POESIE

COME UNA FIERA FAGIANA

Come una fiera fagiana

nei bruni boschi si aggira

sola, nelle doviziose penne,

muovendo il piccolo capo

5 maestosa e dolce e ricca di colori

I versi sono inediti, appuntati su un foglietto conservato tra le lettere di Attilio. L’immagine è chiaramente simbolica della bellezza e della fierezza ritrosa di Ninetta nel paesaggio silvestre. L’aggettivo «maestosa» è di derivazione baudelairiana da Le beau navire, vv. 10-12 («Ta tête se pavane avec d’étranges grâces; / D’un air placide et triomphant / Tu passes ton chemin, majestueuse enfant», che Bertolucci traduce in prosa: «il tuo capo si pavoneggia con strane grazie, e tu avanzi per la tua strada con aria placida e trionfante, maestosa fanciulla»). È possibile che la giovane non avesse ancora ricambiato la corte del poeta. Si noti l’aggettivazione, culminante nella sequenza ternaria, forse eco della prosa di Proust, e nel polisindeto finale. Di questi versi Bernardo Bertolucci scrisse, il 3 novembre 2017: «Mi hanno toccato molto i versi sulla fagiana Ninetta: è l’invenzione di un mito. Non so perché è un mito che mi sembra di conoscere bene, come facesse parte del mio DNA».

AMORE A ME…

Amore a me vicino

di tua crudeltà mi consola,

fuori è notte e cade

una dolce pioggia improvvisa.

5 La famigliare lampada rivela

le intime e care cose,

amore parla e parla di te

sommesso, come acqua fra erbe alte.

La lirica è suddivisa in due quartine di versi liberi. Gli enjambement fra i vv. 3-4, 5-6, 7-8 hanno funzione musicale di legato, mentre la ripetizione («Amore… amore»; «parla e parla») crea una suggestiva immagine fonosimbolica. Il tema della crudeltà dell’amata (Ninetta non aveva ancora accettato la corte di Attilio) è qui trattato secondo il modello stilnovistico, con la personificazione di Amore; ma il momento notturno e meteorologico trasferisce il motivo classico in una dimensione domestica e agreste, chiave della poesia del primo Bertolucci. Si osservi l’aggettivazione indefinita e sentimentale, al modo di Leopardi («dolce»; «intime e care»), e la similitudine che suggerisce, con tocco realistico, il suono «sommesso» dell’acqua del ruscello. Il componimento fu pubblicato in FN; CI¹; CI²; P e O.

BACCHE E RUGGINE

L’accendersi improvviso delle lampade

nella nebbia del ponte,

l’arcana luce dei tuoi capelli

neri riflessa dall’acqua che si muove.

5 Il giorno d’inverno ha fiorito

di bacche le siepi deserte, di ruggine

vestito i cancelli, il silenzio

dura sino a notte.

La nebbia sul ponte, illuminata dalle lampade, dona chiarore e mistero all’amata, della quale si disegna solo il nero della chioma, «riflessa dall’acqua», specchio e segnale del fluire del tempo. Un fluire che investe il giorno invernale e il paesaggio, echeggiante Leopardi, di siepi e ville, con una nota sul transito del tempo che si manifesta nei «cancelli» già corrosi. La pennellata cromatica, evocata per dipingere la giornata invernale (si noti il chiasmo con rima interna «fiorito / di bacche… di ruggine / vestito»), non attenua la malinconia del passaggio temporale. La lirica, composta fra il 1935 e il 1940, fu pubblicata nel 1993 nella sezione Teneri rifiuti della raccolta VSC; in P e O.

IL BAGNO

In questo canale fra viti

spruzzate di verderame

nel caloroso pomeriggio estivo

facevi un bagno giulivo.

5 Eri piccola e nuda,

beata dell’acqua che voleva

portarti via, dove vanno le libellule.

L’ambientazione agreste, con un tocco cromatico nel secondo verso, e la nota estiva si aprono alla felicità della fanciulla, cui il poeta si rivolge. Ma è nei tre versi finali che il corpo di lei si disegna con rilievo pittorico nel suggestivo, appena velato dal timore della perdita, fluire dell’acqua in un lontano volo di libellule. Nella poesia Vita (S) l’acqua porta con sé il pensiero della fine: «Come un ruscello / è mia vita, e continuamente / si disperde. / Un giorno / sarò tutto disperso». Per le libellule si veda il paesaggio estivo di Ricordo di fanciullezza (FN): «Passano libellule, s’odono le trebbiatrici lontane, / si vive come in un caldo sogno». La lirica risale, come la precedente, agli anni 1935-40; fu pubblicata nella sezione Teneri rifiuti di VSC; in P e O.

ALTRA VOLTA NEL BUIO

Altra volta nel buio della stanza

ti vidi tingere, luce paziente,

l’orlo del davanzale di rosso.

Era l’estate dell’anno…

5 Calda l’aria di un giorno

perduto che l’amore

di te muoveva la pianura

e l’ombra lunga degli alberi.

La lirica nasce nel passaggio tra «buio» e «luce» di un tramonto estivo, sull’onda di un ricordo. La sospensione crea il pensiero del tempo che passa e il mistero della lontananza di colei che, con un’eco dal v. 145 del canto XXXIII del Paradiso («l’amor che move il sole e l’altre stelle»), investe d’amore la natura. La posizione forte dell’aggettivo «lunga» dell’ultimo verso è fisicamente e musicalmente assai efficace. Il componimento fu pubblicato nella sezione Teneri rifiuti di VSC; in P e O.

INCOMPIUTA

Nell’argentea stagione al finire

tormentoso dell’anno la bellezza

dei fiori muore al fiato

freddo dell’alba, inutile nasce il sole.

5 Così il tuo bruno volto, l’incarnato

pigro che il garofano ora vince

immobile meriggio e grevi nubi

della matura giovinezza annuncia.

Le due quartine mettono a confronto un quadro invernale e il ritratto del volto dell’amata, legati dal motivo del mutare della bellezza, colta nello sfiorire dei fiori a causa del freddo dell’alba e nel passaggio della donna dalla giovinezza alla maturità. All’interno della descrizione del «bruno volto» e dell’«incarnato» di Ninetta appare il riferimento al «garofano», che è motivo costante della sua bellezza e che, con Paolo Lagazzi, potrebbe essere stato ispirato dal Leitmotiv proustiano della «donna-fiore» e delle fanciulle «floreali». La poesia fu pubblicata nei Versi negli anni di LUC, ma la sua datazione va riportata agli anni di FN, per l’affacciarsi del pensiero del tempo nemico della bellezza, presente in questo breve componimento: «La bellezza del fiore / Il tempo uccide. / Ov’è il vago colore / Che estate vide?», e nella versione del sonetto 18 di Shakespeare, vv. 7-8 «Ogni bellezza rapida declina / Guasta da sorte o dal variar del corso», rimasti inediti e pubblicati in FC. Nella lettera del 30 gennaio 1934 il poeta si mostra entusiasta della commedia As you like it, che definisce «una commedia per noi» e di cui pubblicherà una versione da Come vi piace dell’atto II, scena I in «Paragone», CCVI, 26, aprile 1967 e successivamente in Imitazioni. Anche nella lettera del 1° marzo 1934 desidera rivolgersi a lei con le parole d’amore dai «meravigliosi» sonetti shakespeariani. Il componimento si legge in P e O.

MADRIGALE

Sì: ho colto i garofani alteri

delle tue guance,

e avevano corolle sì rance

con sì bizzarri screzi neri…

5 Ma sotto i tuoi occhi

son cresciute viole,

come di marzo al primo sole,

sulle rive dei fossi.

Il titolo rimanda alla lirica idillica e pastorale di origine popolare e di tono galante della tradizione italiana. Il «Sì» iniziale è affermazione trionfante per il cedimento della fanciulla, rappresentata dalla bellezza del volto e raffigurata con la metafora del garofano e dei suoi colori. La sospensione, che lascia intuire l’incontro sessuale, introduce alla seconda parte, dove sono le «viole» a rivelare la trasformazione della fanciulla. La similitudine in explicit dona una pennellata all’ora e al paesaggio primaverile e campestre. Le «viole» appartengono all’erbario di Bertolucci sia come fiore gentile, segnale della stagione e del passare del tempo («O bruna violetta / giunta troppo presto fra noi», O bruna violetta, LC), sia, metaforicamente, come indizio d’amore. In CL la metafora si ritrova nel titolo del capitolo XXXV, Viole peste, derivato dal v. 105 «viole da me seminate la notte». Il componimento fu pubblicato in FN; CI¹; CI²; P e nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

SCHERZO

Ho una voglia pazza

di cantare l’autunno che viene

ma, ahimè, la mia ragazza

mi vuol troppo bene.

5 Infatti Keats così sfortunato

con la sua Fanny

in modo insuperato

vi riuscì.

L’autunno è stagione molto cara al poeta, con le prime nebbie e il «soave morire / dell’anno» (Versi scritti in autunno, vv. 10-11). All’autunno Keats dedicò l’ode To Autumn, che Attilio imitò nel comporre La rosa bianca e che è presente anche in questa festosa composizione, in cui si confrontano due storie d’amore, quella infelice del poeta inglese per Fanny Brawne e la propria, assai felice. Non si esclude che il tema dell’autunno, emblema di malinconia contrastante con la soddisfazione amorosa, sia una ripresa da Laforgue («C’est l’automne, l’automne, l’automne…» è incipit di Dimanches in chiave psicologicamente mesta), poeta molto letto da Attilio e i cui versi sono citati nella lettera del 25 luglio 1933. Anche il tema autunnale in Baudelaire, da Chant d’automne a Sonnet d’automne a Brumes et pluies, può essere stato presente al poeta parmense, frequentatore assiduo dei Fiori del male. La poesia fu pubblicata in FN e, esclusa dalle altre raccolte, fu ripresa nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

QUESTO SOLE

Questo sole di gennaio

che scalda il cuore

ti ride negli occhi gaio

se alla finestra aspetti il tuo amore.

5 La gente che passa e ti vede

bella e tranquilla come un fiore

invidia colui che tiene

padrone il tuo cuore.

Le due quartine di versi liberi, che presentano rime alternate e assonanza tra i vv. 5 e 7, hanno un ritmo molto melodico nel celebrare la grazia, la serenità e la sorridente attesa del fidanzato da parte di Ninetta. Il motivo degli «occhi», che qui rispecchiano la luce solare, è caratteristico della poesia della lode dell’amata, di ispirazione petrarchesca; ma non si dimentichi Ciel brouillé (Cielo turbato) di Baudelaire, dedicato a una donna i cui occhi riflettono il cielo. Il componimento fu pubblicato in FN; CI¹ e nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

AMORE E VITA DI DONNA

Ninetta,

quando con una nera

frangetta

correvi per il tuo borgo, la sera,

5 tenendo stretto

il cartoccio dello zucchero blu

contro l’acerbo petto

sino a non poterne più…

La poesia in metro libero ha ritmo leggero e cantabile, che richiama Les Contrerimes di Paul-Jean Toulet, uno dei poeti fantasisti ai quali Montale apparentò, per «vena, fantasia e respiro», il giovane Bertolucci di FN. Rivela tuttavia incisività visiva e pittorica, nella macchia accesa del «cartoccio dello zucchero blu», e felicità creativa nel ritrarre il primo piano in movimento della fanciulla. La «nera / frangetta» rimanda alla frangetta e all’innocenza audace di Louise Brooks, ammirata nel 1928 in Capitan Barbablù di Howard Hawks e rimasta per molto tempo chiara nella memoria. A lungo inedita, fu pubblicata nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

ANACREONTICA

Vorrei esser il sole che ti scalda

quando esci dall’acqua, freddolosa

e gocciolante, e sì ti fa radiosa

negli occhi, felice e calda.

5 Vorrei essere l’erba che accoglie

le belle membra in riposo,

il castagno annoso

ch’ombra il tuo sonno con lucide foglie.

Vorrei esser l’ape che si posa

10 su te che dormi nel meriggio estivo

(il tuo respiro è un quieto e dolce rivo)

ingannata dal tuo aspetto di rosa.

Vorrei esser la brezza che ti sveglia…

Il titolo della poesia rimanda al genere della canzonetta che, avendo leggiadria, intonazione mobile nel metro, e tema galante e frivolo, fu coltivata a imitazione dello pseudo-Anacreonte [Jacopo Vittorelli (1749-1835) intitolò Anacreontiche le sue poesie], dalla metà del Cinquecento al Settecento. Ma la ripetizione in anafora «Vorrei esser» è variazione dal sonetto S’i’ fosse foco, arderei lo mondo di Cecco Angiolieri, mentre si notano nella seconda quartina, vv. 5-6, e nel v. 11 immagini ispirate alla canzone Chiare, fresche et dolci acque di Francesco Petrarca (si ricordi «Chiare, fresche et dolci acque, / ove le belle membra / pose colei che sola a me par donna») e al riposo idillico di Erminia tra i pastori della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. La piccola ode, letterariamente preziosa, acquista tuttavia una valenza moderna e realistica nel raffigurare Ninetta che esce dal bagno «freddolosa / e gocciolante… felice e calda» di sole. Le tre quartine presentano rima incrociata e un verso conclusivo isolato, sensualmente allusivo grazie alla reticenza. Il componimento fu pubblicato tardi nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

GIUGNO

Stan le ciliege rosse tra le foglie

nella calma sera estiva

vedo il mio amore che le coglie

seria come una bambina, e così sola e schiva.

5 Non oso chiamarla, tanta grazia

è nella mano bruna che spicca…

Qualcuna ne mangia, ma come sazia,

movendo la capigliatura nera e riccia.

Un’ambientazione estiva e agreste fa da contorno alla fanciulla, colta con tratto impressionistico e pittorico, con la vivezza cromatica che fu propria della poesia di Corrado Govoni e che si ammira nel dipinto La tarte aux cerises di Pierre Bonnard. Ma non mancano le note psicologiche affidate agli aggettivi «seria» e «sola», né lo sguardo del cinephile, quale fu Bertolucci, nel ritrarre il primo piano della mano e della chioma, che ricorda la bruna chioma della «brune enchanteresse» («bruna incantatrice»), cantata da Baudelaire in À une dame créole (A una signora creola). Si noti la varietà metrica culminante nel v. 4 di 14 sillabe, che mette in risalto la protagonista di questa piccola composizione amorosa esemplare. Il componimento, rimasto a lungo inedito, fu pubblicato nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

NELL’ORE

Nell’ore

dell’amore,

un selvaggio

tenero maggio.

5 Udimmo l’usignuolo

cantare solo,

sul fieno

sotto il cielo sereno.

V’era buio ormai

10 ancora ti abbracciai.

Il metro presenta rime baciate e versi liberi di varia misura, ternari, quaternari, quinari e settenari. Racconta un incontro d’amore felice con una semplicità e vivezza tali da restituire impressioni acustiche e visive e da disegnare il cammino delle ore, dalla luce al «buio», e la continuità del desiderio amoroso. I versi erano stati accompagnati da alcune note di diario: «18 novembre 1934 – Oggi io e Ninetta, dopo aver bighellonato per il Lungoparma nel sole del pomeriggio invernale, siamo giunti, camminando lentamente, all’Osteria del Ponte Dattaro. Abbiamo mangiato pane e salame, e bevuta dell’Albana di Bertinoro. Sul tavolo coperto da un panno verde e nero erano stese, su un pulito tagliere, tagliatelle sottili e gialle. I soffitti erano bassi e affumicati e v’erano attaccati uncini per appendervi i prosciutti. // La Ninetta, quando mangia di buon appetito, alza le braccia festosamente come una bambina. Antognano, dove ho vissuto i più cari anni della fanciullezza, è a soli tre chilometri; ma è tardi, e ci andremo in carrozza. Ninetta e io ci sposeremo». I versi portano la data 12 maggio 1935 e, rimasti a lungo inediti, furono pubblicati in PALLI BARONI 2004 unitamente a Pagina di diario e in FC, dove il titolo è mutato in Frammenti di diario.

DELLA MIA DONNA…

Della mia donna il dolce seno

è un boccio di rosa nel mattino

piccolo, ma pieno

di un’ebbrezza più forte del vino.

Un iperbato pone in primo piano il forte legame amoroso, mentre il turbamento («ebbrezza») del poeta è stemperato dalla grazia petrarchesca del «dolce seno» e dalla metafora della rosa non ancora sbocciata. La odicina, contesta di enjambement che dà al v. 3 un rilievo fisico particolare, appartiene al tempo del fidanzamento e alla figura adolescenziale di Ninetta, assai cara all’amante. Si legge nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

QUANDO L’ESTATE FINISCE…

Oh, il colore

rosso della tua camicetta

questa prima sera di pioggia

nell’ora dolce che aspetta

5 che si accendano le lampade

cara pioggia di fine estate

sulla soglia della tua casa,

care braccia a me allacciate,

quieti discorsi e rumori di pioggia

sin che arriva l’ora di notte.

Il titolo introduce il motivo del tempo di un’estate sul tramonto, che la reticenza trasforma in spazio allusivo ai sentimenti. La pioggia, che Attilio sceglie come metronomo per un idillio sul far della sera, diviene intima stanza nella quale può svolgersi un rito d’amore quotidiano. I versi, pacati e dolci, si accendono soltanto per la pennellata di colore al v. 2 e sono costruiti intorno alla ripetizione in anafora di «cara / care» e di «pioggia» in epifora, coniugandosi così nel moto affettuoso dell’animo l’amata e il tempo meteorologico. Più volte nelle lettere la «camicetta» è indumento che adorna la grazia di lei e che rientra nei desideri del fidanzato; si veda per esempio la lettera del 20 maggio 1935. Il componimento fu pubblicato nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

A UNA SVOLTA

A una svolta

invita al riposo

un muretto

un ciglio erboso.

5 Il sole che tramonta

ferisce la tua faccia

scalda le tue

nude braccia.

Questa d’un giorno, estivo,

10 lungo, la fine,

e quanto amo

fin che vivo.

Ancora un particolare del corpo, le «nude braccia», bagnate dal sole del tramonto, ferma Ninetta in un quadro di levità campestre e di desiderio, espresso dall’invito in incipit. La «svolta», che lascia entrare nei versi qualcosa di inatteso, è motivo epifanico della poesia di Bertolucci. Nella poesia onirica Il viaggio (LC) la «svolta» è desiderata come approdo alla casa: «Torni allora senza fine la svolta» (v. 5). Si noti come la doppia aggettivazione in asindeto e con enjambement «estivo, / lungo» prolunghi il ritmo dei versi, crei durata temporale e musicale. La lirica fu pubblicata nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

QUANDO TU SEI LONTANA…

Quando tu sei lontana

svegliandomi

cerco il tuo delicato

gonfio petto

5 triste e goloso come un bambino svezzato.

Quando tu sei lontana

e viene la sera invernale

adorna di giacinti,

e tu torni a casa sola

10 portando sul collo di pelliccia

l’odore del freddo,

e ti scaldi le mani alla fiamma

aspettando un po’ ad accendere la luce,

e ci si è abituati

15 alla sommessa compagnia delle lettere…

La lirica appartiene al primo tempo della lontananza di Ninetta, studentessa a Bologna, e unisce due frammenti amorosi, dissimili: intensamente erotico il primo, nostalgico il secondo nell’evocazione e nel ritratto di lei. La «sera invernale / adorna di giacinti» è ricordo del v. 1 di Canto di Simeone (A Song for Simeon) del primo Eliot apparso in Italia, tradotto da Montale in «Solaria» del dicembre 1929 («Signore, i giacinti romani fioriscono nei vasi / e il sole d’inverno rade i colli nevicati»). Il particolare della «pelliccia» è un tocco realistico che, unito alla descrizione dei gesti della donna e ai tocchi sensoriali («l’odore del freddo»; il calore della fiamma), disegna un primo piano cinematografico assai vivo e suggestivo, in cui si uniscono, al modo del poeta inglese, la vita contemporanea e un sentimento del sacro e del mitico. Gli ultimi versi rendono perfettamente il significato delle lettere, che i fidanzati si scambiavano, e che viene ribadito più volte nella corrispondenza. La poesia fu pubblicata in «Circoli», settembre-ottobre 1934, e ripresa nella sezione Schizzi e abbozzi di O.

LA ROSA BIANCA

Coglierò per te

l’ultima rosa del giardino,

la rosa bianca che fiorisce

nelle prime nebbie.

5 Le avide api l’hanno visitata

sino a ieri,

ma è ancora così dolce

che fa tremare.

È un ritratto di te a trent’anni,

10 un po’ smemorata, come tu sarai allora.

La poesia, dal metro libero e molto musicale, apre FN, omaggio floreale a Ninetta, appena sfiorato dal pensiero del tempo e dalla nebbia che, facendosi segnale di oblio e di schermo, offusca lievemente la rosa e la donna, ma ne accresce il candore, la dolcezza e l’incanto. Sul filo della tenerezza e della commozione, entra magicamente nei versi, come in Proust, il «tono» bertolucciano, che coniugando bellezza e verità s’ispira, nell’immagine dell’«ultima» rosa, ai «fiori tardivi per le api» dell’ode To Autumn di Keats. Nel biglietto del 19 febbraio 1934 a Ninetta, il poeta dice di aver pensato di intitolare la sua seconda raccolta La rosa bianca. Avendo rinunciato al titolo, pose la lirica in apertura di FN. Bernardo Bertolucci definì la «rosa bianca» del padre «nevrotica», ricordando anche come fosse naturale uscire nel giardino di Baccanelli e assistere alla nascita dal «vero» dei versi del padre. Sulla «smemoratezza» intervenne Giuseppe, considerandola «quasi un tratto distintivo della bellezza e della purezza, una stimmata dell’assoluto, di una sorta di divina superiorità, riservata ai ragazzi e all’oggetto d’amore» (ALBANO 2008, p. 3). Il componimento fu pubblicato in FN e in tutte le raccolte successive.

IFIGENIA

Ali di colombi strepitano

nel sereno meriggio;

fra i biancospini polverosi

qualche pianta da frutto

5 timorosa nasconde tra le foglie

le promesse che autunno coglierà.

Sul carro che monotono la porta

in questa strana placida terra

Ifigenia pensa allo sposo e a sé…

10 Già s’è alzata la luna, una chiara luna

che sembra d’acqua nel grande splendore

del cielo, ed appena si vede.

La fanciulla Ifigenia

volge intorno i piccoli occhi puri,

15 le palpebre le scottano, le sue mani

brune si posano lievi sui capelli.

Le pare d’essere nuova,

senza ricordi, che tutto cominci ora.

A una svolta si riempie le palme

20 di tenere e lunghe foglie di gaggìa.

La rivisitazione lirica del mito di Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitennestra, sacrificata per propiziare la partenza delle navi dall’Aulide alla volta di Troia, ma, secondo un’altra versione del mito, salvata dalla dea Artemide, è ambientata nel paesaggio agreste, in cui «i biancospini polverosi» sono reminiscenza proustiana, accanto a suggestioni sulle «promesse» dei frutti autunnali da To Autumn (All’autunno) di Keats ai vv. 4-6. Anche la scelta di dedicarsi poeticamente a un mito (ma si ricordi, con l’abbozzo intitolato Laudamia, anche la lirica Endimione, ora in FC) fu probabilmente influenzata dalla lettura dei poemi Endymion e Hyperion del poeta inglese. Ifigenia è dedicata a Ninetta, come leggiamo nella lettera del 7 gennaio 1934: «Lo sai che i tuoi occhi, i tuoi piccoli occhi neri li ho messi a Ifigenia, in una mia poesia? Lo permetti? Cara cara, vorrei baciare le tue mani così tenere, così innamorate». Non mancano neppure echi dannunziani (la «vergine intatta» che va «pel florido prato / verso il bosco sacro di Artemide», nel Libro primo, VI di Maia) e leopardiani (l’evocazione del cielo notturno) a creare un intreccio raffinato, ma declinato in direzione della rivelazione epifanica, che annulla il passato e dona la gioia espressa nel gesto finale. Zavattini la definì «incantatissima» (7 agosto 1932, BERTOLUCCI-ZAVATTINI 2004, p. 30). Le gaggie, o acacie, sono presenze importanti, vere e proprie madeleine di Bertolucci, evocate e celebrate nei versi di Ricordo di fanciullezza («Le gaggìe della mia fanciullezza / dalle fresche foglie che suonano in bocca…») e in Poi nella serena luce («Oh, le gaggìe dalle foglie strette e lunghe / di cui si riempiono le mani», vv. 10-11). La poesia fu pubblicata in FN, nelle tre edizioni di CI, in P e O.

