Quando nacque, suo padre era in galera. Furto di elemosine presso la chiesa prepositurale di Bellano. Era stato beccato dallo scaccino Bigè alle sei di una piovigginosa mattina di metà ottobre. Per mettere in atto il furto Beppe Manera, detto «Animalunga» per via dell’altezza, aveva infatti approfittato dell’ufficio funebre celebrato alla memoria di Gaspare Benincerti, fotografo-ritrattista, che s’era celebrato la sera avanti: era entrato in chiesa confondendosi tra la magra folla dei parenti ma si era fermato subito, a lato del fonte battesimale. Quindi s’era accucciato tra gli ultimi banchi e s’era lasciato chiudere dentro. Senza nessuna fretta aveva atteso che il sagrestano suonasse la dirlindana, alle dieci meno dieci. Aveva lasciato passare un’altra mezz’oretta, tanto per stare tranquillo. Poi s’era messo al lavoro. Con comodo aveva ripulito, scassinandole tutte da sotto, le cassette per le elemosine: quattro. Visto che di tempo ne aveva in abbondanza, s’era dato da fare con la quinta, quella posizionata lungo il corridoio centrale, che raccoglieva le offerte per le missioni. Aveva messo insieme un sacchetto di monetaglia e solo dopo, felice come una pasqua, s’era chiesto come fare a uscire. Aveva preso tempo, non se l’era cacciata più di tanto. Visto che era notte fonda e cominciava ad avere un po’ di sonno, s’era sdraiato su una panca con l’intenzione di fare un sonnellino e aspettare i consigli della notte.

Alle sei del mattino lo scaccino Bigè l’aveva trovato addormentato come un vitello. Non l’aveva nemmeno sfiorato l’idea di svegliarlo e chiedergli cosa facesse lì. Aveva invece tirato giù dal letto il maresciallo Menabotti. Il quale, col malumore che accompagnava sempre le sue levate mattutine, aveva dato la sveglia al Manera facendogli cadere in faccia il sacchetto con la monetaglia. Il Menabotti era a Bellano da parecchi anni e non era di animo cattivo. Era solo fatto così, gli ci volevano un paio d’ore al mattino prima di rientrare nel suo solito carattere, e chi lo sapeva ne teneva conto. Conosceva bene i suoi polli, tra i quali il Manera, nei confronti del quale più di una volta aveva chiuso un occhio, a volte due, avvisandolo di cambiare strada. Quella volta non c’era stato niente da fare, aveva dovuto procedere come da regolamento.

«Quando capirai che tu non sei e non sarai mai un ladro, ma uno scemo, sarà sempre troppo tardi», gli aveva detto accompagnandolo in caserma.

S’era beccato sei mesi. E gli era andata bene, perché il signor prevosto non aveva voluto infierire. Conosceva la situazione del Manera, sapeva che stava per arrivargli un figlio in casa. Quindi aveva sorvolato sui danni materiali e, per bontà d’animo, s’era permesso di dire due parole al signor pretore: fatta salva la necessità della pena, gli aveva chiesto di condannare il Manera a scontare la stessa presso le carceri mandamentali del paese, così che il carcerato potesse godere della vista del nascituro. Il pretore s’era lasciato convincere dalle parole del sacerdote e non aveva mancato di far notare al Manera che, nonostante non se lo meritasse, lo stava trattando con un certo riguardo. Per tutta risposta l’Animalunga aveva scrollato le spalle e s’era rivolto ai pochi curiosi che avevano assistito al processo con uno sguardo sprezzante, da duro, imparato al cinema.

