al letto di Harrison Gray. Che razza di mostro chiama suo figlio “Harrison”? Non avrebbero dovuto permetterlo per legge.
Aveva le ginocchia strette al petto, e le borse sotto agli occhi più scure e profonde, sotto quella luce intensa. Il muco scintillava sul suo labbro superiore.
Lei prese un fazzoletto, ci sputò sopra e lo pulì. Tenne bassa la voce, in un sussurro complice. «Ecco qui, ora sei molto più carino».
Lui la fissò con i grandi occhi scuri. Non emise un suono.
«I medici dicono che dovrai restare qui ancora per un paio di giorni, finché quelle brutte abrasioni non guariranno. E poi potrai andare a vivere con una vera famiglia. Sarà bello, no?».
Niente.
«Una vera famiglia, con tante buone cose da mangiare. Niente più “pezzi di pollo e fegato in gelatina per un pelo folto e ossa sane”».
Il bimbo sbatté le palpebre.
«Sai, ci sono tante cose, nella vita, oltre al cibo per cani. La pizza, per esempio; il fish and chips; la zuppa; e la bistecca con le patatine; e il curry; e il sushi; e le salsicce, i fagioli, le patate fritte; le uova con patatine; e i maccheroni al formaggio con patatine…». Roberta si leccò le labbra, sentendo lo stomaco che brontolava. «Insomma, se ci metti le patatine, diventa tutto molto buono, credimi».
Ancora niente.
«So che hai visto cose terribili, e avere un nome orribile come “Harrison” non aiuta, ma la vita migliorerà. Davvero, credimi». Gli pulì di nuovo il nasino dal moccio. «Devi soltanto permetterlo. Okay?».
Una figura comparve dall’oscurità. Una piccola infermiera con i capelli gonfi, un lieve sorriso, dei guanti chirurgici e un barattolo di qualcosa. «Mi scusi, ma è il momento di mettere un po’ di pomata sulle abrasioni di Harrison. A te piace, vero, Harrison? Ti fa sentire meglio e non fa più male…».
Il bambino si limitò a fissare anche lei.
«D’accordo». Come se le avesse detto di sì. Rivolse quel sorriso a Roberta. «Non si preoccupi, ora è in buone mani».
«Sì, be’, stavo giusto andando, comunque». Roberta gli arruffò i capelli. «Comportati bene, tu». E poi sparì nella notte.
Roberta suonò il campanello di casa sua. Se ne rimase lì, con una mano dietro la schiena. Contò fino a dieci, poi suonò di nuovo.
La voce di Susan, dal fondo del corridoio. «D’accordo, d’accordo, non vi strappate i capelli… arrivo». La sua ombra si fece più grande, nei pannelli di vetro smerigliato accanto alla porta. Poi la luce che si intravedeva dallo spioncino svanì. «Oh, sei tu, eh?».
Un rumore metallico, mentre toglieva la catena del chiavistello.
Roberta sporse il labbro inferiore e offrì i suoi migliori occhi da cucciolo. «Prima che tu dica qualcosa…». Tirò fuori il mazzo di rose e crisantemi. «Ta-da!».
«Ti sei fermata alla stazione di servizio mentre tornavi a casa, eh?»
«Da Tesco, veramente, grazie tante».
«Ma cosa è successo alla mia bellissima serata al ristorante francese?»
«Difficoltà operative». Si piegò in avanti e posò un bacio sulla guancia di Susan. «E ora porta quel corpo sexy di sopra, e vedrò di farmi perdonare».
Susan roteò gli occhi. Sospirò. E poi sorrise. «Roberta Elizabeth Steel: sei una terribile prova per la tua povera moglie, lo sai, vero?».
Per tutta risposta, lei affondò il viso nel collo di Susan e cominciò a fare dei buffi rumori ronzanti, finché lei non si mise a strillare e a ridere.
Il piano di sotto era immerso nell’oscurità, ma una luce era accesa in camera da letto. Uno di quei grandi letti matrimoniali. Diversi specchi e cornici alle pareti. E quegli specchi permettevano di controllare tutta la stanza. O almeno, permettevano di farlo dall’altra parte della strada, con un binocolo.
Perché ci mettevano tanto?
Ah, eccole. La vecchia lesbica rugosa e la sua sciatta mogliettina altrettanto lesbica.
Che si baciavano in piena vista, come due adolescenti. Senza il minimo pudore.
Disgustoso, davvero.
La donna sciatta avanzò fino alla finestra e chiuse le tende, non prima, tuttavia, che quella troia della Steel le si avvicinasse alle spalle e le mettesse le mani sul seno.
E lì finì. Il sipario si chiuse. Non c’era più niente da vedere.
Un gatto attraversò la strada: grosso, grasso e peloso. Per il resto, il marciapiede era vuoto.
Jack Wallace abbassò il binocolo e uscì dalle ombre. Prese la scatolina del tabacco con il nome di suo padre inciso sulla vernice, e schiacciò il mozzicone di sigaretta in una morte di cenere grigia. Aggiungendolo alla collezione.
Certa gente sarebbe stata furiosa, ora: stare lì per due ore a non fare niente, a parte fumare e cercare di non attirare l’attenzione di nessuno… Ma non lui. Era la parte prima. Quella della calma. Quella tranquilla. Quella in cui erano così vicine che ogni singolo tendine e muscolo vibrava per l’attesa. Ed era la parte migliore.
A confronto, coca, eroina e metamfetamine non erano niente.
Jack Wallace sorrise verso la casa di quella troia della Steel. «Oh, sì, ci divertiremo così tanto».
Si girò e si allontanò, con le mani in tasca, fischiettando soddisfatto.
Si sarebbe divertito davvero tanto.