A NINETTA

Con le guance di fuoco

e gli occhi ridenti

camminavi per una selva.

Il sole scherzava

5 con l’acqua

che fuggiva via.

C’erano il ginepro aromatico

e le grandi felci fiere

e i misteriosi licheni…

10 Sorse la luna chiara

fra i rami.

È un vivo ritratto poetico di Ninetta in un paesaggio silvestre impresso dalla felicità della fanciulla. I suoi «occhi ridenti» e il rossore delle sue guance (il richiamo è qui a Les joues en feu di Radiguet), che la caratterizzano frequentemente nelle pennellate amorose delle lettere, animano il quadro. L’ambientazione coinvolge, nella scelta botanica vicina alla natura dipinta dal «Doganiere» Henri Rousseau, i diversi sensi e si apre al mistero. Non manca il pensiero assai lieve della fuga del tempo, per l’acqua che scorre, ma prevale, nella raffigurazione dell’ora, la luce vivida del sole nei versi centrali e della luna «chiara» nell’explicit, immagine leopardiana perfettamente compiuta. Il componimento è stato pubblicato in FN; CI¹; CI²; CI³; P e O.

AMORE

La luna coronata di margherite

ride nei vaghi occhi infermi,

caprioli d’argento

scherzano nelle radure del cielo.

5 I fiori si macchiano di sangue…

Oh, lontana, lontana, in questa notte,

come una nave con le sue vele

nel mare scuro…

Ma presto verrà il tempo

10 arido e melodioso dei papaveri,

e tu sarai tornata

già donna.

La lirica intreccia fiabesca grazia descrittiva, giocata, al modo di Govoni, sull’analogia, e segreta allusività, affidata alla reticenza, che rimanda al Pascoli di Gelsomino notturno e, per la similitudine della «nave con le sue vele / nel mare scuro», al Carducci traduttore di Heine («Passa la nave mia con vele nere, / con vele nere pel selvaggio mare», Rime nuove, III), intensificandosi l’immagine grazie all’esclamazione e al raddoppiamento «lontana, lontana». Il verso «I fiori si macchiano di sangue» fa pensare alle «blessures vermeilles», alle «ferite vermiglie», da Les petites vieilles, III (Le vecchine, III) di Baudelaire: «à l’heure où le soleil tombant / Ensanglante le ciel de blessures vermeilles», che Bertolucci traduce: «all’ora che il sole, cadendo, insanguina il cielo di ferite vermiglie». Affiora inoltre, nell’ossimoro «arido e melodioso», un’eco leopardiana, forse attraverso Montale («Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida», vv. 1-2). Ai papaveri, macchie di colore fiammeggianti nei campi che circondavano la casa di Baccanelli, Attilio intitola la lirica I papaveri (VI), che l’amico Carlo Mattioli dipinse più volte negli anni Settanta. La poesia fu pubblicata in FN e conservata nelle successive raccolte.

SABBIA

Nei mattini silenti

fitti d’oleandri ai cancelli

le pigre ore

facevano della mano

5 una viva clessidra

che il lume del giorno rosava.

Improvvisamente

mi ricordai di te

come se fossi morta.

10 La sabbia mi scendeva sulla bocca

sugli occhi.

Non si udiva più nulla.

Sabbia e sabbia che il vento muove…

La lirica, onirica ed epifanica (si noti «improvvisamente» in posizione forte, come segnale dell’evocazione), è ambientata in Versilia, con delicato gusto cromatico, non immemore, in «rosava», del «touch the stubble-plains with rosy hue», del «colorano di rosa le stoppie», dipinto da Keats in To Autumn. Ma Attilio non dimentica il verso baudelairiano «L’aurore grelottante en robe rose et verte» («In veste rosa e verde l’aurora, tremando») di Le crépuscule du matin, molto amato e «rubato» nel cap. XXI, Il ritorno, vv. 189-90 di CL: «Maria a salutare l’alba d’estate in veste rosa e verde, / rabbrividendo». Certamente Bertolucci ricordava La sabbia del tempo nei Madrigali d’estate del D’Annunzio di Alcyone: per l’ambientazione marina (la «sabbia lieve / per entro il cavo della mano»); per il soprassalto del cuore al pensiero del passare del tempo; per la mano fattasi «del Tempo urna». Ma la «clessidra» e la morte del poeta rimandano ancora a Keats, al sonetto After dark vapours have oppressed our plains (Dopo che oscure nubi oppressero le nostre pianure), dove, accanto a un inverno, che fa pensare alla primavera e all’autunno, appaiono «The gradual sand that through an hour-glass runs» («La sabbia di clessidra che scorre a poco a poco», v. 13) e «a Poet’s death» («la morte del Poeta», v. 14). L’endecasillabo finale, grazie al raddoppiamento, chiude drammaticamente e fisicamente il tema funebre, anticipato dal silenzio espresso nel settenario. Il componimento fu pubblicato in FN; CI¹; CI²; CI³; P e in O.

CONTRASTO

Innamorato

Sereno alcool

mite latte di folle pecora

andiamo dunque lontano

dalla fanciulla dolce e pericolosa.

Alcool

5 Avrai il fuoco azzurro negli occhi

e nel petto.

Innamorato

Sapore di lei ho ancora

sulle mie labbra.

Alcool

Morderò dalle tue labbra

10 il miele e il latte.

Innamorato

Il vento suona e danza il fuoco.

Il titolo e la struttura dialogica fanno di questa lirica un esercizio poetico di argomento amoroso scherzoso e sensuale. Frequente nella letteratura latina medievale, dove i disputanti, anche su temi morali, potevano essere personificazioni di concetti astratti o figure allegoriche, il contrasto d’amore fiorì nelle letterature romanze e nella poesia popolare. Bertolucci ne recupera la forma, accostando al personaggio dell’innamorato la personificazione della bevanda inebriante. Questo gli permette di insistere sul tema del bacio, di riecheggiare il Cantico dei cantici (si ricordino i versi: «mangio il mio favo e il mio miele / bevo il mio vino e il mio latte») e di creare sapientemente ora un ossimoro («fanciulla dolce e pericolosa», v. 4) ora un chiasmo di gusto pascoliano («Il vento suona e danza il fuoco», v. 11, può infatti rimandare a «Il vento soffia e nevica la frasca» di Lavandare, Myricae). Ritroveremo questo verso vibrante in Chroniques maritales IV. Il componimento fu pubblicato in FN; CI³; P e O.

ROMANZA

Se tu fossi morta

potrei ricordare quel giorno d’estate

che mi corresti incontro

ridendo, fra gli oleandri:

5 le mie labbra tremavano e non osavo guardarti.

Se tu fossi morta

potrei ricordare

i tuoi occhi ch’erano schiariti,

tutte le tue parole, e i luoghi, e il tempo estivo

10 sino al dolce morire del giorno.

La lirica, dal pathos rattenuto, appartiene, come Sabbia, alle poesie ispirate dalle estati di vacanza in Versilia. La fantasia funebre viene qui declinata in chiave epifanica di rinascita attraverso la memoria e restituisce, nella cornice del paesaggio, in cui il poeta accompagna cinematograficamente il primo piano della fidanzata, la verità e la ricchezza dell’amore. Si noti la ripetizione «Se tu fossi morta / potrei ricordare» ai vv. 1-2 e 6-7 e, nel metro, la misura dilatata dei vv. 5 e 9, che comunica l’intensità del sentimento e il desiderio di conservare tutte le grazie di lei e le gioie della loro storia estiva. Il componimento fu pubblicato in FN; CI¹; CI²; CI³; P e O.

PAGINA DI DIARIO

A Bologna, alla Fontanina,

un cameriere furbo e liso

senza parlare, con un sorriso

aprì per noi una porticina.

5 La stanza vuota e assolata dava

su un canale

per cui silenziosa, uguale,

una flotta d’anatre navigava.

Un vino d’oro splendeva nei bicchieri

10 che ci inebbriò;

l’amore, nei tuoi occhi neri,

fuoco in una radura, s’incendiò.

La poesia nacque durante una passeggiata fuori Porta d’Azeglio, a Bologna, di Ninetta e Attilio e dopo una sosta amorosa in un albergo, La Fontanina, che è rievocato nella lettera del 22 febbraio 1934: «Oggi si prepara una bella giornata, come ieri, e fuori porta d’Azeglio quei bambini giocheranno ancora sul prato in declivio, e le anatre del ristorante Fontanina navigheranno ancora calme, ma noi non ci saremo. Pazienza, ci ricorderemo, che è pure una cosa assai dolce». Il tono e il ritmo delle quartine sono lievi e sorridenti, sottolineati dalla rima incrociata abba, e dall’ambiguità allusiva del diminutivo «porticina». Il brindisi finale crea l’analogia, cromaticamente molto intensa, tra l’«oro» del vino e il «fuoco» d’amore negli occhi «neri» della fanciulla. Tra le fonti si ricordano Toulet («Vous souvient-il de l’auberge / Et combien j’y fus galant?»); Proust che cita Chanson di Alfred de Musset («À Saint-Blaise, à la Zuecca»), mentre si segnala da parte di Lonardi (Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Zanichelli, Bologna 1980, pp. 188-89) una possibile influenza di questo incipit sul VI Mottetto di Montale, vv. 8-10: «(a Modena, tra i portici, / un servo gallonato trascinava / due sciacalli al guinzaglio)». Memoria di questa avventura sentimentale ritorna a distanza di anni nel capitolo, ora in FC, Viaggio a Bologna, del quale il poeta pubblicò l’ultima sequenza col titolo Nota tarda e forse inutile a «Pagina di diario» (1934) in LUC, qui proposta. Il componimento fu pubblicato in FN; CI¹; CI²; CI³; P e O.

DIARIO

I

Al soffio del tramonto

indora il cielo estivo

calda l’aria si posa

sulle tue mani.

5 Riluce il fieno sparso

sin presso le rose

lieto già del serale

effondersi dei grilli.

Tornata di lontano,

10 sotto il panama bianco

celi l’animazione

e la stanchezza degli occhi.

II

Finché veniva la luna

con la sua lucerna

15 ad ammonirci di tornare,

bruna ormai l’aria.

Diario appartiene al tempo delle vacanze di Ninetta, che viene raffigurata al modo impressionistico in un paesaggio agreste (si notino il «fieno» falciato e «sparso» e le «rose» che adornano il giardino, delimitando i campi e indicando il passaggio dalla primavera all’estate) in due momenti, l’uno sul tramonto ancora dorato e tiepido, l’altro dopo l’imbrunire. Della fanciulla il poeta contempla le mani: motivo, questo, forse ripreso dal D’Annunzio di Mani (Poema paradisiaco) e dal Govoni di Mani, e assai presente nelle lettere, a partire da quella del 26 agosto 1933: «e poi cosa c’era di più bello che il palmo della tua mano?». Anche il «panama» è un particolare che distingue il suo volto «bruno sotto la tesa del panama / […] caro e animato» (A Ninetta, vv. 13-15, FC) e l’eleganza della fanciulla: «era tanto simpatica la piccolina ieri a Bologna col suo panama» (22 maggio 1935); «[…] la ragazza è vestita di verde, ha un panama» (14 giugno 1935). Il taglio del fieno è motivo realistico e poetico rivendicato da Bertolucci in una lettera a Sereni dell’aprile 1960 a proposito di un saggio di Fortini sul n. 2 del «Menabò»: «Non dico che le mie cose debbano piacergli […], ma in quel numero c’era Roversi (“La raccolta del fieno” è un mio verso che R. pubblicò su Officina e mi pagò con del lambrusco)». Si vedano A Ninetta del giugno 1935, vv. 1-2: «Giorno d’estate, al tuo declinare / riluce il fieno disteso nei campi» e Commedia della sera (FN), vv. 1-2: «Passano carri di fieno / davanti a ville addormentate». Le quartine della canzonetta hanno ritmo cantabile per il metro, in cui prevalgono settenari e quinari. La lirica fu pubblicata in «Aurea Parma», XIX, 1, 1935; ripresa in «Letteratura», III, 10, 2 aprile 1939; nel 1951 in LC (CI¹) e in tutte le successive raccolte. In «Aurea Parma», sotto il primo titolo utilizzato dal poeta, Epigrammi, si leggevano questi versi, indicati con I, rimasti inediti e pubblicati con varianti in FC: «Sole d’inverno / e giovane donna allato / per il lungoparma affollato / oh dolce inverno».

LE VIOLE

Nascono le viole

ai piedi delle gaggìe nude,

nel vento e nel sole

vai per un fosso, a gambe nude.

5 Improvvisamente ti chini,

stendi la mano bruna

fra erbe e secchi spini,

ne hai colto ancora una.

In sogno, nel vento e nel sole

10 il pomeriggio passavi

a cogliere fresche viole,

con un filo bianco le legavi.

La lirica è assai suggestiva per il passaggio dalla rappresentazione mobile e viva della donna nel paesaggio campestre a quella del sogno nell’ultima quartina, in cui si ripete, appena variato, il v. 3, che l’anima e l’illumina. Lo sguardo del poeta è pittorico, per le pennellate coloristiche, e cinematografico nel primo piano in movimento della fanciulla. La flora, dalle viole alle gaggie, «nude» di foglie per la stagione primaverile incipiente, è quella cara a Bertolucci, una flora domestica, mitizzata, come si è detto, in Ricordo di fanciullezza. Le viole ha ritmo di canzonetta con rima alternata e fu pubblicata in «Crisopoli», III, marzo-aprile 1935; in «Termini», I, ottobre 1936; in CI¹ e nelle raccolte successive.

LA FIDANZATA

La pioggia batteva sui vetri

veniva la sera

tu eri la mia fidanzata

e io ti tenevo stretta

5 seduto vicino al fuoco.

La fiamma pian piano

ci addormentava,

accendeva il tuo viso bruno

che diveniva debole brace.

10 Fuori v’erano alberi fermi e soavi

nella luce del cielo che schiariva.

Uscimmo e camminammo in silenzio

fra siepi lucide e gocciolanti

alla cui ombra stavano

15 garofani di campo bianchi e rosa

bagnati dalla pioggia recente.

La lirica si muove tra memoria e rêverie di un incontro amoroso in una giornata di pioggia. L’interno, in cui sono gli amanti, è protettivo per il calore del fuoco, presenza assai frequente nella poesia di Bertolucci proprio nei ritratti di Ninetta, dai fuochi di occhi neri, che incendiano il cuore (Pagina di diario, vv. 11-12), alle «guance di fuoco» (A Ninetta, v. 1). L’esterno, su cui si espandono la quiete e la dolcezza del sentimento («alberi fermi e soavi», v. 10) può richiamare il D’Annunzio della Pioggia nel pineto, ma declinato in chiave coloristica e domestica (il battito della pioggia sui vetri; le «siepi» e i «garofani di campo»). Il metro è libero con rime imperfette; la musica del verso accompagna il ritmo lento della pioggia e dell’intimità. Si noti la trasposizione della «brace» dal fuoco al volto di lei. La poesia fu pubblicata col titolo Fine dell’estate in «Circoli», IV, 5, settembre-ottobre 1934; col titolo La fidanzata in «Crisopoli», III, marzo-aprile 1935, titolo conservato in CI¹ e in tutte le raccolte successive.

A NINETTA

Giorno d’estate al tuo declinare

riluce il fieno disteso nei campi

già lieti per la musica dei grilli,

stan le rose sbocciate dolci e ferme

5 nella luce che lentamente muore,

e s’ode l’usignuolo cantare,

mesto le sere che tu sei lontana.

Ma forse lo fa mesto il mio sentirti

lontana e forse egli è felice

10 come quando mi sveglia, così presto,

le mattine di sabato, glorioso,

al tuo ritorno da Bologna.

Allora il sole fa risplendere il tuo volto

bruno sotto la tesa del panama,

15 caro e animato per ciò che mi racconti;

e l’usignuolo tace (o non l’udiamo?).

La poesia porta la data «giugno 1935» ed è ispirata al soggiorno bolognese di Ninetta e al suo ritorno a casa il sabato, del quale si parla in diverse lettere. Si apre con un doppio «tu»: al giorno d’estate, raffigurato nel momento del crepuscolo in un luminoso e musicale quadro agreste, e alla fidanzata, la cui lontananza rattrista. Il canto dell’usignolo, che porta con sé l’eco dell’Ode to a Nightingale (Ode a un usignolo) di Keats, è il perno sentimentale della nostalgia e della felicità ritrovata. Ma sia il v. 1 sia il v. 5 insistono sul pensiero, che è anche segreto rimpianto, del giorno che muore. Nel ritratto di lei si coniugano realismo descrittivo («il tuo volto / bruno sotto la tesa del panama», vv. 13-14), che si coglie anche nel riferimento al ritorno di lei a Parma il sabato, e amorosa emozione lirica. Si notino le ripetizioni «lontana… lontana» e «mesto… mesto», che creano un’inarcatura a chiasmo nei vv. 7-9. Il componimento, rimasto a lungo inedito, è stato pubblicato in PALLI BARONI 2004 e successivamente nella sezione Féerie di FC.

D’AMORE

I

Oh, nessun giorno senza il doloroso

privilegio d’un fuggitivo incontro.

Al tuo occhio smarrito d’ogni parte

la città si moveva, delirando

5 le vie note, i marciapiedi cari

al tuo piede fanciullo ora dorati

dall’amore, l’estate era nell’aria.

Il tempo era venuto del distacco

senza che mai la selvatica donna

10 quetato avesse il suo timido sguardo.

II

Quanti giorni ormai senza il doloroso

momento che la città t’esprimeva

ventilata dal suo materno grembo,

la strada popolosa di sete

15 e tele estive che l’azzurro

commoveva di riflessi e di lampi…

La poesia, in forma di diario lirico, rievoca il tempo di un amore ancora inquieto e contrastato dal riserbo di lei, definita al modo stilnovistico come «selvatica donna». Anche il «fuggitivo incontro» in città conserva nell’ossimoro «doloroso / privilegio» il sentimento di una distanza, ribadita in epifora nel «doloroso / momento» dei vv. 11-12 della seconda parte, nella quale il rimpianto dell’amata si apre a una città pittoricamente viva e vibrante di luce e di colori, con una pennellata sentimentale nell’explicit, che riecheggia il Pascoli della Mia sera. Il «delirando» del v. 4 è da intendersi «mentre deliravano», mentre si agitavano, quasi partecipando al sentire di lui, le vie cittadine. L’aggettivazione è leopardiana e si osservi come, oltre al forte «delirando» delle «vie note», l’amore trasformi i «marciapiedi cari» al bambino, che li percorreva, in «dorati» perché illuminati da lei. Nel cap. XXXII (Un incontro imprevisto) di CL, vv. 91-105, il poeta evocherà questi incontri cittadini fuggevoli, con lo stesso sguardo contemplativo e il motivo salvifico (il «saluto» della donna beatrice) dei poeti dello Stilnovo, qui sottolineato: «Non so se la incontrerò […], non so, / ansioso / e geloso della sua libertà mentre giungo / nel punto che la via s’infittisce di negozi e di gente, là / dove mi accadeva di vederla prima / che fosse mia / e il suo saluto era la meraviglia / da trattenere amaramente sino al prossimo / casuale incontro, anche per mesi / e stagioni intere…». Il componimento fu pubblicato in CI¹; CI²; CI³; P e O.

IL ROSA, IL GIALLO E IL PALLIDO VIOLA…

Il rosa, il giallo e il pallido viola

di questi fiori autunnali al fuoco

calmo dei giorni il celeste

mese consuma, i tuoi occhi piangenti.

5 E l’ora mattutina non li asciuga

con la brezza improvvisa che le foglie

deboli muove, il tuo pianto

non si placa, è la brezza che tace.

Un forte iperbato nella prima quartina porta in primo piano i colori dei fiori, ancora vivi nel «celeste» del cielo sul far dell’autunno e accesi emotivamente nell’incanto della «luce vera», la stessa che si ritrova nel cromatismo degli Imbianchini sono pittori, v. 12 («il verde il rosso e il rosa») e in Per A.A. Soldati pittore in Parma, v. 6: «il rosso il giallo il verde il blu». La stagione è dipinta con un’immagine in ossimoro di grande suggestione (il «fuoco / calmo») nel dire l’intensità, che ancora non turba, del tempo che passa e nell’accostare alla rugiada le lacrime dell’amata. Nella lettera dell’11 maggio 1934 vi è un ricordo del pianto di Ninetta, che potrebbe aver ispirato questa lirica: «[…] avevo proprio voglia di piangere. È una sensazione che si avverte allo stomaco e agli occhi, e che mi prende un po’ anche adesso che ti scrivo. Qualcosa come quel giorno che ti sei messa a piangere fra le mie braccia. A ripensarci eri molto simpatica, ed è stata una cosa che ci ha uniti ancora più di quel che non fossimo: era la Ninetta bambina che piangeva, come quando aveva paura, poi era la Ninetta che diventa donna». La poesia si costruisce ritmicamente nei due tempi delle quartine su una serie di enjambement, mentre la cadenza ternaria del v. 1 sembra echeggiare, con Lagazzi, un incipit di Mallarmé («Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui»), molto rammemorato da Bertolucci. Il componimento fu pubblicato in CI¹ e nelle raccolte successive.

IDILLI DOMESTICI

I

Questo è il dolce inverno di qui

che porta fumo tra le gaggìe, vecchi vagabondi

giù dall’Appennino per la strada che va in città,

un così allegro silenzio intorno.

5 Sole o nebbia, non importa, la dolce sera

vede fanciulli in mesti giochi gridare

sul cielo occidentale, sia cenere o oro,

tardi, tardi, sino alle luci che si accendono.

II

Così intimamente la giornata comincia

10 nel grigio autunno, così lenta passa

la mattina di là dai vetri tersi

ove la luce tarda s’assopisce.

È questo argenteo silenzio il declinare

dell’anno, la nostra vita

15 variano appena le dolorose feste del cuore,

le memorie che migrano come nuvole.

Il titolo fa pensare agli Idilli di Giacomo Leopardi risolti poeticamente in chiave familiare, perché appunto «domestici». Ci guida così al “tono” Bertolucci, al suo privilegiare e investire di sentimento l’aria e il colore del quotidiano sia esso il paesaggio della campagna siano le note della vita d’ogni giorno dei coniugi: «la nostra vita». Il primo idillio ci comunica la dolcezza dell’inverno, le amate gaggie, la strada percorsa da quei «vagabondi» che tornano più volte nei versi di Attilio, forse «i mendicanti di campagna che il caro / Govoni amava…» (cap. XXVI, La prova della pelliccia, CL, vv. 155-56) o quei venditori che si affacciavano alla porta della casa e dai quali si poteva comperare anche la carta da lettere per Ninetta, come comunica nel messaggio del 15 maggio 1935. Il secondo idillio si fa più struggente per il colore «grigio» dell’autunno e per il sentimento del «declinare» dei giorni e dell’esistenza, che trasforma il «così allegro silenzio» del v. 4 nell’«argenteo silenzio» del v. 13, e suscita l’ossimoro «le dolorose feste del cuore», anticipato dalla nota dominante espressa attraverso l’avverbio di modo «intimamente». Se al Sabato del villaggio di Leopardi possono essere ricondotti la «dolce sera» e le grida dei fanciulli (ma ai «fanciulli gridando / su la piazzuola in frotta, / e qua e là saltando, / fanno un lieto romore», vv. 24-27, Bertolucci sostituisce i malinconici «mesti giochi» e i gridi «sul cielo» del tramonto), nell’ultimo verso del componimento appare una reminiscenza degli «esuli pensieri, / nel vespero migrar» di San Martino di Carducci (vv. 15-16). Pubblicata con il titolo Per un inverno in «Gazzetta di Parma», 27 dicembre 1942, la poesia uscì in «Parallelo», I, 2, 1943, come terzo (poi I) e secondo (poi II) di Tre idilli domestici (il primo fu A che solenni e dolci parvenze, poi I giorni, pubblicato isolatamente); in CI¹ e in tutte le raccolte successive col titolo odierno.