Il piccolo era nato nel febbraio 1959. Un mese di tivanaccio freddo e teso, di gelo. Il lungolago era impercorribile poiché l’acqua portata in aria dal vento non appena cadeva a terra si trasformava in ghiaccio. Era uno spettacolo vedere i platani del lungolago ornati da stalattiti che si moltiplicavano a vista d’occhio oppure guardare la furia del vento che mandava a sfracellarsi le onde contro le murate del molo. Uno spettacolo naturalmente per chi poteva goderselo dal chiuso, e al caldo, della propria casa. Nonostante ciò Sbiaditi Venera in Manera, la madre, tre giorni dopo il parto era uscita di casa col fagotto in braccio per mostrarlo al legittimo padre. Forse pensava di poter entrare nella cella di suo marito come se andasse a trovare un parente o un ricoverato all’ospedale.

Invece il Cassamano, custode delle carceri, non l’aveva lasciata passare. Con calma, e usando il gergo col quale abitualmente parlava coi carcerati, aveva spiegato alla Venera che lui lì non contava una mazza, insomma era l’ultima ruota del carro. Ci volevano carte, timbri e firme per fare visita ai detenuti.

Al detenuto, anzi, perché al momento dentro le carceri mandamentali c’era solo l’Animalunga. La Venera aveva ascoltato le spiegazioni del Cassamano ma non s’era scoraggiata. Dalla piazzetta antistante l’edificio, le spalle rivolte alla chiesetta di Santa Marta, aveva chiamato il marito. Aveva dovuto farlo più volte poiché il Manera se la stava dormendo della grossa. Infine, quando la voce della moglie gli era finalmente entrata nelle orecchie strappandolo al sogno di una secolare rapina, aveva aperto gli antoni di legno, si era affacciato e, le mani aggrappate alla griglia, aveva guardato verso la piazzetta. La ventata di freddo che l’aveva colpito in viso gli aveva fatto venire voglia di chiudere immediatamente e ritornarsene sulla pancaccia. A fermarlo era stata la suggestione di un pensiero dettato dalla musica fischiante di quel vento che continuava a soffiare, come se avesse avuto l’ordine di portare altrove, uno alla volta, tutti gli abitanti del paese: lui, unico ospite delle carceri mandamentali, l’ultimo maschio rimasto nel paese e quella lì sotto, nella piazzetta, ferma immobile come se il ghiaccio se la stesse prendendo a partire dai piedi, l’ultima donna, che era sua moglie.

La Venera aveva inconsapevolmente approfittato della scombinata fantasia di suo marito e aveva alzato verso di lui il figlio. Il Manera aveva visto solo un fagotto di stracci. Poteva esserci di tutto dentro lì, anche un bambolotto. Tuttavia aveva avvertito l’obbligo di chiedere qualcosa. Poi avrebbe chiuso gli antoni e sarebbe ritornato a dormire.

«A chi somiglia?» aveva chiesto allora.

La Venera aveva avuto un momento di imbarazzo. Le dispiaceva correre il rischio di offendere suo marito, ma i vicini di casa cui aveva mostrato il neonato non avevano mostrato dubbi: tutto sua madre.

«Dicono a me», era stata quindi la risposta.

E nei mesi successivi la previsione si era confermata. Non solo nel sembiante, bianco slavato, come se nelle acque materne ci fosse stato del bicarbonato. Anche nel carattere che si era, pian piano, andato a svelare. Il piccolo aveva gli stessi occhi azzurri della madre e, tranne quando dormiva, li teneva spalancati, muovendoli incessantemente qua e là come se stesse cercando qualcosa che non riusciva a trovare.

I sogni, pensava la Venera. Suo figlio cercava con gli occhi quello che nel mondo non c’è. E lei si incantava a guardarlo in quei momenti senza poter fare a meno di sperare che dentro quel corpicino ci fosse un cuore romantico.

«Forse il cuore di un poeta!»

O di un pittore!

A quelle uscite della moglie il Manera, che nel frattempo aveva finito di scontare il suo debito con la giustizia, reagiva bruscamente.

Gli sembrava disprezzabile che un figlio, maschio e perdipiù suo, potesse diventare uno svagato sognatore. La vita era una cosa dura e i sogni non avevano mai riempito la pancia di nessuno. Dimenticava un particolare: che di quello stesso carattere svagato, romantico, sognatore, lui aveva largamente approfittato per abbindolare quella che adesso era sua moglie.

Ragazza di contrada, la Venera. Smorta come una gamba d’asparago e schiva come un animale selvatico, già quindicenne s’era sentita disposta a tutto pur di abbandonare gli angoli umidi e bui della sua infanzia. I fotoromanzi, di cui era una feroce consumatrice, avevano alimentato in lei l’idea che nella vita c’erano ben altri panorami, difficili da contenere in un solo sguardo, orizzonti dove tutto finiva bene. Così era caduta nella trappola del Manera, che se l’era giocata come se fosse stata la posta di una scommessa.

Tutto era partito la sera di un giovedì grasso quando il Manera insieme coi suoi pari aveva tirato tardi all’osteria del Crachen. Difficile dire quale, tra i sette o otto della compagnia, fosse il più alterato. In ogni caso il discorso era come sempre andato a finire lì. Uno aveva tirato fuori un proverbio circa le donne smorte. Un secondo ne aveva fatto un breve elenco. Un terzo, infine, aveva nominato la Venera e, nonostante la lingua incatenata, aveva affermato che avrebbe pagato una settimana di bevute a chi l’avesse incastrata. A quel punto l’Animalunga s’era sentito preso in mezzo, punto nell’orgoglio. Pure lui incartato dal vino bevuto, aveva giurato, sotto gli sguardi sbrindoli dei soci, che la ragazza in oggetto sarebbe stata sua. Era sembrata una cosa da ubriachi, invece no. Dal giorno seguente il Manera aveva cominciato una manovra di accerchiamento che non aveva conosciuto soste. L’aveva appostata quando usciva di casa per la spesa. Aveva finto di incontrarla come per caso, offrendosi di aiutarla a portare la borsa. Approfittando delle opportunità le aveva raccontato dei progetti che aveva in mente per il futuro. Mettere su un garage, aprire una pompa di benzina, anche fare l’autista pubblico, il tassista, se solo avesse avuto una macchina di proprietà. Non escludeva nemmeno l’idea di andare via da quel pezzo di mondo, per cercare fortuna altrove, mettendo a frutto la sua buona volontà. Alla Venera, a un certo punto, era sembrato di essere finita in un’inquadratura dei fotoromanzi che la accompagnavano giorno e notte. Quando poi il Manera gli aveva zifolato nelle orecchie che covava l’idea di fuggirsene dal lago e andare ad aprire qualche attività fronte mare, alla Venera erano cadute tutte le difese. Finalmente, era stato il suo pensiero, aveva trovato l’eroe che sino ad allora aveva sempre e solo visto in fotografia. Di fronte a quell’idea non aveva avuto più dubbi. S’era bevuta tutta d’un fiato i sogni di gloria, balle belle e buone, del Manera, che, a un certo punto, giudicata matura la faccenda, le aveva chiesto la prova d’amore. Lei gliel’aveva data, la prova. Dietro il portone di casa di lei. Col risultato che, diciottenne, c’era rimasta. Il Manera, ventunenne, s’era preso le sue belle responsabilità, non era riuscito a schivare il magro altare delle nozze. Magro davvero per le anemiche doti che le due famiglie erano riuscite a mettere assieme: c’erano voluti parecchi incontri e altrettante discussioni – lesinate a un centesimo alla volta – per trovare ai novelli sposi una casuccia di contrada, dove il sole entrava per onore di firma e l’umidità invece pagava il prezzo maggiore dell’affitto.

Maritata la Venera l’Animalunga aveva probabilmente pensato di aver esaurito il suo compito, fatto il dovere: infatti dal giorno seguente il matrimonio era tornato a essere quello che era sempre stato, non aveva temuto di dichiararsi per il lazzarone che era. Dormite a strascico, lavori sempre lì da venire, che la Venera aspettava come quel sole che in un amen illuminava e subito dopo scuriva la cucina dove passava la maggior parte della sua giornata.