I GIORNI

A che solenni e dolci

parvenze ora s’affida

la tua, la nostra vita

che il sole alto degli anni

5 con pio raggio rischiara.

Giovinezza è ormai questa

così ardente pazienza

dei giorni che si seguono

sotto un cielo lontano

10 scolorito dal tempo.

Un’eco da Une saison en enfer di Rimbaud, letto precocemente per essere «assolutamente moderni» («Et à l’aurore, armés d’une ardente patience»), ispira il componimento in settenari, con enjambement, assonanze e allitterazioni. L’«ardente pazienza» infatti, del tempo della giovinezza, attenua e contrasta il doloroso transito dei giorni, sottolineato dalle immagini di un cielo pietoso e insieme «lontano» molto baudelairiano. Ma il «pio raggio» porta con sé memoria del «pio mattino» (che sarà citato in CL nel titolo del cap. XLIV, Questo così sereno così pio mattino) dell’Ode to a Nightingale di Keats. Si notino i due momenti di passaggio, il «sole alto» e il cielo «scolorito», che racchiudono lo scorrere della vita dell’amata, indissolubilmente legata a lui nel v. 3, e della loro vita insieme. L’ossimoro «ardente pazienza» tornerà, in un intenso passaggio lirico sulle difese e sul «ritmo» dell’esistenza, nel cap. XXXVIII (Metamorfosi del corpo di N.) di CL, vv. 26-28: «Erano armi della mente, semplici / frecce di canna / ricavate con ardore e pazienza». La poesia fu pubblicata in «Corriere Padano», 23 febbraio 1937; in «Parallelo», I, 2, 1943, come primo di Tre idilli domestici; poi isolatamente in CI¹ e nelle successive raccolte col titolo I giorni.

PER B…

I piccoli aeroplani di carta che tu

fai volano nel crepuscolo, si perdono

come farfalle notturne nell’aria

che s’oscura, non torneranno più.

5 Così i nostri giorni, ma un abisso

meno dolce li accoglie

di questa valle silente di foglie

morte e d’acque autunnali

dove posano le loro stanche ali

10 i tuoi fragili alianti.

Per B…, dedicata al figlio Bernardo, bambino di quattro anni, è il primo mito domestico, come ben aveva notato Vittorio Sereni, che, complimentandosi per «l’incanto raggiunto nella seconda strofe», scrisse all’amico Attilio nel Capodanno 1945: «Credo che sia tua caratteristica, tra le altre, una certa attenzione dolce e prolungata, che non si esaurisce in una violenza d’istante, per poi rivolgersi ad altri oggetti, ma insiste a compiere una breve vicenda fino a concluderla; che diventa indimenticabile non in base all’intimità degli spunti ma alla trepida coerenza dell’insieme». Lo sguardo paterno da sorridente si fa malinconico nel giro perfetto dei versi, perché sia l’ora crepuscolare sia il fluire lontano dei piccoli alianti sia il paesaggio autunnale e «silente» (si pensi all’«erbal fiume silente» dei Pastori di D’Annunzio, ma anche alle «acque autunnali» come eco delle «acque» di Autunno dello stesso poeta) suscitano il pensiero doloroso della fine e mutano la dolcezza del gioco nel profondo «abisso». Si notino gli enjambement, le rime abbracciate della seconda quartina e l’accentuato dolente «non torneranno più» del v. 4, che avvia il confronto tra l’esito inevitabile dell’esistenza e il simbolo, che si appesantisce e perde la sua leggerezza fragile: «le loro stanche ali». La poesia fu pubblicata in «Il Mondo», 1° dicembre 1945; in CI¹ e nelle successive raccolte.

AT HOME

Il sole lentamente si sposta

sulla nostra vita, sulla paziente

storia dei giorni che un mite

calore accende, d’affetti e di memorie.

5 A quest’ora meridiana

lo spaniel invecchia sul mattone

tiepido, il tuo cappello di paglia

s’allontana nell’ombra della casa.

La lirica, che per Sereni fa parte del «giro armonico» delle poesie «per Bernardino», benché dedicata a Ninetta, ha ritmo lento e «paziente», Leitmotiv di Bertolucci nel dire il corso dell’ora e della vita e rivela, con Mengaldo, «la capacità di inserire movimento nell’impressione, seriando i tocchi descrittivi in una dinamica che è potenzialmente narrativa» (Poeti italiani del Novecento, “i Meridiani”, Mondadori, Milano 1978, p. 18). Si crea una suggestiva immagine domestica, permeata dalla continuità di «affetti e di memorie». È l’«ora meridiana» di una giornata estiva, l’«ora meridiana / d’inimitabile vita» di Laus vitae di D’Annunzio (Maia, 7816), la «troppa luce» di Gloria del disteso mezzogiorno di Montale. Qui, al contrario, la luce illumina un esterno domestico, intiepidito dal «mite» calore del sole e culminante nell’allontanarsi della moglie, indicata per sineddoche dal «cappello di paglia». L’andare di lei, per la dolcezza quieta dei versi, non addolora, come non addolora il passare del tempo. Lo «spaniel» è il cane Flush, del quale si parla nelle lettere, a partire dall’8 maggio 1935, e che è «il custode di Bernardo infante», figura protettiva del bambino in CL. Al «bel cane dalle orecchie cadenti» è infatti intitolato il cap. XXXIX, Lo spaniel custode. Era stato regalato dal figlio Ugo alla madre Maria, ma, come si legge nelle lettere, era divenuto presenza importante della giovane famiglia di «A» e «N». Le quartine di versi liberi seguono variamente l’endecasillabo, che riappare solo nell’ultimo verso. La poesia fu pubblicata in «Il Mondo», 1° dicembre 1945; in tutte le edizioni di CI; in P e O.

LA NEVE

Come pesa la neve su questi rami

come pesano gli anni sulle spalle che ami.

L’inverno è la stagione più cara,

nelle sue luci mi sei venuta incontro

5 da un sonno pomeridiano, un’amara

ciocca di capelli sugli occhi.

Gli anni della giovinezza sono anni lontani.

La lirica, dalla musica lenta e triste, unisce il sentimento dell’inverno, pur caro al poeta, al pensiero della giovinezza ormai trascorsa. Bellissimo il primo piano di Ninetta, realisticamente e psicologicamente raffigurata nell’«amara / ciocca», forse segnale dell’emicrania, della quale soffrì e di cui parla nelle lettere. L’aggettivo «amara» porta con sé echi da Montale («amara l’anima», I limoni) e da Sereni («amara estate», Compleanno). Ma l’incipit esclamativo di «come» nel senso di «quanto» e il sentimento di una giovinezza trascorsa portano il segno di un verso, ricolmo di malinconia per l’infanzia perduta, di Moesta et errabunda di Baudelaire, poesia molto amata da Bertolucci: «Comme vous êtes loin, paradis parfumé» («Come mi sei lontano, paradiso profumato»). Si notino le rime, le assonanze e le ripetizioni in anafora nei vv. 1-2 e la ripresa de «gli anni» dell’ultimo verso, dal «“tempo” esattissimo» (Pampaloni), verso che chiude la poesia con un’enunciazione lirica a carattere definitivo e assoluto, molto drammatico. Il componimento fu pubblicato in «Poesia», VI, marzo 1947; in CI¹; CI²; CI³; P e O.

STAGIONE

L’ora trascorre e bagna i piedi delicati

nelle foglie che ingombrano i fuggevoli viali,

o sei tu che ritorni dal cangiante dei prati

mentre il cielo s’offusca di nuvole e di ali?

5 Il sereno è già grigio ma il calore resiste

sulla tua faccia bruna che mi si fa vicina

come un bacio inatteso, se s’alza il soffio triste

del vento, se si ode l’anitra pellegrina.

La descrizione della città autunnale e il desiderio amoroso si coniugano nell’immagine dell’amata tra sogno, visione e paesaggio naturale, di grande qualità pittorica. Ma i versi, doppi settenari, sono segnati da malinconia e lontananza, indicate dalle voci che dicono il trascorrere del tempo. Si osservi nell’incipit, con Lagazzi, la personificazione dell’«ora» e lo sfumare dell’immagine dei «piedi delicati» nella visione, che coerentemente e in modo assai evocativo riappare nella seconda quartina. La lirica fu pubblicata con il titolo L’autunno in «Poesia», VI, marzo 1947; in CI¹ e nelle raccolte successive.

FINE STAGIONE

Il mio dolore è quieto,

sta con me, non va via,

mi fa compagnia

il suo caro segreto.

5 Gli anni sono in me

illuminati e tristi,

oh, perché non venisti,

non tornasti, perché?

Questa sera l’inverno

10 è più chiaro a occidente,

forse la stagione morente

ci saluta in eterno.

Ancora una lirica sentimentale che, nell’alludere al segreto d’amore, lamenta la solitudine (solo il dolore è compagno) e la lontananza di lei. Il sospiro del v. 7 e gli interrogativi, disposti in forma di chiasmo, dei vv. 7-8 rinnovano la poesia melodrammatica del Metastasio, mentre l’ossimoro «illuminati e tristi» appartiene al tema del passare degli anni tra gioia e pena. La descrizione dell’inverno pare aprirsi, forse evocando il «sereno» leopardiano della Quiete dopo la tempesta, alla chiarità del cielo occidentale, contrastante con il funebre addio della stagione dell’explicit. Metricamente è un’odicina-canzonetta con rima incrociata. La poesia, probabilmente composta al tempo degli studi a Bologna di Ninetta, fu pubblicata in «Poesia», VI, marzo 1947; in CI¹ e nelle raccolte successive.

GLI ANNI

Le mattine dei nostri anni perduti,

i tavolini nell’ombra soleggiata dell’autunno,

i compagni che andavano e tornavano, i compagni

che non tornarono più, ho pensato ad essi lietamente.

5 Perché questo giorno di settembre splende

così incantevole nelle vetrine in ore

simili a quelle d’allora, quelle d’allora

scorrono ormai in un pacifico tempo,

la folla è uguale sui marciapiedi dorati,

10 solo il grigio e il lilla

si mutano in verde e rosso per la moda,

il passo è quello lento e gaio della provincia.

Malinconico e incantevole, come «incantevole» è il «giorno di settembre» di un autunno soleggiato, è questo ritratto di provincia a Parma. Lo apre un endecasillabo perfetto e pervaso di nostalgia nell’avviare il tema del transito, della perdita, che tuttavia non turba per la serenità che comunica il ripetersi della vita animata e colorata del passeggio cittadino. Si noti come anche il pensiero della morte non sia fonte di pena («ho pensato ad essi lietamente», v. 4) e come il tempo terreno compensi il tempo eterno, divenuto «pacifico tempo» (v. 8). Intravediamo qui il «tempo senza tempo» della memoria e delle intermittenze del cuore di Proust, che il Bertolucci lirico ha fatto proprio. Le pennellate cromatiche della terza quartina, oltre a indicare la nettezza del segno pittorico, rivelano l’attenzione per la moda e i suoi mutamenti da parte del poeta. La presenza di Ninetta, interlocutrice e compagna di questo momento privilegiato, si ravvisa nel «nostri» dell’incipit. Metricamente il verso libero si contrae e si allunga per una musica che dice la durata del sentimento, del rammemorare e dello sguardo contemplativo. Il componimento fu pubblicato in «Poesia», VI, marzo 1947; in CI¹ e nelle raccolte successive.

PER N. LONTANA

Un altro giorno, un’altra notte ancora

senza il caro conforto dei tuoi occhi

mentre l’ala del tempo più e più sfiora

i tuoi capelli lontani.

5 Estivo è ormai questo silenzio intorno

alla mia casa di campagna e il sonno

dei vivi e dei morti quando il giorno

se ne va.

La separazione da Ninetta e il passare del tempo, la cui «ala» sfiora e minaccia (molto espressivo il raddoppiamento «più e più») l’amata, permeano un momento di abbandono e di disperazione. Anche in questa lirica si manifesta il motivo della fine, del giorno e della vita, fine simboleggiata dal «silenzio» e dal «sonno / dei vivi e dei morti», che evoca, concentrando il pensiero in un’immagine ad alta tensione drammatica, The Burial of the Dead (La sepoltura dei morti) di Eliot: «Aprile è il più crudele dei mesi, genera / Lilla dalla terra addormentata, confonde / Ricordo e desiderio, risveglia / Oscure radici con la pioggia di primavera». La nota estiva non attenua la malinconia della «mia casa di campagna», che, nuda e con il solo aggettivo possessivo, fa emergere, come già in Pascoli di Myricae («l’ala del tempo» fa pensare a Temporale) un sentimento di solitudine, che, con accento funebre, trova compimento nella seconda quartina, chiusa da un trisillabo perentorio, molto dantesco. Il componimento fa parte del gruppo pubblicato in «Poesia», VI, marzo 1947; ripreso in CI¹ e nelle altre raccolte.

LA SLITTA

Per una slitta e un campanello infantile

la neve profumata sui monti

sui monti le foglie di rame, l’inverno che viene.

Il giorno è ozioso e così lungo il mattino

5 in un sole come questo che dolcemente

segna le ore sul tuo viso.

Ma le favole e i sogni della notte

dove sono, se una piccola vertigine

ti trascina per il pendìo?

10 Dove siamo noi, il nostro amore,

se la neve ti riprende in corsa, e il sole

fuggitivo, se ci guardi e non ci vedi più?

La poesia deve essere stata scritta a Casarola sul far dell’inverno, come rivelano le cime innevate e le foglie brunite dei castagni a valle. La discesa sulla slitta di Bernardo provoca il turbamento del poeta, che avverte un mutamento nel viso del bambino, quasi premessa di distacco, di fine: «Dove siamo noi, il nostro amore». Si esprimono qui un moto d’ansia e un presentimento di perdita, che sono solo di Attilio, ma ai quali, nel clima dell’«amor coniugale», associa la madre. La poesia in terzine di versi liberi presenta ripetizioni («sui monti / sui monti», vv. 2-3; «dove sono… Dove siamo», vv. 8 e 10), interrogazioni e periodi ipotetici; si costruisce sul pensiero della fuga del tempo, ancora dolce sul viso del figlio, già «fuggitivo» nel momento della breve separazione. Fu pubblicata in «Poesia», VI, marzo 1947; in CI¹ e nelle successive raccolte.

APRILE A B…

Oh, tu fra il grano in erba e la siepe

di biancospino fiorita

nell’ombrosa distanza che circonda

la tua infanzia romita,

5 questo giorno che un vento tenero annulla

un fresco sole inonda.

Ti muovi nel silenzio delicato

della natura che si fa gentile

e favoloso labirinto,

10 bambino perso in un’ora d’aprile.

Chi ti guarda non ode

le tue parole all’uomo che recide

i rami di gaggìa, ode

il pennato che stride nel vento più forte

15 e mischia quietamente vita e morte.

«B…» del titolo sta per «Baccanelli»: la casa, circondata dai campi delimitati dalla «siepe / di biancospino», in cui Bernardo trascorse l’infanzia. È il figlio il protagonista di questo quadro agreste, ingentilito e rasserenato da aggettivi («tenero» detto del vento; «fresco» del sole; «delicato»; «gentile / e favoloso»), ma sfiorato da un chiaroscuro, tra «ombrosa distanza» e luce solare, che isola il bambino («romito» vale “solitario”, come in X Agosto di Pascoli o in Funere mersit acerbo di Carducci, poesia alla quale Bertolucci si accosta anche per l’interiezione in incipit, «Oh») che si perde quasi per gioco. Non c’è dolcezza tuttavia, negli ultimi versi, non la dolcezza dell’ora primaverile, se all’orecchio dei genitori non risuona, sull’epifora «non ode… ode» dei vv. 11-13 (in rima con «recide», lemma terribile se legato alla «gaggìa» dell’infanzia del poeta, e con «morte» dell’explicit), la voce del bambino, ma lo stridio di un uccello. Al movimento strutturale e sintattico dell’invocazione si aggiunge uno sguardo figurativo di grande tenerezza, per chiudersi «quietamente» sullo strazio dell’intreccio «vita-morte». Il componimento fu pubblicato in CI¹; CI²; CI³; P e O.

UCCELLI DI PASSO

Le belle giornate se ne vanno rapide,

viene l’autunno.

Ma di questa dolcezza che riempie

l’aria del mezzogiorno ventilata

5 sull’ultimo sudore del volto,

di questo riposo dell’anno

ti ricorderai

e del suo quieto affanno?

Oh, fuggir via quando nel rosa eterno

10 della sera imminente

s’allontanano uccelli di passo

e portano sulle ali cangianti

l’estrema luce del giorno,

oh, fuggire ai paesi distanti

15 dove quiete finestre si chiudono

sui relitti del cielo.

Un verso lungo (senario + settenario) e un quinario enunciano liricamente il tema dell’autunno, che le strofe seguenti
– un’interrogativa, rivolta a Ninetta, l’altra esclamativa, ricolma d’ansia – svolgono fino al distico finale, che porta in primo piano la casa, come luogo di pace e di protezione dal transito dei giorni. Lo simboleggiano gli «uccelli di passo», mentre le giornate ancora estive e luminose lasciano vedere i drammatici «relitti del cielo». Le impressioni visive e meteorologiche culminano nel desiderio di una fuga, che la ripetizione in anafora («Oh, fuggir via… oh, fuggire», vv. 9 a 14) avvalora. Il sentimento si intensifica e si apre a una visione di città lontane, che, ispirata da L’escursione di Wordsworth («L’apparizione schiusasi all’istante / era di una città potente, selva / di edifici svanenti in lontananze / infinite e splendori senza fondo», vv. 7-10; la traduzione è di A. Bertolucci, Imitazioni, Libri Scheiwiller, Milano 1994), si ritrova anche in CI, III, vv. 240-56: «Dov’è volato l’uccello […]. Qui lasciava qualche / ora di giorno, affrettando a sé la fine / della luce, già presa la pupilla / in lontane città distese, fiumi / più ampi che da noi nell’imminente / oscurità dei ponti e delle torri». La dolcezza dell’autunno è motivo presente in Corazzini («Dolce autunno» è incipit di Rime dell’inverno), poeta molto caro a Bertolucci. Il componimento fu pubblicato in «Botteghe Oscure», I, 1948; CI¹; CI²; CI³; P e O.

VERSI SCRITTI IN AUTUNNO

Meravigliosi guitti che l’autunno

riportate con voi a questi lenti

piani fra l’Appennino e il Po distante,

famiglia, oh dolce famiglia errante

5 fra fumi e nebbie nel mattino allegro

sulla strada che porta alla città.

Altri giorni verranno e tornerà

nel turno delle stagioni un tempo

simile a quello che ci fa sentire

10 il primo freddo, il soave morire

dell’anno come un uccellino

si ripara nella siepe arruffata.

Ma l’ora che si rifrange dorata,

per un breve aprirsi del brumoso

15 mattino, e trova in una sosta quieta

del carro l’ultima e più lieta

parvenza dell’estate lontana

in un rame, uno straccio vagabondo

– brilla nel raro sole in un giocondo

20 tremito il borgo familiare, qualche

cane e ragazzo gironzola attorno

al carrozzone aperto, in pace, assorta

pende l’estrema fioritura della smorta

campanula nella ruggine del muro –

25 l’ora che già ci lascia nel tuo puro

iride in un addio a te segreto,

mentre sulla scaletta sbucci intenta

una mela più fredda nella spenta

aria del mezzogiorno nuvoloso,

30 perduta ormai tra rondini confuse?

Le strofe di sei versi liberi mostrano la stessa tendenza di Bertolucci all’endecasillabo in maggioranza canonico ma – come scrive Fabio Magro sul metro di CI, poemetto al quale Attilio lavora nello stesso tempo (ne dà notizia a Sereni il 10 ottobre 1947) – «mobile negli accenti e duttile nella misura, capace di accorciarsi fino al novenario e allungarsi fino alle tredici sillabe o al doppio settenario» (Una lettura della «Capanna indiana» di Attilio Bertolucci, in AV.VV., Sulla famiglia Bertolucci, Ensemble, Roma 2018, p. 77). Sono versi che si orientano in direzione narrativa, senza perdere quell’alta qualità descrittiva e pittorica della quale Bertolucci si rivela maestro. Né manca in questa lirica la predilezione del poeta per i motivi più suoi: il succedersi delle stagioni, che saranno Leitmotiv di CI; la dolcezza del clima autunnale; il presentimento dell’inverno e della fine dell’anno; l’«uccellino che chiamano del freddo» (CI, v. 16), segnale dei primi geli; la famiglia nomade, incontrata in Bohémiens en voyage (Zingari in viaggio) di Baudelaire e in Casa paterna di Govoni, qui rappresentata con simpatia; l’ora del giorno che tramonta e che si riflette negli occhi della moglie, colta in un atteggiamento domestico. L’aggettivazione è molto affettuosa e serena («meravigliosi»; «dolce»; «soave»; «quieta»; «più lieta»; «giocondo»), e anche le immagini paesaggistiche indulgono a un pacifico presente. Al centro, nella quarta strofe in parentesi, una prova di poesia figurativa crea il quadro del «borgo», animato e colorato, ma anche sfiorato (si noti «assorta», così umano, ma attribuito a un fiore) dal senso del tempo che scorre sull’«estrema fioritura della smorta / campanula». Il componimento fu pubblicato in «Botteghe Oscure», I, 1948; in CI¹; CI²; CI³; P e O.

DA «LAODAMIA»

 

Lascia che io riposi in margine a questa

strada, e il cotone del cielo si muova

sul mio capo con lenta pazienza.

5 La stanchezza si ferma alle ginocchia

o sale al cuore con debole impeto

e arrossa il viso lentamente fluendo.

Ma quale notturno canto rivela

ora la mia solitudine e improvviso

10 lume della remota lampada in cielo

tocca gli occhi con giallo bagliore?

Fresco alito del vento e minuto

brillare delle stelle anima l’acqua

ai miei piedi, sotto questo ponticello solingo.

«Un titolo – se non un testo – abbastanza anomalo in Lettera da casa», disse Bertolucci a proposito di questi versi, frutto di un progetto teatrale del suo allievo Ottavio Ricci e rimasto allo stato di abbozzo, al pari di un altro frammento pubblicato più tardi, ma appartenente allo stesso tempo. Il motivo ispiratore fu
– è sempre Bertolucci a dichiararlo (BERTOLUCCI-LAGAZZI 1997, p. 44) – l’amore coniugale. «Laudamia era la moglie del primo caduto […] sulla spiaggia di Troia: ed erano appena sposati. Nel dramma ci sarebbe stato un coro invidioso della loro unione, prima della morte di lui: un coro di borghesi, o diciamo di “altri”, che non sopportavano questa felicità coniugale… Mi piaceva molto questa storia.» Il mito narra che Protesilao, sposo di Laudamia, cadde primo per mano di Ettore sulla spiaggia di Troia. La moglie ottenne da Apollo che fosse riportato in vita per tre ore, passate le quali fu separato definitivamente da lei, che si uccise. Questi versi, che si aprono al modo di altre poesie con un invito che è anche preghiera, dicono la malinconia della solitudine e la dolcezza del desiderio che il tempo passi «con lenta pazienza». È «pazienza» il termine che più esprime il tempo bertolucciano, ora come «ardente pazienza» dei giorni della giovinezza, ora, come in questo passo, come bisogno di frenare il corso dell’esistenza. Un tocco leopardiano si ravvisa nel «notturno canto» e in «solingo», aggettivo che, pur unito a «ponticello», diminutivo teneramente realistico, conserva il segno letterario del modello. Il componimento fu pubblicato in «Botteghe Oscure», I, 1948; CI¹; CI²; CI³; P e in O.

QUESTA SERA IL SOLE…

Questa sera il sole tramonta nei tuoi occhi

l’inverno vi si spegne, lenta brace tranquilla.

Così la gente indugia per le strade che l’ombra

non ha toccato ancora, ma il fumo appena

5 da umili camini intimamente annuvola.

Tu lascia che ristagni sulle case ed offuschi

i lontani del cielo che scolora.

Finché un’altra pena

porti la notte, vigilia della primavera.

L’attacco meraviglioso fa pensare all’incipit di Tristesses de la lune (Tristezze della luna) dell’amato Baudelaire («Ce soir, la lune rêve») e ai «couleurs du couchant reflété par mes yeux» («colori del tramonto riflessi dai miei occhi») de La vie antérieure (La vita anteriore) del poeta dei Fiori del male. Gli occhi di Ninetta sono motivo di ammirazione nelle lettere, dove non manca un’immagine vicina alla poesia: «Pensa se fossimo insieme, in una bella casa, vicino al fuoco, che renderebbe ancor più adorabile il tuo viso, riflettendosi nei tuoi occhi» (7 gennaio 1934). In questa lirica gli occhi, che accolgono la luce che tramonta, sono veicolo alla descrizione pittorica dell’esterno («i lontani del cielo che scolora» appartiene al linguaggio dell’arte), sfiorato da luce e ombra, ma proiettato verso l’intimità degli affetti («intimamente»), gli interni della casa (gli «umili camini») e non minaccioso. Eppure i vv. 8-9, in cui «notte» e «pena» si compongono in enjambement, fanno affiorare il pensiero inquietante del buio notturno, mitigato dalla promessa della «primavera». Il componimento fu pubblicato in CI¹ e nelle successive raccolte.

SEQUENZA FAMILIARE

Non chiedere altro, la felicità è in questo

corso paziente, mentre gli anni fuggono

e i giorni così lenti scorrono,

il sole indugia su palpebre e muri,

5 tu, io, i cari figli l’accogliamo

diversa beatitudine, persone separate.

E quando il tempo

vinca l’incanto cui ridiamo trepidi

questo lungo mattino d’ozio avvolto

10 (le rondini tornate attendono a nidi

nell’ombra d’un portico, fresco approdo),

oh, che nel lume incerto dei crepuscoli

onde la stagione s’esalta consumandosi

di nuovo oggi fra noi, la bella primavera,

15 neri voli e stridi su ponente

annunzino una stessa notte di pioggia,

una stessa pace alla nostra riunione terrena.

Un imperativo negativo introduce un momento di «beatitudine» della famiglia riunita, ma in modo diverso: i quattro componenti, Attilio, Ninetta e i due bambini Bernardo e Giuseppe, accolgono il piacere del sole e dello scorrere delle ore, perché «persone separate», citazione questa da Personae separatae (in «La Ruota», gennaio 1943 e in «Finisterre», 1943) di Montale. Il tempo tuttavia, così in rilievo nel verso a gradino e già indicato al v. 2 come fuga degli anni, appena attenuata dal lento e «paziente» indugiare dell’ora, torna nell’invocazione degli ultimi versi, ricolmi di ansia crepuscolare e di desiderio di unità, ribaditi dalla ripetizione «stessa… stessa» e soprattutto da «stessa pace». Sequenza, nel titolo, risente del linguaggio cinematografico, ma la descrizione dell’ora soleggiata e mattutina, in uno spazio aperto, e del crepuscolo fa pensare al «tempo percepibile» dei giardini di Pierre Bonnard, il pittore della «stessa felicità non grossa, ma consapevole, seppur non sembri, della propria fugacità». L’immagine dei «neri voli e stridi» delle rondini suggerisce un’eco dalla Mia sera di Pascoli («Che voli di rondini intorno / che gridi nell’aria serena», vv. 25-26). La poesia fu pubblicata in CI¹ e nelle successive raccolte.

ANCORA SU QUESTA TERRA FRADICIA

Ancora su questa terra fradicia

di fine inverno dopo giorni di pioggia

verranno i passeri a beccare, color di legno

umido, di foglia

5 caduta, abbandonata.

Sarà come ora, a mezzo il giorno, un tempo

di sosta e di breve schiarita,

di pace per tutti,

anche per noi cui la luce d’argento

10 del cielo nuvoloso e quieto

non stancherà più gli occhi

oggi fissi a guardare lungamente

l’umana compagnia dei passerotti.

La «sosta» tra buio e luce, tra vita e morte, è tema che Attilio svilupperà più ampiamente in VI, ma che qui già si presenta come topos della nostalgia del presente e bisogno di refrigerio e di quiete: «pace per tutti, / anche per noi». La pace porta con sé l’eco dell’«Accordaci la pace, / […] Concedimi la pace» da Canto di Simeone (A Song for Simeon) di Eliot, che, letto nella traduzione di Montale, l’aveva molto commosso. Il tempo meteorologico è naturalmente complice di questo augurio: è tempo che disegna un paesaggio triste, intriso di pioggia, ma non privo di una pennellata di colore e di chiarore. Sono i passeri infatti, ai quali Bertolucci, evocando «l’umana compagnia» dalla Ginestra di Leopardi, assegna il compito di umili protagonisti della vita agreste, a consolare «lungamente». La stessa componente umana degli uccelli riappare in Portami con te (VI), vv. 15-20, ancora legata alla «sosta»: «ci saremo trovati / là dove vita e morte hanno una sosta, // sfavilla il mezzogiorno, lamiera / che è azzurra ormai / senza residui e sopra / calmi uccelli camminano non volano». Infine il passero diviene simbolo della propria poetica in Una lettera a Franco Giovanelli (VI), vv. 19-25: «Permettimi di scegliere il passero / che vedo saltellare sulla neve / fangosa, pago d’un sole spicciolo, / sicuro entro di sé dell’avvento / d’una stagione non prossima ma come / radiosa in questa pianura che s’alza / adagio verso le prime colline / visibili ora a sprazzi e lampi azzurri / e bianchi al di là del nero ordine / di filari invernali: un oridine, tu sai / che non è una prigione, ma un ritmo / per l’esistenza e per il verso». La poesia fu pubblicata in CI¹ e nelle successive raccolte.

DUE STAGIONI A PARMA

I

Un dolce sole si vela

come vendono violette

venute di lontano e hai chiusa

la mano sui gambi umidi e freddi.

5 O inverno dove mi porti

se il giorno cammina, se già

imbruna l’ora

nei suoi occhi?

È il tempo dell’anno che sulle case sbiadite

10 limpido il sole muore,

che il cuore dell’uomo dispera

prima della primavera.

II

Ora che il mosto dai vicoli

la luna dalla nebbia

15 ti chiedono: loda l’autunno, è qui;

ora che con faville tenere

all’imbocco del ponte dice alt

una vecchina dalla sua garitta,

la mano che si chiuse sulle viole

20 si tinge di castagne, il tempo passa

rapido nella città della tua vita,

la tua vita che passa con l’autunno.

Inverno e autunno ispirano questi due momenti lirici nella città. Sono versi ricolmi del pensiero del transito naturale, di grande malinconia e rimpianto per il trascorrere dell’esistenza. Li legano e differenziano il colore dell’ora e delle case «sbiadite», la nebbia e il profumo del mosto, la mano dell’amata che stringe le prime violette primaverili e le castagne autunnali. Di lei appaiono solo la mano e gli occhi, che riflettono l’oscurarsi del giorno e la disperazione del «cuore dell’uomo», che la guarda. Nel secondo quadro cittadino è una pennellata realistica, con termini militari («alt» e «garitta»), a dipingere il vivo braciere di una «vecchina», la venditrice di castagne; ma il pathos degli ultimi versi, accentuato dalla ripetizione «della tua vita, / la tua vita», vv. 21-22, insiste drammaticamente sul tema della perdita, chiudendosi nell’endecasillabo finale. La natura morta Mazzo di violette di Manet può aver ispirato le «violette / venute di lontano» di questa poesia, ma in una nota di diario del 18 novembre 1934 si legge: «Le viole del pensiero, viole che sono andate ad abitare in città, viole che si dipingono. Ma non impareranno mai a truccarsi bene. Intanto gli innamorati continuano a portare le viole mammole alle loro ragazze: esse le appuntano sulla camicetta, con occhi divenuti improvvisamente seri». L’immagine della «vecchina» e l’atmosfera nebbiosa rimandano a un quadro del pittore parmigiano Guido Carmignani (1838-1909), Il viale della Villetta il giorno dei Morti, del 1882, che il poeta descrive all’amico Roberto Tassi «con la vecchia delle “bruciate” in primo piano e i pioppi giovani, come quelli di adesso, e la luce che accende la prima nebbietta della sera» (A. Bertolucci - R. Tassi, Tra due città. Lettere 1951-1995, a cura di E. Donzelli, il Mulino, Bologna 2019). Il componimento fu pubblicato in CI¹ e nelle raccolte successive.

A UNO STORNO

Così dolce la sera, così calma

che il nero storno sul tetto raccoglie

l’ultima luce del giorno nel becco,

noi già presi nel buio delle foglie.

5 Oh, dove è più, dove l’ombra accesa

fra le efelidi brune sotto il bianco

cappelluccio di tela, la sospesa

siesta di questi borghi nel meriggio?

Già il giorno (e la stagione) declina

10 in un raggio perduto ormai per noi

nell’erba fredda, nella terra bassa.

Tu sul tetto trattienlo fin che puoi,

felice storno, alto sulla casa.

La rappresentazione della sera fa subito pensare, per l’aggettivazione indefinita e sentimentale, a Leopardi, così come il «Tu» rivolto allo storno nei due versi finali ricorda il «Tu, solingo augellin» del Passero solitario. Ma il tema dell’abbuiarsi della luce e del fluire delle ore e della stagione è declinato in modo originale, come si osserva anche nel ritratto, rapido e intenerito dal «cappelluccio», che adombrava d’estate il viso di Ninetta. Il ritratto è forse memore della cloche di una delle signorine Matisse in Interno a Nizza, del 1920. L’«erba fredda» serale del v. 11, che cita l’explicit «l’estate, / fredda, dei morti» di Novembre (Myricae) di Pascoli, anticipa, ma con valenza più drammatica, il notturno «L’erba che tocca fredda i nostri corpi / distesi e accovacciati dentro l’ombra» di CI, vv. 45-46. La partitura metrica in endecasillabi si avvale di rime sparse e di enjambement. La poesia fu pubblicata in «Botteghe Oscure», I, 1948; in CI¹ e nelle raccolte successive.

E VIENE UN TEMPO…

E viene un tempo che la tua persona

si fa maturando più dolce, si screzia

il tuo volto di bruna come i fiori

che ami, i garofani e i gerani

5 dell’umida primavera di qui.

Gli anni sono passati, sull’intonaco

inverdito di muffa luce e ombra

si baciano, a quest’ora che volge,

con tale disperata tenerezza

10 il tempo prolungando dell’addio.

L’incipit introduce e porta con sé il fluire del tempo fino a esprimerlo nel mutamento del volto di Ninetta, un volto che pure, dopo il passare degli anni, accoglie e rivela la bellezza, simile a quella screziata dei fiori, «i garofani e i gerani» che fanno parte della flora domestica di Bertolucci. Quanta affettuosità di sguardo e di cuore in questo ritratto, nel quale è già presente l’ossimoro del v. 9 «con tale disperata tenerezza», sentimento «struggente» (A. Bertolucci, Lezioni d’arte, introduzione di G. Palli Baroni, Rizzoli, Milano 2011, p. 191) del poeta che, contemplando, pensa e teme il futuro. È un ossimoro che coinvolge «luce e ombra» sull’intonaco della casa al tramonto, metafora del desiderio di non affrettare il passaggio, di allontanare l’«addio» del giorno e della vita, che l’«ombra» suggerisce. Si pensi a quanto Attilio scrisse sulla Merlettaia di Vermeer, pittore a lui carissimo: «[…] luce ed ombra sembrano baciarsi in un incontro struggente». Il montaggio dei versi si costruisce sull’enjambement fino all’ultimo verso, un endecasillabo che si estende musicalmente grazie al gerundio. Il componimento apparve in CI¹ e nelle raccolte successive.

A BERNARDO

Batti la terra dura dell’autunno

tornando a casa, rallenti la corsa

e pieghi dove foglie e foglie portano

dietro, a un tuo rifugio fra gli alberi.

5 È passata l’estate e passa ormai

questo tempo di quiete giornate

che segna appena il tuo piede impaziente

a un sole che si vela abbandonandoci.

Dove le viole sfiorirono a mucchi

10 selvatiche, e le lucciole seguirono

e si persero anch’esse, ora solleciti

lumi e fumi, presagio dell’inverno.

La dedica del titolo è al figlio maggiore, rappresentato in una breve sequenza mentre, correndo («Batti la terra dura») verso casa, si perde nel verde tra gli alberi. La casa torna nell’ultima quartina come approdo intimo di «lumi e fumi», metonimicamente indicativi dell’intimità domestica in cui rifugiarsi. Autunnale, inclusa nella sezione Teneri rifiuti di VSC, presenta la stessa immagine: «Se nel buio arriva / l’autunno indeciso / con lumi e fumi / gli abbaia il cane / con festa la pioggia cade». Al centro si colloca la constatazione, insistita e amara, del passare del tempo, che il «piede impaziente» del fanciullo sembra accompagnare, quasi affrettare, mentre i versi scandiscono altre perdite, l’appassire delle viole e il morire delle lucciole. Le viole e le lucciole sono presenti nella poesia del transito, topos di Bertolucci. In particolare ricordiamo la «lucciola morente» della lirica Come lucciola allor ch’estate volge (FC). Il componimento fu pubblicato in CI¹; CI²; CI³; P e O.

A GIUSEPPE, IN OTTOBRE

Per quali strade di campagna vai

nel sole troppo caldo d’ottobre,

la mano chiusa in sé, la luce

a metà del tuo viso, a metà l’ombra?

5 È il quieto pomeriggio d’un bel giorno,

il bel giorno cammina coi tuoi passi

incerti fra le foglie che di ruggine

macchiano i rustici viali dell’Emilia.

Come il passero arrossa le sue penne

10 e ci dice che è il mattino ancora

tu camminando assorto fai che venga

sera e accogli nella pupilla severa

di bambino i colori del tramonto.

Così per me s’apre e si chiude un giorno

15 d’autunno, entro vi si muove gente

di queste parti, e si ferma e discorre,

o tira via, saluta, altra porta

secchi d’acqua lontana. Presto

sarà l’inverno, lasciate che fermi

20 la stagione che indugia su una trama paziente.

Il titolo è una dedica affettuosa e augurale al figlio Giuseppe, bambino di tre anni, reso protagonista di questa lirica dalla musica lenta e fusa per il susseguirsi di enjambement, che sottolineano le iterazioni («bel giorno, / il bel giorno»), i chiasmi («la luce / a metà del tuo viso, a metà l’ombra»), la lunga similitudine dei vv. 9-20. Nel proprio bambino il poeta coglie non tanto le caratteristiche infantili di gioco e di serenità, ma la premonizione di un futuro che si riflette come passaggio e che è avvertito con pena e speranza nel lungo e lento (si noti l’accentuazione su «indugia» e «paziente») verso finale: «lasciate che fermi / la stagione che indugia su una trama paziente». A commento di questa lirica Giuseppe Bertolucci, psicoanalista, scrive: «È un bambino che coltiva una sorta di autarchia emotiva: quella “mano chiusa in sé” cosa stringe nel pugno? È un gesto di difesa? È un gesto di rabbia? Quella “luce” e quell’“ombra” che metaforicamente si contendono il suo volto e la sua anima; quei “passi incerti” di una creatura che ha appena imparato a camminare, ma che già preannunciano – ancora metaforicamente – le inevitabili incertezze dell’età matura. E poi quel suo procedere “assorto”, che miracolosamente, magicamente fa scendere la sera… Qui il poeta, forse inavvertitamente, si identifica totalmente nell’onnipotenza infantile, la fa propria e la trasforma in un enunciato oggettivo: “fai che venga sera”. E poi, in chiusura, quella “pupilla severa”, per me indimenticabile fin dalla prima volta che, a sette o otto anni, lessi la poesia e che rimarrà scolpita come un’indelebile impronta digitale nella mia fedina poetica e esistenziale» (BERTOLUCCI G. 2011, p. 15). A questo piccolo film in poesia non mancano le velature e le pennellate sulla natura e sui luoghi, che si animano di vita paesana, in un veloce quadro impressionistico e musicale, per le frequenti allitterazioni e il ritmo delle azioni. Il componimento fu pubblicato in «Botteghe Oscure», VI, 1950; in «Panorama dell’arte italiana», 100; in CI¹; CI²; CI³; P e O.

IN CASA E FUORI

I

Una mela caduta nella neve

tu che dormi

(da noi dietro casa ricordi

le piante che l’inverno

5 serbano mele fredde per i passeri?):

due cose che a toccarle

la mano poi non vuole più lasciarle.

II

A Casarola le more

non maturano mai,

10 tu ne cogli qualcuna

che il sole di settembre

ha scurito di più per ingannarti,

la tieni in bocca senza masticarla.

Cammini avanti, la tua ombra sola

15 s’allunga per i prati, il pomeriggio

è così dolce, la mora così acerba,

tutto l’oro del giorno è sopra l’erba.

Due sequenze in versi liberi, con rima baciata in clausola strofica («toccarle/lasciarle» e «acerba/l’erba)», sono legate dallo stesso sguardo del poeta, che ferma momenti stagionali e li unisce attraverso il desiderio amoroso, espresso dal gesto della «mano» nei vv. 6-7. Al centro del primo frammento vi è una parentesi che, rivolta all’amata perché ricordi il frutteto della casa abitato dai passeri, crea un secondo piano spazio-temporale. Nella II parte, che ha un incipit netto sul nome del paese montano di Casarola, paese di boschi e di rovi, l’epifania ricrea un fresco rito di Ninetta e la inquadra in un pomeriggio di dorata felicità. Anche in questa lirica, che accoglie nel fondo «l’oro spesso, caldo» del pennello di Vermeer, Attilio rende compiutamente poetico, imbevendolo di luce, un quadro di vita domestica, comunicando emozione e verità; con le sue parole per il pittore di Deft: «Verità e poesia sono la stessa cosa». In casa e fuori fu pubblicata in «Paragone», IV, 48, dicembre 1953; poi in CI² e nelle successive raccolte.

BERNARDO A CINQUE ANNI

Il dolore è nel tuo occhio timido

nella mano infantile che saluta senza grazia,

il dolore dei giorni che verranno

già pesa sulla tua ossatura fragile.

5 In un giorno d’autunno che dipana

quieto i suoi fili di nebbia nel sole

il gioco s’è fermato all’improvviso,

ti ha lasciato solo dove la strada finisce

splendida per tante foglie a terra

10 in una notte, sì che a tutti qui

è venuto un pensiero nella mente

della stagione che s’accosta rapida.

Tu hai salutato con un cenno debole

e un sorriso patito, sei rimasto

15 ombra nell’ombra un attimo, ora corri

a rifugiarti nella nostra ansia.

L’«ombra» del v. 15, che oscura il bambino divenuto a sua volta «ombra», è la clausola di una premonizione già presente nel primo piano di Bernardo, in quel «dolore» che, ripetuto in anafora, diviene segno di un’esistenza cagionevole, espressa dagli aggettivi: «timido» (v. 1); «fragile» (v. 4); «debole» (v. 13); «patito» (v. 14). Anche il gioco, forse con altri bambini, interrotto e l’essere rimasto «solo» sono inseriti in una descrizione temporale, nella quale sole e nebbia e foglie cadute, in un impasto di cielo e terra di grande perfezione, anticipano l’inverno e dicono la fuga delle ore. La «nostra ansia», che chiude questa lirica, permeata di grande dolcezza e affettuosità, dona coerenza e profondità psicologica ai versi, non attenua la trepidazione, ma offre il rifugio dell’amore parentale. Il componimento fu pubblicato in «Botteghe Oscure», XIV, settembre 1954; CI²; CI³; P e O.

LE MORE

La luce di settembre dentro gli occhi

volgendoti mi hai chiesto delle more

che l’estate piovosa non matura

sull’Appennino quest’anno del tuo primo

5 ricordare, quest’anno che declina,

ci porta via, foglie sbandate

che si cercano, che ancora si ritrovano,

come quando sul Bràtica ti chini

a una flottiglia verde e silenziosa.

Ancora dei frutti selvatici, le more acerbe d’Appennino, introducono a una dolorosa meditazione sulla vita di Attilio, Ninetta e dei loro figli: l’ingenua domanda del bambino, cui il padre si rivolge, non attenua il pensiero del tempo che passa e dello sradicamento dai luoghi amati. I Bertolucci vivono dal 1952 a Roma e, dopo un anno, hanno portato con sé i figli. Pur con qualche incertezza sull’identità, Giuseppe si è riconosciuto in questi versi come attore del quadro simbolico di una perdita, di acque correnti (il torrente Bràtica) e di fragili foglie perdute. È dunque il bambino di sei anni colui al quale padre chiede «di quell’assenza, di quella mancata maturazione. Ma il padre non sa rispondergli. Tutto in quella stagione sembra dominato dal caso, come quelle foglie trascinate dall’acqua del torrente, che rapiscono lo sguardo incantato del piccolo». Sono queste le parole di Giuseppe in Una vita in versi (BERTOLUCCI G. 2011, p. 20) che aggiunge: «Quante, quante domande rimangono senza risposta, nel dialogo ininterrotto tra un adulto e un bambino, tra un figlio e un padre… quanti vuoti non si colmano! Quante intere esistenze saranno – spesso inconsapevolmente – dedicate a tentare domande impossibili e a riempire quei vuoti incolmabili». Il v. 1 riprende, con analoga bellezza, l’immagine di Questa sera il sole tramonta nei tuoi occhi (CI), dedicata a Ninetta; eppure il «volgendoti», in enjambement, inquadra il piccolo protagonista, fermandolo nel suo stupore infantile, e fa emergere il sentimento drammatico di un’impossibile stabilità per chi, come il poeta, si è allontanato da una patria amata. La memoria involontaria è all’origine di questa poesia, che fu pubblicata in «Botteghe Oscure», XIV, 1954; in CI² e in tutte le raccolte successive.

L’AMORE CONIUGALE

Ma se la pioggia cade

la camera s’oscura…

L’amore ancora dura

che le gocce più rade

5 la finestra più chiara

i tuoi occhi più neri

e oggi come ieri

come domani. Amara

sui tetti umidi brilla

10 la giornata nel sole

che si volge sulle viole

risorte stilla a stilla.

Una segreta sensualità è affidata alla sospensione del v. 2, ma subito viene spostata in direzione della consapevolezza della continuità e della durata dell’amore: «e oggi come ieri / come domani». È questo il tema profondo cui pensa il poeta, fedele e innamorato e convinto nella forza vera dell’unione tra lui e Ninetta. Appare qui per la prima volta «la camera», luogo topico dei riti dell’amore e degli eventi importanti della vita matrimoniale, che saranno celebrati poeticamente in CL. Colpisce peraltro al v. 8 l’aggettivo «Amara», in posizione forte e in ossimoro con «brilla» del v. 9, segnale di un turbamento di fronte al giorno che avanza (si noti la ripetizione «più» dei comparativi nella successione dei mutamenti dell’ora e l’insistenza su «come») e che forse non illumina quel caro paesaggio campestre di Baccanelli, le cui «viole» rinascono alla memoria con un’intermittenza del cuore. La canzonetta in settenari e un ottonario al v. 11, con schema ritmico abba-cddc-effe, è stata pubblicata in «Botteghe Oscure», IV, 48, dicembre 1953; in CI² e nelle successive raccolte.

IN UN TEMPO INCERTO

Se un mattino d’aprile già la glicine

per i quartieri che furono agiati

chiama la pioggia,

anche per noi intimo si fa il giorno,

5 il passero alla siepe fa ritorno.

Così da uno all’altro camminando

facilmente all’ingiù, quasi un saluto,

camminando all’insù

con lento sforzo, ci si manda, ansiosi

10 che si sciolgano i cieli nuvolosi.

Ma s’arriccia sul muro il calendario

al tepore del sole, torna fuori

ogni uomo e animale:

chi spera più la pioggia, chi ricorda

15 il mattino nel mezzogiorno che assorda?

La lirica è ambientata nei quartieri di Roma che da Monteverde, dove abita il poeta con la famiglia, scendono verso il cuore della città e conserva l’eco delle passeggiate («camminando / facilmente all’ingiù, […] / camminando all’insù / con lento sforzo»), ch’egli era solito fare. Ma è il passaggio meteorologico, in un aprile fiorito di «glicine», dalla pioggia del mattino al ritorno del sole e al fervido mezzogiorno, a suggerire il pensiero malinconico del transito del tempo e del venir meno dell’intimità della casa. Il v. 4 riprende «Eppure è il tempo più dolce dell’anno / quando la siepe brulla […] / si fa intima stanza allo smarrito / passero» di CI, vv. 49-53, segnalando l’atmosfera campestre che presiede alla composizione del poemetto, e che qui torna come memoria poetica e visiva. Il componimento, che ha dato titolo all’ultima sezione aggiunta alla II edizione di CI, fu pubblicato col titolo Le ore suburbane in «Botteghe Oscure», XIV, 1954; in CI²; CI³; P e O.

LA TELEFERICA
a B, con una otto millimetri

L’estate impolvera le siepi

anche oltre i mille metri,

impolvera le more ostinate

in un’adolescenza agra.

5 Ma la tua adolescenza s’addolcisce, matura

nella pazienza artigiana e sottile

di questa ripresa dal basso

e da dietro la siepe stracciata,

così da tramare di spini foglie e bacche

10 il racconto nel suo tempo reale

scandito dai passi silenziosi

e furtivi dei bambini Giuseppe Marta

Galeazzina «fuggiti di casa»

quando tutti dormono a Casarola

15 perché è luglio e il fuoco meridiano

piega anche la gente selvatica

dell’Appennino, anche le donne

indomabili nell’avarizia e nella sporcizia,

boccheggianti su pagliericci miseri

20 in triste pace.

Soltanto voi, gentili villeggianti,

vivete quest’ora, ne rubate

l’acuta fiamma sì che i vostri occhi

rideranno nel primo piano, per sempre

25 al sole delle tre.

Affrettatevi, la teleferica è lontana

e Bernardo, che ha le gambe lunghe

dei quattordici anni, la smania dello storyteller,

insiste sul tempo reale, vuole

30 che vi perdiate fra castagni e felci

a cercare, con la luce che si fa

più e più debole – affrettatevi

la sera è paurosa sui monti –

i fili metallici che tagliano le mani

35 e portano via il legname

per il tannino, o lo portavano, la fabbrica

va in pezzi, e le funi intrecciate

ci voleva Giuseppe a scoprirle, perse

nella vertigine dei rami più alti,

40 ruggine e clorofilla, avventura e terrore

di un bambino che gioca: questo

l’antefatto del racconto, ora egli

conduce le cugine più grandi

all’altalena sospirata

45 e non la troverà più,

il suo cuore ne sentirà dolore,

quale soltanto, passati anni e anni infiniti,

l’uomo prova nel primo orgasmo dell’infarto.

L’ultima inquadratura è dall’alto

di un ramo di cerro, l’occhio della macchina

50 ricerca inquieto i tuoi occhi inquieti,

guida sconfitta,

mentre già le bambine si distraggono,

la più grande delle sorelle intreccia

un cappello di foglie sui capelli

55 della più piccola, l’operatore-poeta

se ne innamora anche lui, pensa all’effetto

che ne ricaverà quando avvizzite

le foglie finiranno sulla polvere

rosata del crepuscolo freddo

60 sulla via del ritorno, scordati

il dolore precoce, la pupilla delusa,

il tema umano della novelletta.

Lasciate che l’arte si prenda

queste rivincite improvvise ma giuste

65 sulla vita, che un ragazzo ne profitti

e abbia coscienza in quei cari anni

della vocazione e dell’apprendistato.

Lirica celebre nella storia cinematografica del figlio primogenito, rivela la tendenza narrativa del poeta Attilio, storyteller di un’avventura estiva, nei boschi di Casarola, vissuta dai tre bambini e dal quattordicenne Bernardo, munito di una 16 millimetri (nella dedica «a B» si parla di una «otto millimetri») alla ricerca di una teleferica in disarmo. Per il padre, come si legge negli ultimi versi, fu questo il primo passo del figlio nella sua «vocazione» e nel suo «apprendistato» verso la regia cinematografica, in cui riconosce la qualità poetica, il realismo narrativo («il racconto nel suo tempo reale», v. 10) e l’immaginazione creativa («l’operatore-poeta / se ne innamora anche lui, pensa all’effetto / che ne ricaverà», vv. 55-57), che coincide con la stessa poetica del padre-poeta, l’«inventare dal vero». Sapientemente scanditi sul metro libero, i versi si fanno pittorici nel descrivere il paesaggio boschivo (si noti la ripetizione «impolvera… impolvera» nella prima quartina), che si alterna a quello del paese appenninico, descritto nei suoi aspetti arcaici e contadini («la gente selvatica», v. 16; «le donne / indomabili nell’avarizia e nella sporcizia», vv. 17-18; i «pagliericci miseri», v. 19). Ma è il momento della vanità della ricerca che la cura poetica dei particolari carica l’ambiente, attraverso il primo piano dello sguardo del giovanissimo regista, di ansia e di psicologica delusione. Il componimento fu pubblicato in «Palatina», 9, gennaio-marzo 1959 senza la dedica «a B, con una otto millimetri»; in VI; P e O.

FRAMMENTO ESCLUSO DA «LA CAMERA DA LETTO»

«Sono qui tra un arrivo e una partenza»

sto scrivendo, recluso volontario

nel salottino verde,

unica stanza sgombra da valige

5 bauletti ceste borse pronte al trasferimento

in montagna, evento necessario, abitudine salùbre

impostaci dalla dolcezza della forte delicata emicranica

N., esecutrice senza incertezze d’un progetto

di restauro della casa che i maremmani edificarono

10 in anni lontanissimi e gli eredi,

calati nella pianura generosa ad offrire doni e rischi,

lasciano rovinare in lenta pace.

Bernardo, suocero mite le dà una mano

senza far vedere, ma

15 per i sentieri della lunga, vedova notte

i lumini dell’insonnia tornano quali

furono alimentati a olio di lino

nella sua infanzia selvatica e inquieta in stanze –

nuovamente fiorate da corolle purpuree sull’azzurro del muro –

20 che nel soggiorno agostano ospiteranno i nipoti,

l’impetuoso portatore del suo nome e il secondo nato,

già con lui dialogante,

il primamente pensoso Giuseppe tonduto quasi

a tradimento contro di me nella chioma castana,

25 di gambe che si allungano.

È un’ardente fervorosa mattina di luglio, i figli

della famiglia proprietaria affidati

alla malizia all’amicizia di chi,

uomini e donne in ordine sparso,

30 attende alla raccolta del secco, sonoro fieno.

Io dipingo una mia immagine riflessa

sullo specchio che fa il vetro,

mobile per un po’ di vento

della portafinestra mal chiusa sul giardino

35 che alla sfiorita esausta rosa alterna

il fiore stordente della materna

stuprata magnolia…

Il Frammento fu composto durante la stesura di CL, ma escluso, come accadde per altre sequenze o capitoli. Era probabilmente l’inizio di un capitolo dedicato alla vita della famiglia, a quei trasferimenti che da Roma avvenivano all’inizio dell’estate a Baccanelli prima, a Casarola poi. Bernardo Bertolucci ha ricordato con emozione le estati nel paese montano, in un’intervista rilasciata a Leonardo Colombati pubblicata in «Nuovi Argomenti», 1, maggio-agosto 2019, p. 101: «Si arrivava in un paese non lontano, che era sempre nella stessa valle ma dalla parte completamente opposta, che si chiamava Grammatica; arrivavamo lì con una macchina presa a nolo a Parma con bauli e portapacchi pieni perché ci stavamo tre mesi, un tempo lunghissimo. […] Alla fine venivano a prenderci con quelle che chiamavano le benne o i viò: erano delle ceste di vimini grandi tre metri di lunghezza e due di larghezza, in cui mettevan il fieno, tirati in genere da due mucche; le riempivamo delle nostre valigie e dei bauli, e si attraversavano dei boschi di castagni bellissimi…».

Nel Frammento escluso i vv. 5-12 riportano al mese di luglio probabilmente successivo al 1956, anno in cui Ninetta decise, consenziente il marito, di restaurare la casa degli avi Bertolucci (si veda oltre Restauro di un tetto). Si può anche pensare che questa sequenza appartenesse al terzo libro di CL, avviato e mai concluso, essendo la vicenda del romanzo interrotta nel 1951 con la decisione del poeta di trasferirsi a Roma (cap. XLVI, La partenza). Il primo verso in corsivo e tra virgolette era certamente l’incipit di una sequenza, verso ripreso dal v. 28 di Fogli da un diario delle vacanze (portano la data Baccanelli, 29 luglio; 30 luglio; Casarola, 5 agosto) e subito evocatore della pendolarità cui si sottoponeva la famiglia nel periodo delle lunghe vacanze. Ma a differenza della lirica, la poesia di CL si muove su di un registro narrativo-descrittivo, che abbraccia oggetti e persone, luoghi e colori, unendo il realismo di alcune situazioni – l’«emicranica» N., con ossimoro «forte delicata»; il restauro della casa montana; l’aiuto del suocero Bernardo e la sua insonnia; le stanze illuminate dai lumini «alimentati a olio di lino» e le stanze «fiorate di corolle purpuree sull’azzurro del muro»; i ragazzi vivaci e cresciuti – a un momento autobiografico. Questo sembra spostare l’accento all’evocazione di un altro «luglio» e di un altro giardino, dove il «fiore stordente della materna / stuprata magnolia» raffigura in modo enigmatico e allusivo la madre. Le magnolie «lucenti» sono presenti nei giardini di Commedia della sera (FN). Il componimento, che metricamente è in versi liberi di varia misura, fu pubblicato in «Eidos», 2, giugno 1984; in VSC; P e O.

I PAPAVERI

Questo è un anno di papaveri, la nostra

terra ne traboccava poi che vi tornai

fra maggio e giugno, e m’inebriai

d’un vino così dolce così fosco.

5 Dal gelso nuvoloso al grano all’erba

maturità era tutto, in un calore

conveniente, in un lento sopore

diffuso dentro l’universo verde.

A metà della vita ora vedevo

10 figli cresciuti allontanarsi soli

e perdersi oltre il carcere di voli

che la rondine stringe nello spento

bagliore d’una sera di tempesta,

e umanamente il dolore cedeva

15 alla luce che in casa s’accendeva

d’un’altra cena in un’aria più fresca

per grandine sfogatasi lontano.

I papaveri, che nel titolo e nella raffigurazione poetica en plein air ricordano l’olio su tela Les coquelicots di Monet, sono presenza viva del paesaggio campestre di Baccanelli, a proposito del quale Attilio scrive a Ninetta: «Non è stato bello e misterioso che un vecchio venisse a rifornirmi di carta da lettera, e che ora sia scomparso fra il prato giallo di ranuncoli e il frumento che comincia ad adornarsi di papaveri?» (15 maggio 1935), e nuovamente: «il cavallo bianco del mugnaio che passa contro il frumento che scurisce, papaveri, gli usignuoli, il fieno» (Baccanelli, 20 maggio 1935). In questa lirica tuttavia, che apre la sezione I, I pescatori, di VI, è un’intermittenza del cuore a far nascere dalla maturità esplosiva della natura (ma il v. 4 accosta nell’ebbrezza l’ossimoro «così dolce così fosco») il pensiero amaro della propria maturità d’uomo e di padre. Non c’è festa nel cuore di chi vede i figli allontanarsi, benché resti a consolare la «luce che in casa s’accendeva / d’un’altra cena». È ancora Ninetta colei che tiene viva questa casa illuminata, che nella raccolta del 1971 acquista valore di rifugio alla solitudine e approdo, luogo della continuità degli affetti. Il motivo delle rondini è pascoliano, ma l’ossimoro «il carcere di voli» (si veda anche il v. 5 delle Farfalle: «i muri di un carcere») è immagine potente per indicare il desiderio di fuga dei giovani dal recinto dell’amore protettivo paterno. Se «A metà della vita» del v. 9 è memoria dantesca, che si ripeterà nel Frate, vv. 13-14 («a metà è la mia vita a metà il giorno / a metà ormai la mia solitudine») e nel cap. XLVI, v. 37 di CL («a metà della vita e sul declinare dell’anno»), l’emistichio del v. 6 «maturità era tutto» è traduzione da King Lear, atto V, scena II di Shakespeare: «Men must endure / their going hence even as their coming hither: / ripeness is all». Il componimento (del quale segnaliamo le rime baciate al centro di ogni quartina, cui si aggiungono assonanze ai vv. 13 e 16, ed enjambement) fu pubblicato in VI e nelle raccolte successive.

LE FARFALLE

Perché le farfalle vanno sempre a due a due

e se una si perde entro il cespo violetto

delle settembrine l’altra non la lascia ma sta

sopra e vola confusa che pare si sbatta

5 contro i muri di un carcere mentre non è che questo

oro del giorno già in via d’offuscarsi

alle cinque del pomeriggio avvicinandosi ottobre?

– Forse credevi d’averla perduta ma eccola ancora

sospesa nell’aria riprendere l’irragionevole moto

10 verso le plaghe che l’ombra più presto fa sue

dei campi vendemmiati e arati della domenica:

tu non hai che a seguirla incontro alla notte

come l’attendesti nel lume inquieto del sole

finché fu sazia del succo di quei fiori d’autunno.

L’impressionismo del bellissimo e cangiante paesaggio campestre («campi vendemmiati e arati», v. 11) si fa simbolico della condizione del poeta, che nell’«irragionevole» volo delle farfalle adombra il pensiero di un’esistenza che ha limite nel corso del tempo, dalla luce del giorno all’ombra, alla «notte» dell’autunno e della vita. Il dialogo intimo ed erotico delle due strofe mette in risalto la forza dell’amore coniugale, che non abbandona, ma attende e guida il compagno smarrito. Significativo l’ossimoro «vola… carcere», già nei Papaveri («carcere di voli», v. 11). Le farfalle sono presenti in altri luoghi poetici a partire da Per B… («si perdono / come farfalle notturne nell’aria / che s’oscura»), al cap. XXXVI, Nella casa di Pea, vv. 197-202, di CL, in una sequenza in lode dell’incarnato di Ninetta, che intreccia, con estrema raffinatezza, citazioni da Le rouge et le noir di Stendhal (l’epigrafe, attribuita a Polidori, in limine al cap. CIV) e dall’epigrafe con variazione dell’atto II, scena II, della commedia Twelfth Night (La dodicesima notte) di Shakespeare: «of / such stuff are made butterflies. Come / le farfalle vanno sempre in coppia, se la prima cade sulla pagina, l’altra / divisa dal partner / si sentirà persa». Ma si ricordino anche «le farfalle in voli di sbieco / verso la profondità degli abissi domestici», Ritornare qui (VI), vv. 6-7. Il poeta sottolineò, parlando a Lagazzi: «L’immagine delle farfalle accoppiate c’è anche in una poesia in forma di lettera di Pound, La moglie del mercante del fiume, ispirata alla lirica cinese. […] E del resto le farfalle in coppia io le ho viste davvero: ma stranamente solo qui a Casarola; da altre parti vanno da sole…» (BERTOLUCCI-LAGAZZI 1997, p. 80). Bertolucci era alla vigilia della crisi nervosa che lo ammalò e che è testimoniata in VI. Il componimento, datato 22 settembre 1957, fu pubblicato in «Paragone», VIII, 94, ottobre 1957; in VI; P e O.

VERSO CASAROLA

Lasciate che m’incammini per la strada in salita

e al primo batticuore mi volga,

già da stanchezza e gioia esaltato ed oppresso,

a guardare le valli azzurre per la lontananza,

5 azzurre le valli e gli anni

che spazio e tempo distanziano.

Così a una curva, vicina

tanto che la frescura dei fitti noccioli e d’un’acqua

pullulante perenne nel cavo gomito d’ombra

10 giunge sin qui dove sole e aria baciano la fronte le mani

di chi ha saputo vincere la tentazione al riposo,

io veda la compagnia sbucare e meravigliarsi di tutto

con l’inquieta speranza dei migratori e dei profughi

scoccando nel cielo il mezzogiorno montano

15 del 9 settembre ’43. Oh, campane

di Montebello Belasola Villula Agna ignare,

stordite noi che camminiamo in fuga

mentre immobili guardano da destra e da sinistra

più in alto più in basso nel faticato appennino

20 dell’aratura quelli cui toccherà pagare

anche per noi insolventi,

ma ora pacificamente lasciano splendere il vomere

a solco incompiuto, asciugare il sudore, arrestarsi

il tempo per speculare sul fatto

25 che un padre e una madre giovani un bambino e una serva

s’arrampicano svelti, villeggianti fuori stagione

(o gentile inganno ottico del caldo mezzodì),

verso Casarola ricca d’asini di castagni e di sassi.

Potessero ascoltare, questi che non sanno ancora nulla,

30 noi che parliamo, rimasti un po’ indietro,

perdutisi la ragazza e il bambino più sù in un trionfo

inviolato di more ritardatarie e dolcissime,

potessi io, separato da quel giovane

intrepido consiglio di famiglia in cammino,

35 tenuto dopo aver deciso già tutto, tutto gettato nel piatto

della bilancia con santo senso del giusto,

oggi che nell’orecchio invecchiato e smagrito mi romba

il vuoto di questi anni buttati via. Perché,

chi meglio di un uomo e di una donna in età

40 di amarsi e amare il frutto dell’amore,

avrebbe potuto scegliere, maturando quel caldo

e troppo calmo giorno di settembre, la strada

per la salvezza dell’anima e del corpo congiunti

strettamente come sposa e sposo nell’abbraccio?

45 Scende, o sale, verso casa dai campi

gente di Montebello prima, poi di Belasola, assorta

in un lento pensiero, e già la compagnia forestiera

s’è ricomposta, appare impicciolita più in alto

finché l’inghiotte la bocca fresca d’un bosco

50 di cerri: là

c’è una fontana fresca nel ricordo

di chi guida e ha deciso

una sosta nell’ombra sino a quando i rondoni

irromperanno nel cielo che fu delle allodole. Allora

55 sarà tempo di caricare il figlio in cima alle spalle,

che all’uscita del folto veda con meraviglia

mischiarsi fumo e stelle su Casarola raggiunta.

Una dinamica narrativa e diaristica, sottolineata da Mengaldo, è propria di questa lirica, che unisce il realismo nell’indicazione dei luoghi (si notino i nomi dei paesi montani) alla meteorologia (il passaggio delle ore, da un mezzogiorno infuocato al crepuscolo) a una splendida rappresentazione di una data che non si dimentica, il 9 settembre 1943, il giorno dopo l’armistizio, che costrinse la piccola famiglia del poeta a lasciare Baccanelli e a rifugiarsi a Casarola. È questo l’antefatto dei capp. XLI, Dall’altro versante; XLII, Fumi lontani; XLIII, La fuga al Monte Navert; XLIV, Questo così sereno così pio mattino, che in CL evocano il terribile rastrellamento nazista che nel luglio 1944 portò incendi e lutti nel paese. Per il poeta è un viaggio nei luoghi «dove tutto è cominciato anni e anni addietro», con l’arrivo dei maremmani e la fondazione della casa, che gli eredi «lasciano rovinare in lenta pace». Ma la descrizione di questa ascesa di Attilio con Ninetta, il piccolo Bernardo e una domestica, nel paesaggio che si apre sulle «valli azzurre per la lontananza, / azzurre le valli» (si noti la ripetizione a chiasmo, segnale di bellezza e meraviglia); che incrocia gente del luogo in un viavai contadino; che sosta in un bosco accanto a una fontana, fino a raggiungere il paese circondato dai castagni, ha il suo cuore poetico nei versi che sottolineano il mito dell’amor coniugale e dell’unione di anima e di corpo che gli è connaturata. L’affondo doloroso sul «vuoto di questi anni buttati via» (v. 38) è manifestazione di rimpianto per ciò che si è perduto, in linea con i pensieri amari che ispirarono VI. I versi finali sono virgiliani, come virgiliano è lo sguardo sul «faticato appennino / dell’aratura», segnato dal lavoro umano; chiudono, con una sequenza cinematografica, il poemetto, aperto dalla formula incipitaria «Lasciate che», usata frequentemente, con Lagazzi, come invito all’ascolto complice. Il tessuto metrico, che si distende in versi lunghi e si avvale di fitti enjambement, è di grande mobilità e coniuga andamento prosastico ed emozioni liriche. Il componimento fu pubblicato in «Officina», 9-10, giugno 1957; in VI; P e O.

LEGGENDO WALDEMAR BONSELS A G.

E ora tu che spendi il tempo bello

della tua fanciullezza in questo secolo

senza speranza, dal basso sgabello

ascolta l’ape Maia in mezzo ai tigli

5 mattutini ronzare in disperata

fuga verso le porte azzurre rosse gialle

della piccola patria minacciata,

ascolta insetti ed elfi che si parlano

nei lunghi giorni estivi, nelle notti

10 rapide e chiare, imitando gli uomini

con goffa gentilezza, ascolta i motti

savi, i delicati ansanti allarmi:

quel miele nutra te convalescente.

Un delicato quadro familiare appare in questa lirica: il padre legge al figlio Giuseppe («G.»), che è convalescente, l’Ape Maia di Waldemar Bonsels, un testo celebre dedicato all’infanzia, e ne ricrea l’atmosfera fantastica, applicandola alla propria poetica e sensibilità. Ecco dunque, accanto ai colori netti del v. 6, memori di altri luoghi pittorici (Per A.A. Soldati pittore in Parma; Il rosa, il giallo e il pallido viola…), la «piccola patria», immagine ripresa dalle Veglie alla fattoria presso Dikan’ka di Gogol’; l’aggettivazione e le immagini pervase dal sentimento del tempo («tigli / mattutini»; «lunghi giorni estivi»; «notti / rapide e chiare»); la tessitura metrica contesta di enjambement; le ripetizioni («ascolta… ascolta… ascolta»); le rime dei vv. 1-3; 5-7; 9-11; le allitterazioni (si noti in particolare la successione della sibilante «s» nel v. 3). Colpisce il pessimistico «questo secolo / senza speranza», così definitivo in contrasto con la fiduciosa e serena «fanciullezza» del bambino, al quale va l’augurio dell’explicit con parole non lontane da un verso di Baudelaire, I fiori del male: «faisant de la douleur un miel» («ricavando miele dal dolore»). È il «conforto della letteratura», annota Giuseppe (BERTOLUCCI G. 2011, p. 21). «Solo il miele della poesia e del racconto può nutrire e addolcire una convalescenza che certamente, nella realtà, corrispondeva al decorso naturale di qualche ordinaria patologia infantile, ma che non riesco a non leggere in tutta la sua valenza metaforica: la fuoriuscita da una delle tante crisi (affettive ed esistenziali) attraverso le quali, anno dopo anno, si definisce la personalità di un bambino.» Eppure in chiaroscuro si intravede l’ansia esistenziale del poeta e padre. Il componimento fu pubblicato in «Palatina», I, 1, gennaio-marzo 1957; in VI; P e O.

I PESCATORI

Avete visto due fratelli, l’uno

di quindici l’altro di dieci anni, lungo

il fiume, intento il primo a pesca,

il secondo a servire con pazienza

5 e gioia? Il sole pomeridiano colora

i visi così simili e diversi

come una foglia a un’altra foglia nella

pianta, una viola a un’altra viola in terra.

Oh, se durasse eternamente questa

10 mattina che li svela e li nasconde

come erra la corrente tranquilla,

e li congiunge sempre se un silenzio

troppo dura fra loro e li opprime

così da cercarsi a una voce e trovarsi,

15 intatte membra, intatti cuori, rami

che la pianta trattiene strettamente.

Le quartine dipingono in un flashback i figli Bernardo e Giuseppe, intenti alla pesca sulle acque che scorrono nei Giardini di Ninfa, oasi botanica in provincia di Latina. È occasione perché si manifesti quel sentimento d’unione amorosa sul quale si fondano la vita familiare del poeta, il suo bisogno di stringere in armonia, o, con metafora botanica, i «rami» della propria «pianta». All’interrogativa retorica che ferma i due fratelli, vicini e affiatati, e alla descrizione impressionistica del sole che li illumina e della «corrente tranquilla», segue un’invocazione che mette a nudo l’ansia del poeta nei confronti del passare del tempo, il timore che la perfezione di quel momento possa interrompersi. È quanto osserva Giuseppe (BERTOLUCCI G. 2011, p. 23): «Nella visione del poeta tutto torna, in un ordine perfetto, sublimato da una metafora vegetale che assimila i due ragazzi a due foglie e a due viole, per culminare in quella immagine finale della pianta paterna, che trattiene strettamente i due figli come rami. Tutti noi trasformati, come in un mito classico, in elementi della natura. Disumanizzati, svuotati di ogni conflittualità e di ogni contraddizione, in un tempo che Attilio vorrebbe che “durasse eternamente”. Ma quel Giuseppe, che “serve con pazienza e gioia” la performance del fratello maggiore, e soprattutto quella pianta, il padre, che “trattiene strettamente” le proprie creature, non sono forse la risposta esorcistica al timore che quell’incanto possa rompersi, che l’unità famigliare possa, da un momento all’altro, venir messa in crisi? Ed ecco che, in una circolarità senza scampo, l’ansia si riaffaccia sulla scena, travestita dal suo contrario, l’idillio. L’effetto dell’anestesia sta terminando». Il componimento fu pubblicato in «Botteghe Oscure», XX, 1957, datato «Ninfa, 5 marzo 1957»; in VI; P e O.

IL TEMPO SI CONSUMA

Sono entrato nella gran folla mista

della messa di mezzogiorno, in cerca

di te, ch’eri là dall’inizio,

bambino diligente, anima pura

5 affamata di Dio, e con inquieto

occhio ho scrutato fra i banchi

inutilmente.

Ma da una tela umile veniva

incontro alla mia ansia il garzone

10 di falegname, Gesù, della tua età,

a rincuorarmi, mentre intorno, al fioco

accento del sacerdote lontano

si mescolava l’agitazione terrena

delle ragazze e dei ragazzi tenuti

15 lontani dal bel sole di domenica.

Così, d’improvviso, in un angolo vicino

alla porta, t’ho ritrovato, quieto

e solo, m’hai visto, ti sei

accostato timidamente, ho baciato

20 i tuoi capelli, figlio ritrovato

nel tempo doloroso che per me e te

e tutti noi con pena si consuma.

La lirica, composta nel periodo che vide insorgere la nevrosi del poeta, è, con Lagazzi (FCG, p. 298), una «parabola drammatica sull’ansia giocata con una qualità sovrana del tocco» tra lento sviluppo narrativo e primo piano di grande effetto visivo, anche per la raffigurazione dell’«umile» dipinto che attenua l’apprensione di Attilio. Indimenticabili il ritratto del bambino Giuseppe per i termini in posizione forte che lo descrivono: «diligente, anima pura», «quieto / e solo», «timidamente». È lo stesso Giuseppe di tre anni «bambino quieto, carico di consapevolezza» di Ancora il taglio dei riccioli, che a dieci anni riappare con le stesse caratteristiche ad «arginare la piena emotiva» che sta per travolgere il padre. È una «tipica proiezione salva-vita», commenta Giuseppe (BERTOLUCCI G. 2011, p. 25), «a cui Attilio ricorre per cercare di placare la pulsione aggressiva che lo tortura». Ancora una volta sono il tempo, il suo tragico passare e dissiparsi, e il timore della perdita a fare di questa poesia il racconto di un’esperienza di pena e d’affetto. Il componimento, che fu collocato in posizione di cerniera tra la prima e la seconda parte della raccolta del 1971, fu pubblicato in VI; P e O.

ESERCIZI SUL SETTEMBRE

Il calore d’un giorno di settembre

è un bene che non devi lasciar perdere,

ogni foglio del calendario che stacchi

se ne porta via un po’ come si porta

5 via la tua vita giunta al suo settembre.

E ancora loderai tu il settembre

che avvicina l’inverno, poi che il sole

nascente dalle sue albe tranquille

e fùmide entro i cieli del meriggio

10 arde d’un fuoco che ha solo settembre?

Così le foglie bruciano in settembre

e si fanno metallo, fulva làmina

fragile, che spezzano le tue

dita smagrite, del colore perso

15 che hanno le foglie a fine di settembre.

«Settembre» ritorna più volte nella poesia di Bertolucci, essendo un mese che ancora prolunga la bella stagione estiva, che Attilio e Ninetta trascorrevano, dopo il restauro della casa degli avi, a Casarola, al cui paesaggio la lirica si ispira. Il titolo Esercizi sul settembre non tragga in inganno. La poesia non è infatti un puro esercizio retorico, ma nasce dal rapporto attento e innamorato col luogo e con la moglie, svolgendo temi e immagini che appartengono alla tastiera del poeta, dal tepore del sole, che prolunga la giornata, al pensiero del transito del tempo, della vita e della natura, che culminano coerentemente nella terza strofe. Nei vv. 11-15 infatti, egli dipinge, con un pennello caldo e ricco, un tappeto di foglie mutate nel colore bronzeo dell’autunno, già nella tavolozza di Dal balcone, vv. 5-6: «foglie di principio dell’estate / già in lamine e in colore perso». Al centro la mano di Ninetta, con un tocco di malinconica apprensione per la fragilità, simile a quella delle foglie, delle «dita smagrite». Questa concentrazione di sguardo, umana e poetica, su un unico particolare del corpo amato è propria del grande poeta. Il componimento fu pubblicato in VI; P e O.

UN AUGURIO, PARTENDO

Il cielo è azzurro e grigio

ma il sole che non si vede,

tramontando quel grigio

muta in rosa, l’azzurro

5 in celeste, e io fuggo,

fuggo piangendo da voi.

È il caro tempo dell’anno

che la giornata s’allunga,

voi camminando adagio

10 portati dal crepuscolo

che intenerisce e che fiacca,

vi allontanate da me.

Che quest’ora vi sia

propizia, o donna, o ragazzo:

15 il cielo che s’oscura

rivelando una lucida,

tremante fiamma qua e là,

annuncia bel tempo, domani.

Coglietene il mite augurio…

20 E sia il figlio ad alzare

prima gli occhi, a stupirsi

del chiarore notturno,

a darne notizia alla madre:

così vive e dura l’amore.

Apparso in «Paragone», XI, 126, giugno 1960 e inserito nella sezione Verso Casarola di VI, il componimento rivela il dolore dell’abbandono di coloro che si amano, qui indicati come la madre e il figlio ragazzo, in cui riconosciamo Ninetta e Giuseppe tredicenne. È un tema questo che, dopo le pennellate sullo svariare cromatico e sereno del cielo, si presenta drammaticamente, accentuato dalla ripetizione «fuggo, / fuggo» seguita dal gerundio «piangendo». E se la nota sulla stagione e l’allontanarsi quieto dei familiari sembra placare la sofferenza e suscitare un moto d’augurio e di «mite» speranza, è il quadro intenerito dell’ultima sestina, illuminata dal chiarore notturno, a dire perentoriamente il significato dell’amore. La poesia, dopo VI, fu pubblicata in P e O.

NON

Non mi lasciare solo se io

ti lascio sola

e intorno a te la luce

è quella che fa piangere

5 dei giorni ordinari,

non allontanarti con passo

fiducioso in direzione

dell’estate e non

considerare rassegnata

10 la fatalità delle averse e del sole,

non acquistare viole in prossimità della casa.

Cifra stilistica di Non è l’imperativo negativo, sottolineato dalla ripetizione in anafora e disposto all’inizio, al centro e nel verso finale nonché, con molto risalto, nell’enjambement dei vv. 8-9: «e non / considerare». È un grido disperato a Ninetta – la compagna razionale che rappresenta la vita attiva, quotidiana e serena, non turbata dal fatale mutare del tempo – da parte del poeta, malato al punto da sentire dolorosamente («piangere») la propria estraneità alla ferialità dei «giorni ordinari». La luce appartiene a lei, mentre Attilio sembra volerla rinchiudere nel proprio affetto e nel timore del distacco e della solitudine. A proposito delle «averse», che tornano anche nel cap. XII, In collegio, v. 197 («ai lampi delle averse»), Bertolucci le disse «francesismo dei montanari che emigravano in Francia e ne tornavano con belle parole come questa. Per acquazzone». Il componimento fu pubblicato in «L’Approdo Letterario», IX, 21, gennaio-marzo 1963; in VI; P e O.

PORTAMI CON TE

Portami con te nel mattino vivace

le reni rotte l’occhio sveglio appoggiato

al tuo fianco di donna che cammina

come fa l’amore,

5 sono gli ultimi giorni dell’inverno

a bagnarci le mani e i camini

fumano più del necessario in una

stagione così tiepida,

ma lascia che vadano in malora

10 economia e sobrietà,

si consumino le scorte

della città e della nazione

se il cielo offuscandosi, e poi

schiarendo per un sole più forte,

15 ci saremo trovati

là dove vita e morte hanno una sosta,

sfavilla il mezzogiorno, lamiera

che è azzurra ormai

senza residui e sopra

20 calmi uccelli camminano non volano.

In un dialogo teso con Ninetta, affidato sintatticamente a un’unica frase contesta di enjambement, il poeta manifesta, con l’imperativo in incipit ripreso al v. 9, lo stesso bisogno, espresso in Non, della presenza della moglie nella sua vita confusa e turbata. Ispirata dalla notte d’amore, che lascia tracce su di lui, ma che in lei non crea distanza rispetto al procedere della vita quotidiana («donna che cammina / come fa l’amore»), la lirica mostra una forte volontà di escludere tutto ciò che è vita pratica ed economica (la «sobrietà» e la misura erano caratteristiche di Ninetta), per ritrovarsi con lei sul punto estremo della «sosta», motivo profondo della poesia di Bertolucci, già inserito, ma non così esplicitato, in Ancora su questa terra fradicia. La «sosta» significa, al culmine del viaggio nell’esistenza, il momento in cui il corso del tempo sia arrestato, tutto sia presente, l’oggi e il passato e il futuro, sotto un cielo azzurro di un luminoso mezzogiorno, e il cammino sia umano e non «volo», fuga e fatale andare, come indica la metafora degli uccelli. Lagazzi suggerisce: «a monte, inevitabile, il confronto con uno dei più celebri testi di Montale, Portami il girasole… (negli Ossi di seppia)». Un’eco da un verso di Mallarmé, molto citato da Bertolucci, «Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui», si avverte nel «mattino vivace» del v. 1. L’imperativo «lascia» del v. 9 è lemma frequente in VI ed è un calco dall’inglese Let, come il poeta rivelò in BERTOLUCCI-LAGAZZI 1997. Il componimento fu pubblicato, come il precedente, in «L’Approdo Letterario», IX, 21, gennaio-marzo 1963; in VI; P e O.

LASCIAMI SANGUINARE

Lasciami sanguinare sulla strada

sulla polvere sull’antipolvere sull’erba,

il cuore palpitando nel suo ritmo feriale

maschere verdi sulle case i rami

5 di castagno, i freschi rami, due uccelli

il maschio e la femmina volati via,

la pupilla duole se tenta

di seguirne la fuga l’amore

per le solitudini aria acqua del Bràtica,

10 non soccorrermi quando nel muovere

il braccio riapro la ferita il liquido

liquoroso m’inorridisce la vista,

attendi paziente oltre la curva via

l’alzarsi del vento nel mezzogiorno, fingi

15 soltanto allora d’avermi udito chiamare,

entra nella mia visuale da un giorno

quieto di settembre, la tavola apparecchiata

i figli stanchi di attendere, i figli

giovani col colore della gioventù

20 esaltato da una luce che quei rami inverdiscono.

È questa una delle liriche più tragiche di VI, che Giovanni Raboni ha collegato al motivo del «dissanguamento», forse eco della terapia, cui Attilio fu sottoposto in clinica, a causa dell’acuirsi della nevrosi, e figura costante nelle poesie dell’insonnia e della sofferenza come Notte («mattino di sangue e di nuvole», v. 9) o L’amore sonnifero («Scrivo col sangue minio i capilettera», v. 1). La preghiera a Ninetta non cela lo smarrimento del poeta che si sente perduto, ma che, al culmine dell’angoscia, nell’attesa di lei, moglie fedele e «paziente» («La tua dolce pazienza s’animava», FC), intravede, o s’illude di intravedere, la salvezza: è il presente quotidiano di un giorno «quieto», sono la casa e la tavola, sono i figli giovani a rinnovare la speranza. E si noti anche il topos della «svolta», «la curva via», oltre la quale appare la moglie. La lirica, in quartine di versi liberi, contrasta con la vertiginosa dilatata struttura sintattica, già utilizzata in Portami con te, consistente in una lunga unica frase senza pause forti, al cui interno si susseguono enjambement e serie di immagini (in asindeto ai vv. 8-9), interrotte solo dagli imperativi «Lasciami», «non soccorrermi», «attendi», «fingi», «entra». Per Garboli, «questi versi tortuosi, che si dilatano a spirale fino a coprire un’intera poesia, sono debitori alla sintassi della Recherche, e ricordano il segno lasciato sul foglio da un carboncino o pennello che non si stacchi mai dal tracciato» (GARBOLI 1990, p. 55). Il componimento è molto teatrale nei diversi passaggi (ma «la mia poesia è rappresentazione», ricordava Attilio), anche nel rapporto realtà/finzione. Riesce a trasformare il contesto paesaggistico, che da drammatico («sulla polvere sull’antipolvere sull’erba»; «maschere verdi sulle case i rami»; «le solitudini aria acqua») si rasserena nel colore della giovinezza e nella luce, che i rami di castagni «inverdiscono». L’«antipolvere» è la parte che sta tra la strada asfaltata e il fossato. Il componimento fu pubblicato in «Paragone», XVI, 182, aprile 1965; in VI; P e O.

VIAGGIO D’INVERNO
a G.

Vigorosamente imbocca la strada del mattino

con vigore e dolore distaccati da me

verso Cuma il tuo cuore giovane batta in sintonia

con l’antica e fresca musica di ruote e di rotaie.

5 Nella Campania felice che diverrà del tuo tedio

primamente virile accogliendoti viti

tirate altissime e spoglie per l’inverno

ma immagazzinanti una luce che può invidiare l’estate?

Ora io sogno delle stanze d’albergo

10 che s’offriranno alle tue membra affaticate

origlieri che il vizio ha sformato eppure

rinnova una tela fragrante e la tua fronte pura.

Pellegrino mio pellegrino la tua inquietudine la tua

fiducia amara mi torturano il petto

15 e mi salvano dall’ignominia del vivere nutrono

un’insonnia benigna con addii di convogli

e persistere di scolte astrali sopra la terra.

26 dicembre 1965 - 6 gennaio 1966

Giuseppe diciottenne si allontana da casa e il padre poeta pensa a un viaggio iniziatico, che proietterà il figlio verso il suo destino. Ecco nascere pertanto questi versi augurali, che divengono descrizione, assai vibrante per luce e tocchi pittorici e campestri, di una «Campania felice» che accoglierà il giovane sulla via che lo farà uomo (si noti il quadro delle stanze d’albergo, sfiorate dal «vizio»). Ma il distacco non libera il poeta dal suo tormento, dal pensiero doloroso dell’esistenza. Così nell’invocazione, scandita dal raddoppiamento, dall’insistenza sui possessivi «mio… tua… tua», dall’ossimoro «fiducia amara», riappare il volto drammatico della separazione. Gli ultimi versi chiusi sulla bellissima immagine cosmica, di sapore pascoliano, delle protettive «scolte astrali sopra la terra», evocano i fischi dei «treni d’arrivi» di Concerto in giardino di Sereni. Si consideri tuttavia che il viaggio a Cuma è stato, con Giuseppe che ne parla e s’interroga sulla relazione tra verità e poesia, un «falso storico» (BERTOLUCCI G. 2011, p. 30). Un cambio di programma improvviso lo portò invece a Firenze, mentre nascevano i versi di Viaggio d’inverno. Il componimento fu pubblicato in VI; P e O.

RESTAURO DI UN TETTO

Questo nostro ritorno, e soggiorno, qui a settembre avanzato

con un sole che scotta e farfalle gialle nell’aria

fiori perdutamente colorati traboccanti dalla rete metallica

degli orti in ultima maturità e spoliazione, questo

5 tuo assoldare fini artigiani anziani, in disarmo,

e fargli aguzzare la vista stremare i muscoli nel

restauro difficile del tetto d’ardesia, acrobati

quieti la canizie bagnata d’azzurro, musici

intermittenti che le valli echeggiano tanto

10 è il silenzio delle ore travalicato il meriggio –

ma trattienine l’oro negli occhi innamorati ancora

così che l’opera sia compiuta nel tempo previsto

e tenuto lontano l’orrore del buio ammassantesi

nei viottoli a impedire le fughe anche senza speranza

15 poi che i ponti sono tutti in rovina

sotto stelle benigne e irremovibili –

e la mia docile accettazione d’una così fidente

laboriosità, d’un così attivo utilizzo

di margini diurni ai confini della notte, non sarebbe forse…

20 Ma non è, non è se la contraddizione della poesia

in progresso, il suo diniego fiammante

dura, e prolunga l’estate, insieme prepara

l’autunno e dunque piogge, malattie, riprese,

con fumi in cieli schiarentisi nei pertugi dell’ovest.

Restauro di un tetto si ispira al restauro per volontà di Ninetta della casa di Casarola, eseguito nel 1956 e durato molti mesi, cui allude il lungo verso iniziale che li vede affiancati. È lei tuttavia la vera protagonista della rappresentazione, lei che dispone e sceglie gli artigiani dediti al tetto d’ardesia, ed è lei che può medicare le ferite di Attilio. Al poeta il ruolo di colui che, con «docile accettazione» (caratteristica rivelata anche dal figlio Bernardo nel film The Dreamers), confida fiducioso nella sua forza, colui che è sempre presente, ma non sereno. L’inciso dei vv. 11-16, al centro dei due momenti – descrittivo il primo, di grande bellezza pittorica alla Bonnard; meditativo il secondo sul significato ambiguo, ma luminoso («fiammante») della poesia – affonda nel pensiero amaro che alla fine del giorno segua, come indica la reticenza, il buio della morte. L’immagine «i ponti sono tutti in rovina» allude realisticamente a un ponte tra Casarola e il paese di Riana, ma si colma di drammaticità poetica per il plurale e il «tutti», mentre l’invocazione all’amore («trattienine l’oro negli occhi innamorati ancora») e il rasserenarsi del cielo nel verso finale sembrano rispondere al «Salvaci allora dai notturni orrori / dei lumi nelle case silenziose» della Strada di Creva di Sereni. Il componimento fu pubblicato in «Paragone», XVI, 182, aprile 1965; in VI; P e O.

DAL BALCONE

Guardavamo insieme dall’alto sentivamo

all’unisono era un momento privilegiato

vedevamo il bambino con il suo

rastrello solitario quietamente adunare

5 foglie di principio dell’estate

già in lamine e in colore perso più in là

strappava gramigne e sarchiava radiosa

per una luce che lei il bambino escludendo

avvolgeva una suora giardiniera vigorosa

10 vecchia eppure non domata dagli anni

impolverata di terra arenosa santificata

dal sole ormai radente in ombra il figlio secolare

d’una madre giovane in clinica il merlo

venuto curioso con il suo nero a dire

15 la notte imminente portatrice d’insonnia

non più bene divisibile fra me e te

separati dal muro intrecciato di rose.

Il primo e l’ultimo verso segnano la distanza che si crea nella coppia a causa dell’insonnia, che tormenta il poeta. Non si tratta dell’insonnia giovanile, della quale Bertolucci parla già al tempo di FN in Insonnia («Come cavallo / che meridiana ombra impaura / s’impunta il sonno, / finché l’alba sbianca l’oriente») e, frequentemente, scrivendo a Ninetta, come nella lettera del 20 febbraio 1934: «[…] ho l’insonnia. Tu sai cos’è, e puoi capirmi se ti dico che è il male peggiore del mondo; ma speriamo che se ne vada. Io credo che se tu tornassi mi andrebbe subito via. Dicono: è una conseguenza dell’essere i nervi scossi, infatti… Dato che i miei nervi sono scossi perché mi manchi tu, tu sei il mio unico e vero bromuro». Ma l’insonnia legata alla malattia nervosa del 1957-58 è altra cosa, drammatica e tale da distanziare l’amata da lui. Eppure la descrizione del giardino, dove gioca un bambino e lavora una suora, è apparentemente fonte di quiete, benché le foglie già appaiano scurite e «giovane in clinica» sia la madre, che la luce esclude, annunciando la notte, simbolo della fine. L’aggettivo «perso» è dantesco e indica un colore bruno tra il purpureo e il nero. Il muro «intrecciato di rose» è un elemento decorativo della casa di Casarola, che il poeta raffigurò nel ’56 nel lavoro artigianale degli Imbianchini sono pittori (VI): «Doveva su quel cielo preparato / con cura far fiorire le rose, / […] Le corolle vermiglie ombrate in rosa / fiorirono più tardi la stanza». Ma la dedica di questa poesia a Roberto Longhi può anche ricordare la stanza da letto per gli ospiti, dove un artigiano «sta fiorendo di rose d’un pallido rosa il muro azzurro chiaro» nella villa fiorentina Il Tasso, descritta dal poeta nel 1957 (La casa di Roberto Longhi, in A. Bertolucci, La consolazione della pittura. Scritti sull’arte, a cura di S. Trasi, introduzione di P. Lagazzi, Nino Aragno Editore, Torino 2011). La poesia, che è contesta di un unico lungo e mobile periodo, privo di segni di punteggiatura e appoggiato a frequenti enjambement (Raboni parlò di «sgocciolamento»), fu pubblicata in «Paragone», XVIII, 206/26, aprile 1967, col titolo Da un balcone; in VI; P e O.

COME VI PIACE

Mite allegro per il gocciolare dei faggi

dolente nella vita piegata raccolgo

per la prima volta con impegno frutti

spontanei della terra lamponi impalliditi

5 dalla pelurie eppure nel verde

della macchia visibili anche all’occhio debole

per gli anni consumati

in virtù del loro rosso l’unico

esistente qui dove non Jaques non Amiens

10 né il Duca amato tingono

l’aria lontana dei loro abiti passando

oltre una canzone di baci

autunnale quando un tuo

improvviso distrarti dal lavoro a due

15 per delle genziane blu viste

allo scoperto su un pendìo scosceso

lascia me solo miserabile in basso.

La poesia uscì nel 1967 col titolo L’amore e fu ispirata ad As You Like It di Shakespeare, commedia letta con entusiasmo dal poeta al tempo della lettera a Ninetta del 30 gennaio 1934: «[…] una commedia d’amore, una commedia per noi, con ragazze travestite, giovani che scrivono sulle piante, bravi duchi esiliati, pastori ecc. È deliziosa. Poi vi sono delle canzoni bellissime». La ripresa poetica avvenne però molti anni dopo, quando Bertolucci aveva attraversato la soglia del dolore e del male, che generò VI. Fu forse questo il periodo in cui Bertolucci, su commissione di Franco Enriquez per una nuova messinscena del Teatro Stabile di Torino, avviò la traduzione del testo inglese, fermandosi tuttavia dopo il frammento, già ricordato nel commento a Incompiuta, dell’atto II, scena I, ambientato nella foresta di Arden, dove s’incontrano il Duca esiliato con due o tre signori, Amiens e Jaques. Una nota di Cesare Garboli alla pubblicazione su «Paragone» nel 1987 riferisce che, dopo molto tempo, «regista e traduttore, constatati i tempi diversi, si licenziarono reciprocamente. […] Bertolucci si tenne nel cassetto il suo frammento – ma non così nascosto da impedirne a se stesso una deduzione: con il titolo Come mi piace figura infatti in Viaggio d’inverno (1971) una poesia dove la foresta di Arden si intravede in controluce e in negativo, nel gocciolare dei faggi e tra le macchie piene di lamponi dell’Appennino tosco-emiliano» (O, p. 1406). Ecco dunque l’ambientazione nei boschi di Casarola d’estate, dove un «mite» poeta affianca Ninetta nella raccolta dei lamponi, fino al momento in cui ella si allontana per cogliere genziane blu. È evidente nella terza quartina l’arguta citazione del testo inglese, utilizzato dal poeta in chiave di distanza e di contrasto rispetto alla situazione domestica (non gli abiti lussuosi e colorati né l’autunnale canzone d’amore come colonna sonora, ma i lamponi estivi di un «unico» rosso nel verde delle macchie e il silenzio), appena mutata nell’explicit da sorridente e affettuosa unione in dolorosa solitudine. Le genziane che «fioriscono di primo autunno sui monti» portano con loro un segno premonitore di fine, se appariranno «genziane viola sino al blu di Proserpina», come omaggio funebre nell’Envoi di Due frammenti della vita di Pier Paolo Pasolini. Il componimento, che stilisticamente appartiene al tempo della lunga unica frase senza segni d’interpunzione, è suddiviso in quartine di versi liberi, contesti di allitterazioni ed enjambement, e un singolo verso finale, nel quale si concentra il vero significato della situazione narrata; fu pubblicato in «Paragone», XVIII, 206/26, aprile 1967, col titolo L’amore; in VI; P e O.

L’AMORE SONNIFERO

1

Scrivo col sangue minio i capilettera

educo a un pergolato rose selvatiche

rosa e rosse il mio amore

per te s’accresce tu ascolta paziente

5 innamorata dei tuoi figli.

2

Vorrei punirti ma cicatrici

già fregiano l’ansa adorata del ginocchio il petto

cui non arriva l’abbronzatura

ma arrivavano le due bocche affamate.

3

10 Se tardo a prendere sonno lascia

che mi accosti ricevimi

nella musica della sera

azzurra come la tinta delle palpebre

e assolvi al tuo compito santificata dalla professione.

4

15 Mi sveglio che te ne sei andata lasciandomi solo

la luce mi abbaglia scivolo nella tua valle imporporata

al sole delle nove la morte è questa felicità successiva

questo silenzio assolato persistendo l’amore.

5

Muovendoti sonnambula dietro la lucidatrice

20 intrattieni il mio dormiveglia di convalescente

chiazzi di sole un pavimento che non vedo

fingi la trebbiatura nel «mite inverno romano».

Ma non potrò contare alla fine i sacchi del mio grano.

6

Tornato a Parma ti accompagno – chiuso

25 in un castoro ereditato ammaccato tarmato –

a provare un midi mauve, le commesse

hanno la r e il pallore di qui ma le reni

sono di quelle giovani donne della PRB.

La tua anglicità mista è un metronomo

30 che apprezzano, l’una inginocchiata ad appuntare

spilli, l’altra dritta a vedere con l’occhio

segnato e esperto la lunghezza giusta

sulla gamba smagrita dall’amore e dagli anni.

Se nelle lettere Ninetta appare, innocentemente, come la «Signorina Medicina» o anche «il mio bromuro», in questa lirica è coinvolta in una situazione intima tra gelosia e colpa (il troppo amore per i figli), desiderio e abbandono, nostalgia. Con Roland Barthes, ricordato anche da Lagazzi, sono Frammenti di un discorso amoroso, che si sviluppano sull’onda di variazioni sia tematiche sia stilistiche sia metriche in lode della moglie – incantevole la prima strofe, cromatica e floreale, con l’«educo», di foscoliana memoria, per “faccio crescere” («a te cantando / nel suo povero tetto educò un lauro», Sepolcri, vv. 54-55). Ecco dunque le virtù morali di Ninetta: la pazienza, la dedizione, il saper fare l’amore, la cura della casa e l’eleganza, oggetto di un quadro di moda cittadina, che sarà ripreso, con la madre protagonista, nel cap. XXVI (La prova della pelliccia) di CL. Ed ecco le qualità fisiche: l’«ansa adorata del ginocchio il petto», l’abbronzatura, le palpebre truccate d’azzurro, le gambe sottili, l’«anglicità» che si rivela nella prova di un elegante abito color malva (mauve è per Proust il colore di Parma: «compact, lisse, mauve et doux»), prova in cui sono coinvolte le commesse parmigiane, paragonate alle fanciulle preraffaellite («PRB» per Pre-Raphaelite Brotherhood). Eppure il coniuge amante emerge sempre con i suoi stati d’animo sulla scena, fino a fare del proprio risveglio l’occasione di una rêverie, che trasforma i gesti e i suoni quotidiani in intermittenze del cuore (la lucidatrice nel «mite inverno romano» evoca la trebbiatrice nei campi di Baccanelli ormai venduti e ai quali il poeta, ormai non più «proprietario», accenna nel v. 23). La poesia, che presenta versi di varia misura compresi versi lunghissimi, gli endecasillabi dilatati dei quali parla Pier Vincenzo Mengaldo, riconoscendo a Bertolucci «una perizia artiginale che ha pochi confronti» (Poeti italiani del Novecento, cit., p. 570), fu pubblicata in «Paragone», XX, 230, aprile 1969; in VI; P e O.

IL CAPPELLO DI PAGLIA

Il cappello di paglia ricadente in festoni

ardenti sul tuo volto baciato dal tramonto

sei passata oltre la nostra casa più su più su dove

la strada piega il suo braccio scaldato dal sereno

5 e da passeggeri casuali perdutisi per sempre

– ma io so che nell’incavo di piante e acque lasciate

andare da anni per la loro inutilità

si forma un orrido domestico con sedili bizzarri

di pietra e muschio invitanti a un abbraccio

10 corruttore a uno sguardo innamorato e recluso –

e al tuo fianco inazzurrava l’aria

una donna giovane silenziosa la tua limpida voce

trafiggendo la breve distanza invalicabile

fra me non visto e te ormai invisibile

15 sino a colpire e insanguinare il mio petto.

Attilio è molto sensibile a ciò che Ninetta indossa, come leggiamo nelle lettere dove spesso elogia le sue camicette o il «cappello da peone» e la sua eleganza moderna nel portarlo. E il poeta deve aver ricordato, nella descrizione, le figure femminili della Passeggiata di Monet o di Summertime di Hopper. Non solo: egli cattura il momento magico del passaggio di Ninetta, spostando l’ardore del suo cuore e dell’ora solare ai «festoni» del cappello, unendo ancora una volta verità a poesia al modo di Vermeer. Eppure, in questa lirica il cappello di paglia, già presente in At home, diviene motivo simbolico di un distacco intravisto e temuto. Nella prima strofe il raddoppiamento («più su più su»), che insiste sull’allontanarsi di Ninetta, cui si aggiunge il pensiero dei viandanti «perdutisi per sempre», anticipa l’angoscia e il «sanguinare» del poeta di fronte alla scomparsa di colei che è portatrice, nel suo passaggio, di bellezza e di bene («al tuo fianco inazzurrava l’aria», v. 11). Ma si noti come il silenzio della compagna di passeggiata renda unica e percepibile la sua voce «limpida», la sola che può ferire dolorosamente il cuore e accrescere l’ansia del poeta. L’immagine beatrice giunge a sorpresa dopo la seconda strofe, un flashback che ravviva un paesaggio abbandonato e selvaggio, in cui l’amore può essere turbamento sensuale e reclusione. Il componimento fu pubblicato in «Nuovi Argomenti», 23-24, luglio-dicembre 1971, col titolo Addenda all’Amore sonnifero; in VSC e O.

OFFERTA CON TIMORE ALL’INTERPRETAZIONE

Ti ho vista in sogno

gli occhi schiariti dal mare

scurita nelle membra dal sole dei diciassette anni –

la mano di un compagno a me sconosciuto

5 sulla spallina nera del jantzen e l’omero delicato –.

Ma eri tu oggi e incontrando il mio sguardo

disperato provavi

dolore per me unitamente a dolcezza

per la pressione sul tuo corpo

10 nuovamente amato.

Una mescolanza di sentimenti amorosi – contemplazione della bellezza, gelosia, dolore e tenerezza – unisce la coppia. Il sogno, topico nella poesia di Bertolucci, è occasione per fare un ritratto marino di lei, appassionata di sole e di mare. È così, infatti, che il poeta la raffigura in CL, e in particolare nel cap. XXX, Il capanno, vv. 128-29 («le carezza la schiena nuda quanto / concede il jantzen nero, di lana») e prima ancora nell’incantevole cap. XXVII, Le sorelle, vv. 48-58 («C’è un’ora per il sole e un’ora per l’acqua / un’ora per l’immobilità e un’ora per il moto: / esse si seguono l’una all’altra, orizzontali prima poi verticali in una sequenza / di gesti quali lo spalmare lentissimo / olio di noce sopra le membra nude, / modificare, sulle spalle formate con slancio, / l’attaccatura del costume ai fini di un’estensione / piccola dell’abbronzatura, finalmente, / il distendersi sulla sabbia che brucia / ricevendone intrepidamente pena e piacere insieme»). Ma nella lirica la partitura metrica e stilistica si concentra, per enjambement, su «disperato» e su «dolore», in allitterazione e in ossimoro con «dolcezza», sentimenti dell’amata, per chiudersi nella realtà di un gesto («la pressione sul tuo corpo») che sostituisce la visione onirica, rinnova la passione amorosa e acqueta l’animo. Nelle lettere è frequente il bisogno di Attilio di stringere la mano di Ninetta, come atto di amore tenero e fisico insieme. Il componimento fu pubblicato in «Nuovi Argomenti», 23-24, luglio-dicembre 1971 sotto il titolo Addenda all’Amore sonnifero; in VSC e O.

N. DI GIUGNO

Per un ingenuo movimento

delle braccia nello sfilare con sforzo

la gonna che la sarta imprudente

ha appuntato di spilli – così

5 la bambina N. denudava il corpo magro

dal crétonne della tunica marina – salina

nelle estati di Marina

distesa ai piedi della città avvolta

di nembi e tuoni la montuosa Carrara –

10 ti sei fregiata sul collo

e lo scollo di segni vermigli

che vogliono il mite balsamo

dei baci. Tali ne aveva provocati Afrodite

usando una sferza di rose

15 a punire a gratificare Eros protervo

figlio perduto nei giardini oscuri

di tua e mia Parma in un eterno giugno.

La lirica si costruisce tra verità del presente, la prova di un abito, epifania e mitizzazione, accompagnate da uno sguardo sensuale. Le lievi ferite, che fanno rinascere infatti la grazia nuda di Ninetta bambina, attraverso i versi in inciso, festosi per le rime «marina… salina… Marina», divengono ornamento («fregiata») che la rende partecipe del mito di Afrodite e di Eros, protagonisti di una scena di supremo incanto nel tempo eterno dell’arte. Il quadro di un anonimo pittore settecentesco (con Lagazzi al modo rococò di Antoine Watteau), cui il poeta si riferisce, apparteneva a un amico del poeta, che rivela, in questa ekphrasis, trasposizione lirica di un’opera pittorica, l’altissima qualità del conoscitore d’arte. Il paesaggio è quello di Marina, centro balneare della costa apuana, che accolse le vacanze della famiglia Giovanardi. Si notino nell’explicit del verso isolato, che chiude le quattro quartine, l’espressione d’affetto per «Parma», affidata ai possessivi, e la fede nell’eternità dell’arte. Il componimento fu pubblicato in «Paragone», XXX, 348, febbraio 1979; in «Poesia», I, 7-8, luglio-agosto 1988; in VSC, nella sezione Chroniques maritales, e in O.

VERSO LE SORGENTI DEL CINGHIO

Volevamo risalire alle sorgenti del Cinghio

il giorno era d’aprile ventoso e celeste

folate ci portavano via sbiancando i salici bassi

già dietro di noi perduti perduta la casa

5 dove s’erano dimenticati di noi fuggitivi

esploratori muniti di cibo e coltellini multipli

per una lunga assenza forse per un distacco

non per me che partecipavo all’impresa

da inviato senza la volontà liberatoria

10 degli altri senza la loro strenua fiducia

mentre attraversavamo proprietà sconosciute

seguendo l’incantagione sinuosa del Cinghio

avvicinandosi all’occhio lo scenario azzurro

delle colline rumoreggiando più e più

15 il Cinghio amato. Ma il tempo

era passato per me che sentivo

acuta la perdita della casa e di chi

forse si era ricordato di noi

soffrendo come soffrivo io del distacco

20 così che con l’astuzia persuasiva del poeta

li convinsi anime pure e schiette

volte al giusto di una fantastica impresa

a desistere a volgersi – compagnia

di soldati sconfitti – verso il quotidiano

25 il famigliare quanto io più desideravo

e che già si svelava intonacato di luce.

È questa una delle liriche in cui emerge più apertamente il pensiero, che impaura, dell’allontanamento da quel mondo protettivo che Bertolucci identificava con la casa, luogo del «quotidiano» e del «famigliare», oltre il quale sono l’avventura e l’ignoto. Lo riconobbe assai bene Bernardo, commentando un verso della lirica Fuochi in novembre: «“…al limitare del campo” è là dove finisce il podere, la proprietà, ma anche il mondo che ci protegge, è il punto oltre il quale non è permesso spingersi. Sconfinare diventerebbe pericoloso. Forse mortale. Io ci ritrovo qualcos’altro. Prima di tutto una dichiarazione di poetica e di nevrosi (in mio padre le due cose sono inseparabili, e più avanti negli anni, più scaltro, inventerà l’espressione consolatoria e terapeutica di “malattia necessaria”» (ALBANO 2008, p. 4). Qui il poeta diviene stratega e mette in atto «l’astuzia persuasiva» per il ritorno, benché la risalita al Cinghio «amato», canale di confine legato all’infanzia del podere di Antognano, avvinca e incanti («l’incantagione sinuosa», v. 12), aprendo lo «scenario azzurro» delle colline, dipinto con la sapienza coloristica memore delle visioni di Wordsworth, riecheggiate nella Capanna indiana. Tutta la poesia è percorsa dal sentimento della perdita: «perduti perduta»; «assenza»; «distacco» e ancora «perdita» sono i termini di una sofferenza, che vede infranta l’unione familiare. Non a caso il componimento, dopo una prima uscita in «Nuovi Argomenti», 33-34, maggio-agosto 1973, fu pubblicato in «la Repubblica», 23 febbraio 1991, sotto il titolo I nostri giochi a lume di candela. Inserito nella raccolta dal titolo omonimo; si legge in P e in O.

CHRONIQUES MARITALES I

– Che sapete voi dei nostri giochi

a lume di candela poi che

la tempesta allontanandosi

ci ha lasciati madidi…

5 – Voglioso

io di vedere

gocce rade ormai santificare sembianze

così a lungo adorate e complici

in un effetto di luce-ombra quale

10 si ebbe forse al nostro concepimento…

Ma già vacilla per il sonno che me

non te gratifica con il suo arrivo a passi lunghi

su trampoli agitando sonagliere

ritorte e spruzzate di una neve

15 che neve non è ma quanto fregia te

ancella casta innamorata sveglia

incontaminata.

– Tu più non vedi non ascolti

la luce improvvisa della lampada l’ultimo tuono

20 che va incontro al mattino sopra picchi lontani e schiarenti…

Io non soffierò sulla candela insensata

che fila ancora per te notte e oro

perché io voglio liberare i miei piedi

da quest’erba palustre

25 raggiungere volando stanze chiare

di sereno e di nuvole brucanti

pacifiche corolle di rose devastate

rifiorenti nel nostro orto-giardino.

Il titolo rimanda all’opera Chroniques maritales di Marcel Jouhandeau, uscita per i tipi di Gallimard nel 1939, storia e indagine sulla fatalità e sull’ossessione letteraria ed esistenziale per il matrimonio. La struttura a due voci, molto musicale per la libertà del metro che si contrae e si distende fino alla misura di 17 sillabe nel v. 20, riprende a distanza di tempo il dialogo poetico tra Attilio e Ninetta; un dialogo amoroso e sensuale, che conserva la complicità e l’ambiguità che legano gli amanti, soprattutto nei versi che fanno riferimento all’orgasmo («tempesta» e «gocce rade»). Anche qui è lui, nella seconda voce, ad avviare una lunga rêverie, in cui entrano alcuni temi della sua storia di poeta: l’attesa del ritorno in carrozza, annunciato da «sonagliere», della madre da parte del bambino A. in preda all’ansia, descritta con intensità lirica nel cap. X di CL (Come nasce l’ansia); la neve dell’inverno, intrecciata, nel momento onirico, alla purezza e all’amore ancora vivo della propria donna. Sorprende tuttavia la risposta di lei, che respinge la «candela insensata», simbolo della poesia nel cap. VIII di CL (La candela e il bambino) e in altri luoghi topici del romanzo, e cerca di sfuggire a quell’«erba palustre», quel paludoso e morboso vincolo sentimentale, che l’avviluppa, per un respiro di serenità e di libertà. In controluce il tema della rinascita evoca il già citato The Burial of the Dead di Eliot: «April is the cruellest month, breeding / Lilacs out of the dead land, mixing / Memory and desire, stirring / Dull roots with spring rain» («Aprile è il più crudele dei mesi, genera / Lilla dalla terra addormentata, confonde / Ricordo e desiderio, risveglia / Oscure radici con la pioggia di primavera»; la traduzione è di E. Berti, in T.S. Eliot, Poesie, Guanda, Parma 1955). Nell’explicit, se il verso «di sereno e di nuvole brucanti» suggerisce al nostro orecchio le «pecore celesti» e «Greggi passan di nuvole» del giovanile Viaggio (S), l’«orto-giardino» ci ridona il D’Annunzio del Poema paradisiaco e il Corazzini crepuscolare dei giardini che «non più rifioriranno» (Invito). Le rose di Bertolucci, invece, saranno «devastate», ma «rifiorenti». Appena un sentimento d’angoscia per la corruzione delle cose, superata dall’unione coniugale. La poesia fu pubblicata sull’«Approdo Letterario», 79-80, 1977; in CHERIN 1980; «la Repubblica», 23 febbraio 1991; FCG, 1991; VSC, 1993 e O. In VSC questa e tutte le poesie che seguono fino a Interno notte sono raccolte sotto il titolo Chroniques maritales nella seconda sezione.

CHRONIQUES MARITALES II

– La tua gonna allungata

come vuole una moda che dà

slancio e gravità

di giovani madri a ragazze

5 altrimenti vane e le fa adultere

se trascorrono sole

nel morente sole

dell’ora legale agli sgoccioli…

– Ma tu avevi cominciato parlando

10 della mia gonna allungata…

– Non ti sarai mutata

in gelosa anche tu invulnerabile

donna della mia vita al raggio

obliquo dell’età e della stagione…

15 – Io ho amato il tuo improvviso deviare

da me a quelle che tu sogni infedeli

perdersi nei borghi umidi di Parma.

Ma continua con me

ormai che ci sfiora radente

20 l’ala del tempo e dell’età.

– La tua gonna allungata ha l’altezza lucente

di queste due palazzine sorelle

non gemelle

che intonacate di giallo e verdino

25 colmano di gioia vesperale

il cuore del cittadino.

Il ritmo cantabile accompagna il nuovo dialogo, più frivolo rispetto al precedente e avviato dal motivo della «gonna allungata» (l’elegante misura midi dell’Amore sonnifero che piaceva a Ninetta e ad Attilio) al v. 1 e ripreso in anafora al v. 21, con un gioco sapientemente descrittivo e cromatico negli ultimi versi. Al centro, in forte risalto per l’enjambement, il riconoscere che lei è «invulnerabile // donna della mia vita» e che la loro unione, sottratta alla gelosia, deve vincere il corso del tempo e della vita. È dunque riaffermata ancora una volta la durata dell’amore, appena sfiorato da un pensiero che turba. L’immagine «ci sfiora radente / l’ala del tempo e dell’età» riprende, con un tocco di maggiore malinconia, «l’ala del tempo più e più sfiora / i tuoi capelli lontani» di Per N. lontana (LC). Il realismo di Bertolucci si manifesta nell’indicazione dell’ora «legale», nel paesaggio cittadino di «palazzine», caratteristiche del quartiere di Monteverde, e in quello parmigiano, affidato a un flashback onirico («sogni»), che cita i borghi dell’Oltretorrente di Parma. Le quartine hanno al centro la rima baciata, a eccezione della quarta e della quinta, che presentando rintocchi sentimentalmente più inquieti sulla gelosia e sul tempo, sembrano perdere leggerezza per una musica più turbata. Il componimento fu pubblicato in «Paragone», XXXIII, 386, aprile 1982; in VSC; P e O.

CHRONIQUES MARITALES III

– Sei stata mia compagna di scuola

ma hai un anno meno di me

abbiamo un bambino che va a scuola

mi sono innamorato di te…

5 – Fingerò d’essere una tua scolara

che s’è innamorata di te

mi sono fatta una frangetta

per cenare fuori con te…

– Cerchiamo una locanda piccina

10 nella città ma non c’è

inventiamola affacciata sul fiume

che allevò me e te…

– Di acqua nel fiume che è nostro

ce n’è e non ce n’è…

15 – Inventerò un nuovo mese

ricco d’acqua per te…

– Che si rifletta in me

nei miei occhi

china dalla veranda inverdita

20 sull’acqua che somiglia la vita

rubandomi e restituendomi a te.

Agosto, anno imprecisato, 3 a.m.

La poesia, dialogata come le precedenti, porta la data «Agosto, anno imprecisato, 3 a.m.». A questo proposito il poeta confidò a Paolo Lagazzi (BERTOLUCCI-LAGAZZI 1997, p. 133): «Non dormivo più quando l’ho scritta, ma non ero neanche sveglio… È un po’ una canzonetta, no? Qui uso degli aggettivi, come “piccina” che di solito non uso…». Della rêverie infatti, la canzonetta di versi liberi, con rime ora alternate ora abbracciate ed epifore («me» e «te»), mantiene la dimensione del sogno a occhi aperti, essendo costituita da riferimenti alla loro storia d’amore: l’inizio sui banchi del liceo; la nascita di Bernardo; l’insegnamento; i riti amorosi; la passione per il cinema e la frangetta di Ninetta alla Louise Brooks (lettera del 16 febbraio 1934) o alla Katherine Mansfield («scrittrice con la frangetta» del cap. XXX di CL, Il capanno, v. 59); le soste desiderate nella locanda sul fiume di Parma, povero d’acque; la «veranda inverdita» della casa delle vacanze in Versilia (ancora Il capanno, vv. 80-83). Appena un velo di nostalgia si evidenzia nei versi, coniugata con il gioco della finzione, simbolo dell’arte, e con la similitudine acqua-vita, già in una delle prime poesie, Vita (S), vv. 7-9: «Come un ruscello / è mia vita, e continuamente / si disperde». Il componimento fu pubblicato in VSC; P e O.

CHRONIQUES MARITALES IV

– Posso lasciarti solo questo giorno

che non vuole morire? Io

voglio visitarlo quando il sole occidentale

tinge d’ocra il suo petto vittorioso

5 e schiarisce i suoi occhi la tristezza… Il vento suona e danza il fuoco.

Tornerò inabissatesi le torce

limpide dell’ora legale.

Mi vedrai ingrandire verso di te

bruna di notte imminente

10 rabbrividendo in uno scialle scarlatto.

– Ma tu lascerai che affondi la faccia

nella tua erba?

Che io estingua la mia sete nel tuo sonno?

Ancora un dialogo tra il poeta e l’amata, dialogo che richiama alla memoria, dopo la sospensione, il verso finale di Contrasto, evocato. La prima voce, che parla di abbandono e di ritorno sull’onda sinuosa di un cielo prima dorato e incendiato nel tramonto, poi notturno, è quella della donna. La seconda, dell’uomo, è la voce del desiderio. Di grande qualità pittorica, la poesia porta in primo piano ed esalta la bellezza «bruna di notte imminente» di lei, coniugando realtà e sogno. Il v. 10 è una variazione dal Crepuscolo del mattino, vv. 25-26: «In veste rosa e verde l’aurora, tremando, / avanzava lenta sulla Senna deserta», che il poeta confessava d’aver «rubato a Baudelaire» per rappresentare la madre: «Sarà / Maria a salutare l’alba d’estate in veste rosa e verde, / rabbrividendo». Ma qui la visione si carica di una forte carica sensuale, che si riflette nella nota coloristica dello «scialle scarlatto» che riveste Ninetta e la rende immensamente desiderabile, «bruna incantatrice», al pari della creola baudelairiana (A una signora creola, BAUDELAIRE 1975), dell’uomo lasciato solo e in ansiosa attesa. Il componimento fu pubblicato in «Paragone», XXXIII, 386, aprile 1982; in LUC; P e O.

ASPETTANDO N. ALLA SERRA

V’erano suore allegre e bianche in vista

del mare il pomeriggio d’ottobre

percorso da un vento che rianimava

i gerani disfatti dalla pioggia –

5 nella città non qui spogliatrice

di platani maculati come cani arlecchini

e come essi minacciosi facendosi notte

nell’inseguire l’uomo che si attenta

a uscire solo dalla città riunita

10 in alte stanze nel filare candente

di lampade centrali sopra il pasto

della sera che sempre è funebre –

qui dove suore ridono e si rivolgono a me

benigne sfamandomi di te che fai tardi.

Una visita alla Serra, frazione di Lerici che si affaccia sul mare, crea due momenti lirici contrapposti, l’uno descrittivo con poche note sul luogo e sul tempo, l’altro meditativo sulla città notturna, minacciosa. Il primo appare sereno, benché «i gerani disfatti» portino già il segno della corruzione, che campeggia nella visione della città «spogliatrice» e nel cupo interno serale. Si noti l’evocazione dei «cani arlecchini» (v. 6), già nel paesaggio, di ben altro segno, della giovanile Commedia della sera (FN), vv. 3-4: «arlecchini dormono / all’ombra di lucenti magnolie». Nell’explicit emerge, in continuità con la cena «funebre», l’ansia («sfamandomi») del poeta nell’attesa di «N.», ansia appena attenuata dall’allegria delle suore. Il componimento fu pubblicato in «Incognita», I, 1° marzo 1982 unito a Se ti allontani sotto il comune titolo Aspettandoti; in VSC e O.

SE TI ALLONTANI

Se ti allontani con un’amica

io sto seduto su un tronco d’albero tu

rimpicciolisci

sparisci.

5 Una chitarra suona in distanza

una giga sorda o è la danza

funebre

per la morte di un poeta…

È stato un cane nero sotto

10 neri lecci

ad azzannarlo

io sto in riposo rotto

nelle membra amorose annuvolato

nel cervello

15 perso

oh torna.

Ancora attesa e timore per l’allontanarsi di Ninetta in questo canto che celebra la «morte di un poeta», dramma interiore in cui si racchiude tutta l’ansia della perdita, già presente, con Keats, nel giovanile Sabbia. L’architettura metrica e formale corrisponde all’evolversi del sentimento, che allo «sparisci» di lei, inquadrato cinematograficamente, fa seguire il «perso» dell’amante, fino all’invocazione dell’explicit, che tutto racchiude ed esprime. Il colore nero del cane, forse rimembranza dell’Autoritratto con il cane nero di Courbet, e dei «lecci» rappresenta l’incubo e le fantasie negative del cuore angosciato. Il componimento fu pubblicato come il precedente in «Incognita», I, 1° marzo 1982; in VSC; P e O.

SCAMBIO DI DONI UN’ESTATE A CASAROLA

Ti ho donato la camiciola color arancia

che mi avevi donato e che portavo

raramente e con molto imbarazzo.

Sulla tua pelle brunita

5 sta a meraviglia dandole chiarore

sulla tua gonna s’accorda

come fa la bordatura leggera

aggiunta dall’imbianchino nel giro

della stanza per illuderne l’altezza

10 sul fondo della parete volta a sole e nevi

che altri occhi ma nostri

feriranno di luce.

Mi esalta e mi turba che ci possiamo scambiare

un indumento come fanno

15 sorelle di età e di taglia vicine.

Io non voglio sapere con quanta innocenza

tu accetti questa confusione

degna nei loro giovani anni di Juliette e Justine.

La musica del verso, affidata al metro libero, a ripetizioni («donato… donato»), allitterazioni e anafore («Sulla… sulla… sul»), introduce una situazione realistica, subito mutata: in eccitazione e turbamento; nell’affacciarsi della memoria involontaria; in un gioco tra innocenza e perversione filtrato dai nomi delle protagoniste, l’una virtuosa l’altra prostituta, dell’opera del Marchese de Sade Histoire de Juliette, ou les Prospérités du vice (Juliette, ovvero le prosperità del vizio). La pennellata del poeta è cromatica e sensuale nell’accostare la pelle abbronzata di Ninetta al colore della «camiciola», ma ancora una volta egli, rievocando l’imbianchino che dipinse le stanze di Casarola e che nobilitò negli Imbianchini sono pittori, manifesta la pena dell’essere lontano dalla casa amata. Allo sguardo della coppia «sole e nevi» non si apriranno più, mentre accoglieranno, confortando, quello dei figli («altri occhi ma nostri»). Un’eco dall’Ennemi (Il nemico) di Baudelaire: «un ténébreux orage, / Traversé çà et là par de brillants soleils» («un’oscura tempesta / traversata qua e là da soli risplendenti»), piegata al pensiero del passare del tempo, si coglie nell’immagine di luce dei vv. 11-12. Nella lettera del 3 giugno 1935 entra il particolare della «camiciola color arancia»: «sono le undici, piove, davanti ai miei occhi, sul muro ci sono i burattoni, e B e N sul fieno: N ha la camicia color arancio». Si conferma ancora il carattere evocativo della poesia di Bertolucci. Il componimento fu pubblicato in «Nuovi Argomenti», 23-24, luglio-dicembre 1971; in «Millelibri», II, 9 agosto 1988; in VSC; P e O.

PEZZO SEMPLICE

Non vende che rose

bruna rosa infiammata

ragazza di calza smagliata

che m’ha guardato negli occhi

5 sino a farli abbassare.

Diciassette anni e una sedia

di vimini semisfondata

ora di colpo s’è alzata

per spegnere le sue rose

10 con secchi d’acqua azzurrina.

Per chi le compro per te

per lei che s’è illuminata

all’improvvisa fiammata

dell’accendino insieme

15 fumando e scegliendo le rose?

Il ritmo variato di settenari, ottonari e novenari, le rime baciate e le epifore, che sottolineano l’immagine delle «rose» intorno a cui si strutturano i versi, donano musicalità lieve e cantabile a questa lirica, ispirata da una giovane fiorista, che offriva le sue rose sulla strada vicino alla casa romana di via Carini. Il poeta dipinge un esterno tra concretezza del reale (si notino i particolari: la «calza smagliata»; la «sedia / di vimini semisfondata»; i «secchi»; l’«accendino»), vivace e plastico primo piano ed emozione, chiudendo con un’interrogazione, che mette a nudo la duplicità del sentimento, diviso tra omaggio a Ninetta e turbamento dinanzi alla giovinezza piena di luce della fanciulla. Il componimento fu pubblicato in «Nuovi Argomenti», 27, maggio-giugno 1972; in VSC; P e O.

LA SEDUTA DI AGOPUNTURA

o è una scena di Justine? Tu stai

ferma le spalle nude abbronzate

dal sole dell’Appennino ormai

preautunnale io ricordo che rimandavi

5 il sonno delle due pomeridiane

benefico alle tue tempie delicate –

strette come nelle miniature d’Irlanda –

per profittare dei suoi ultimi raggi.

E ancora il tuo assoldato carnefice ragiona

10 e ragiona con me del Terzo Libro del Capitale

Ma il dolore passa presto tu stai

quieta dolce infitta se non esce

sangue non importa alla pupilla innamorata

basta l’argento delle frecce sul bronzo dell’amata.

Un’occasione di vita quotidiana come una «seduta di agopuntura», alla quale si sottopone Ninetta, rinnova l’ambiguo rapporto tra innocenza e perversione, propri della Justine del Marchese de Sade, già presente in Scambio di doni un’estate a Casarola. Il ritratto dell’amata è disegnato attraverso alcuni particolari: l’abbronzatura delle spalle, l’amore per il sole, l’emicrania, che permette una pennellata in direzione raffinata e decorativa grazie al confronto con l’arte delle miniature irlandesi, confronto che fa risaltare, una volta di più, la sapiente cultura d’arte di Attilio. Apparentemente estraneo appare il poeta, impegnato nella conversazione sui processi capitalistici, ma ancora una volta, allontanando l’orrore del sangue (ma si noti che l’operatore è trasformato in «assoldato carnefice»), fa di lei una dea, mitizzandola. Le spalle abbronzate sono la corazza bronzea di Afrodite e gli aghi divengono le frecce argentee di Eros. Analogo passaggio alla poesia della “lode” di N. avviene in diversi luoghi di CL; nel cap. XXXVII (Dove i tigli fiorirono nel mese sonnambulo) torna l’accostamento delle «tempie delicate – / strette» ai volti delle miniature merovinge: «lei gratificata da una fiera salute / eppure tanto vulnerabile, nella tempia stretta, merovingia, / dagli assalti dell’emicrania» (vv. 24-26). Il componimento fu pubblicato in «Paragone», XXXIII, 386, aprile 1982; in «Vanity Fair», aprile 1991; in VSC; P e O.

LA LEZIONE D’INGLESE

Non voglio conoscere non voglio vedere

il tuo tutor di conversazione inglese

che arriva nel tardo mattino d’inverno

tinto della falsa porporina del sole di Roma.

5 È Lia che gli apre forse maliziosa forse

imparentata con le nutrici e serventi

italiane dello Shakespeare veronese del Ford parmigiano.

Io covo il mio 37°2 influenzale

eroicamente portato come un vessillo

10 e arrotolato in un angolo del tinello

pronto a venir dispiegato dinnanzi a te

ai tuoi occhi ingenui e felici

dei progressi in una lingua che lui

ti apprende usando il dialogo di Pinter

15 forse ignaro del mio Edward Thomas di semine e di ortiche.

Un’altra occasione domestica, della quale è attrice Ninetta, suscita gelosia e desiderio di essere accolto dal suo affetto. I rialzi di temperatura, come sappiamo dalle lettere, da altri scritti e dalla sua biografia, hanno accompagnato l’esistenza di Attilio; ma questo rialzo, sbandierato «come un vessillo», ricorda momenti di grande tensione, che si verificavano nell’attesa di un film desiderato (esemplare il mancato arrivo al cinema Edison di Aurora di Murnau) o durante una proiezione cinematografica. Lia era la domestica di casa Bertolucci, qui nominata come accade per altre figure femminili, bambinaie o governanti che si presero cura dei bambini o della casa, inserite in alcune sequenze di CL. Ma se da un lato il poeta lavora i suoi versi con tocchi tratti dal vero quotidiano, dall’altro, con «colpi da petit maître», secondo Garboli, e con ironia sottile rivela la cultura teatrale di cui si è nutrito, citando qui le tragedie Romeo e Giulietta di Shakespeare e ’Tis Pity She’s a Whore di John Ford, ambientata a Parma. Non solo. Al dialogo del commediografo inglese Harold Pinter, su cui la moglie si esercita, contrappone con lieve sorriso le sue versioni, pubblicate nel 1957, di alcune poesie di Edward Thomas (La semina; Le ortiche), autore che definì «uno dei più cari» della «dolce Inghilterra rurale». Alternando quartine a terzine e creando ripetizioni, anafore, allitterazioni, enjambement, fa emergere questa mediazione culturale nei vv. 7 e 15, lunghissimi e distesi. Il componimento fu pubblicato in VSC; P e O.

INTERNO NOTTE

Sto al buio ma c’è

luce nell’altra stanza

in cui ti muovi e crei

ombre sul muro beffardi

5 conigli giganti

sparvieri.

Non mi è dato raggiungerti

in paesi dove luce

e moto sono possibili

10 dove un frigorifero viene

aperto e chiuso

con un tonfo vitale

che non mi appartiene più.

Tu continua a mimare

15 la commedia serale

nella maniera dell’estraniamento

io dalla buia platea

lascerò che tu spenga

uscendo dalla comune.

20 Allora accenderò plaudendo

e piangendo. O ridendo.

In una delle liriche più tragiche, strutturata intorno ai lemmi «buio», «luce» e «moto», il poeta esprime l’inconciliabilità tra due modi di vivere, l’uno attivo e costruttivo, l’altro passivo e statico. Usando il linguaggio teatrale in questa rappresentazione, egli si dice spettatore di una ferialità, che non gli appartiene più: il muoversi di lei, il «tonfo» della porta del frigorifero, i gesti consueti, portano il segno della vita, ma creano minacciose ombre per chi, estraneo e solo, avverte «finzione» e distacco, abbandono. Non resta, dopo l’uscita di lei dalla scena, che una luce implacabile su un personaggio sentimentalmente sconfitto. Il componimento fu pubblicato in «Nuovi Argomenti», 27, maggio-giugno 1972; «la Repubblica», 23 febbraio 1991; FCG; VSC; P e O.

ANCORA IL TAGLIO DEI RICCIOLI

Non dimenticherò Vittoria Apuana mai più mai più

dove caddero i riccioli sulla scacchiera bianca e nera –

così perde la prima verginità il maschio a tre anni

ne è costernato il padre consente benigna la madre –.

5 Poi ti presi per mano il dolore ci univa

e isolava nel sole ancora mattutino

bambino quieto carico di consapevolezza lungo

il mare vegetale che separa l’Albergo Alpemare

dalla litoranea. – Eravamo diretti alla no man’s land

10 dove maturano more dolci sino al disgusto –.

È possibile dimenticare il profumo dei pini e la rena

che ci imbiancava sandali e cigli?

La memoria involontaria, che attraversa gran parte della poesia di Bertolucci rinnovando il passato perduto nel presente delle epifanie, lascia qui il posto a un tragico incipit, denso di negazioni definitive (si osservi dopo il «Non» iniziale la ripetizione «mai più mai più»), e al ricordo di un momento della vita del piccolo Giuseppe, «tonduto quasi / a tradimento contro di me nella chioma castana» (così dicono i vv. 23-24 di Frammento escluso da «La camera da letto») durante una vacanza estiva in Versilia. Per il padre significa la fine dell’infanzia, il principio dell’età adulta, non per la madre Ninetta che «consente benigna» e alla quale forse e serenamente si deve la decisione. I riccioli che cadono su un pavimento a scacchi, freddo nei colori nitidi (pensiamo come a un possibile modello, di altro segno, «il lustro pavimento a quadri» accarezzato dalla luce della Donna che scrive una lettera di Vermeer), sono causa di turbamento e pena, per la possibile «castrazione (naturalmente simbolica)» che il bambino subisce. Per il figlio, che commenterà questa poesia anni dopo, il padre «proietta tutto il suo personale sgomento di fronte alla tragedia del tempo che passa. Quell’uomo, travolto dall’ansia, cerca di rassicurarsi, di aggrapparsi a una consapevolezza di cui grava il piccolo Giuseppe, quasi che il delirio infantile dell’adulto riuscisse a placarsi solo nella quieta, consapevole rassegnazione del bambino» (BERTOLUCCI G. 2011, p. 17). Eppure, nella sequenza che unisce nel dolore e nell’affetto («ti presi per mano») i protagonisti, l’arte sublime di Attilio modella un esterno intriso di sentimento e vibrante di poesia pittorica, che placa e conforta. La famiglia Bertolucci era in vacanza a Vittoria Apuana nel luglio 1950. La «terra di nessuno» verso cui padre e figlio erano diretti è citazione del titolo dell’opera teatrale di Harold Pinter, rappresentata all’Old Vic di Londra nel 1975 e al Teatro Metastasio di Prato nel 1976 con la regia di Giorgio De Lullo. Il componimento risale al tempo del cap. XLV (Il taglio dei riccioli) di CL, composto nel settembre 1980 nello stabilimento balneare Eco del Mare di Fiascherino, o è di poco posteriore, come si nota dall’Ancora del titolo; venne pubblicato in LUC; P e O.

NOTA TARDA E FORSE INUTILE A
«PAGINA DI DIARIO» (1934)

«Dove ci porta questa strada di gaggìe polverose

in leggera salita e tante curve, frequentata da nessuno

nell’ora persa delle quattro pomeridiane? Ma ecco

all’improvviso, affacciarsi sulla via soleggiata,

5 ostentando una buffa insegna, non la solita coppia

sonnolenta di cani in una

simulazione di falsa veglia e guardia, ma due

burattoni colorati, lustri dei loro rossi e verdi

e azzurri e neri infernali (anime di umani,

10 lui e lei, tralucendo dagli occhi maliziosi e ammiccanti?)

un albergo.

Se fosse la prima volta… È come

se lo fosse in terra sconsacrata

e in luogo dedicato venalmente all’amore…

15 Entriamo evocando dall’ombra di un sottoscala

o altro pertugio impregnante odore di muffa

su chi debba trovare rifugio per fumarvi una sordida sigaretta,

un cameriere che senza una parola ci introduce, quasi ci spinge,

in una stanza vuota, tagliata a metà dalla luce del sole declinante.

20 Questa è la parte a ponente della casa,

calda ancora di defunti tramonti estivi,

ideale per la mezza stagione, senza

necessità di un fuoco per il calore

immagazzinato dalle pareti.

25 Non è, ringrazio in silenzio guardandoti,

non è la camera da letto dei clandestini,

è una riservata sala da pranzo

con qualche sedia, una tavola addobbata

da una coperta amaranto, impressa di bicchieri,

30 bruciacchiata da sigarette. Mi propone

del vino bianco come se si trattasse di un filtro o di una droga,

accetto ridendo guardo lei che mi guarda

calma.

Voglio berlo, ci è stato assegnato

35 per il rito da un liso sacerdote

che non vogliamo contrastare. È giusto

che il nostro amore si confonda ormai

con i molti che hanno divampato in questo

quieto santuario offerto

40 a Venere da una gente sensuale e triste

che già allevò Rufa in anni lontani.»

Questi versi, espunti da CL e pubblicati isolatamente, descrivono la gita fuori porta a Bologna e la sosta di Attilio e Ninetta all’albergo «Fontanina», già oggetto della lieve e sorridente lirica Pagina di diario, composta nel 1934 e pubblicata in FN. Le virgolette che li racchiudono indicano che il frammento corrisponde a un flashback epifanico e a una memoria interiore, che dopo tanti anni risorge riportando al presente il lontano incontro d’amore. L’andamento narrativo, che si avvale del verso lungo o lunghissimo, cadenzato da versi brevi, ma tali da far risaltare un particolare, ora l’«albergo» ora il comportamento composto e tranquillo dell’amata (definita «calma»), ci conduce a completare quel luogo e quei sentimenti, che furono parte dell’avventura sessuale dei due giovani fidanzati. I due «burattoni colorati» dell’insegna dell’albergo sono rievocati anche nelle lettere, in particolare nel messaggio del 22 maggio 1935: «non sono nella mia stanza di Baccanelli con i due quadri (la piccolina sta con la camicetta rossa e “Amore” con i due burattoni»). L’interrogativa iniziale introduce al posto sconosciuto (e si noti il rapido schizzo sulle «gaggìe», presenti in altri luoghi paesaggistici), ma attraente durante la passeggiata pomeridiana lungo la via «soleggiata». Pittore d’esterni e d’interni, qui delineati con gusto coloristico e pittorico, Bertolucci trasforma l’incontro d’amore in un rito tra il religioso e il magico (il cameriere e il vino proposto «come se si trattasse di un filtro o di una droga»), salvandone però la purezza in un edificio destinato agli amori clandestini, sottolineati dalla citazione finale dal carme 59, v. 1 («Bononiensis Rufa Rufulum fellat») di Catullo. Il componimento fu pubblicato sulla rivista «Il Girasole», maggio 1985, col titolo La Fontanina; in LUC; P e O.

I NOSTRI CORPI

I nostri corpi, cara, in questo letto

famigliare nell’aria ferma dell’amore

mentre al di là delle finestre chiuse

le stagioni piangendo se ne vanno.

5 Ma il ritorno dei cieli nuvolosi

e fioriti della tarda primavera

ombrerà i muri la luna errando

sperse lucciole sulle nostre salme.

L’amore coniugale nella protezione della camera è, in queste quartine di versi endecasillabi, unica difesa nei confronti della fuga delle stagioni, alle quali la personificazione, che si riconosce nel «piangendo», trasferisce la pena e la sofferenza dell’animo, che il ritorno della primavera non attenuerà. Il vero naturale è qui memore dei pittori impressionisti, in un quadro che si chiude sull’immagine erotica della spossatezza degli amanti. Tornerà in CL, nel cap. XXXV, Viole peste, vv. 45-49: «le notti del dicembre nevoso / di Parma si trasmutano / in estive per i nostri corpi disfatti – / le nostre abbandonate / salme –». Il termine «salme» per «corpi» è arcaico e poetico, ma non si può escludere un velo d’ombra suggerito dalle «lucciole», se si pensa alla «lucciola morente» della poesia giovanile Come lucciola allor ch’estate volge (FC). Il componimento, composto negli anni Quaranta, fu pubblicato nella sezione Teneri rifiuti di VSC; in P e O.

IO PENSO A VOI

Io penso a voi che vedeste con me

questo secolo farsi in tanti giorni

tutti belli al cuore violento

del bambino e al suo occhio sensibile,

5 e degni poi del pianto adolescente,

della meditazione giovanile,

del primo rassegnarsi all’età quieta

nel raggio della lampada domestica.

Io penso a voi, oggi, per consolarmi,

10 come ci si chiama e interroga nel buio

della notte.

Così vi chiamo e interrogo

nel buio del secolo che muore.

Sul tramonto del Novecento e della sua vita nascono questi versi, dolenti e severi, ricolmi di affetto per i figli e di profonda conoscenza delle stazioni psichiche, che essi hanno attraversato e che lui ha attraversato. Al centro torna la luce della «lampada domestica» (v. 8), cuore della famiglia e simbolo dell’amore materno e della propria poesia, che ha privilegiato l’intimità e il quotidiano all’interno di una visione vasta della natura e del tempo umano. È questo un addio ed è un’invocazione all’amore, unico conforto al «buio» dell’esistenza. Questi versi, composti nel 1995 e rimasti inediti, furono pubblicati in PALLI BARONI 2004 e in FC.