Nel 1968 Manuele compiva nove anni. Suo padre, intanto, pagava il pegno dell’ennesima malattia, una rissa in cui era stato coinvolto in un locale dalle parti di Colico nel corso della quale aveva esibito, senza usarlo, un coltello. E Venera aveva cominciato a capire che la finzione non poteva durare ancora tanto. Per quanto fosse cresciuto sino ad allora a pane e balle, il Manuele avrebbe prima o poi aperto gli occhi e le orecchie alla vita e le sue bugie non avrebbero più potuto salvarlo dalla meschina verità. Per preservarne l’innocenza non c’era via di scampo: suo marito doveva finalmente trovarsi un lavoro vero, serio, onesto. E, visto che mancavano ancora due mesi alla «guarigione del papà», aveva deciso di vincere la sua proverbiale riservatezza e di rivolgersi a chi avrebbe potuto darle buoni consigli: i maggiorenti del paese, sindaco e prevosto, erano stati i suoi primi interlocutori. Il colpo di fortuna era arrivato proprio grazie a quest’ultimo. Infatti, mentre saldava il conto mensile per la fornitura di bibite per l’oratorio, il sacerdote aveva ricevuto da Gino Gaggia, lecchese e grossista di bevande, vini e liquori, la confidenza che intendeva espandersi sul territorio ed era quindi alla ricerca di rappresentanti svelti di lingua ed esperti della zona, gente che conoscesse come le proprie tasche bar, osterie, trattorie e quant’altro. Chi meglio di lui poteva dargli indicazioni in proposito?

Nella mente del prevosto il nome del Manera era scoccato come un fulmine, ma aveva frenato la lingua, per soppesare i pro e i contro. Quale conoscitore di bar e osterie della zona ce n’erano pochi in grado di batterlo. La parlantina non gli mancava, incantava anche i cavedani. Ma poteva raccomandarlo? In prima battuta s’era risposto no. Ma, in tutta coscienza, se non l’avesse fatto avrebbe forse sottratto al Manera una preziosa occasione per riscattarsi dalla sua vita precedente e offrire pace e tranquillità alla sua tribolata famiglia. Vinto e soprattutto convinto da tale considerazione, aveva dato aria alla lingua e svelato il nome che era andato a finire su un calepino del Gaggia. Questi era uno pratico e non aveva perso tempo. Saldati i conti col prevosto era andato a casa del Manera. Per le note ragioni non l’aveva trovato. La Venera s’era ben guardata dal dire in che tipo di albergo fosse ospitato in quel momento suo marito. Aveva mentito senza arrossire dicendo che in quei giorni si trovava in Valtellina, muratore cottimista, e rientrava a casa solo durante il fine settimana. Pochi giorni ancora, però. Poi il lavoro sarebbe finito. Quindi aveva accettato per procura l’offerta del Gaggia.

Quando il Gaggia era uscito dall’abituro del Manera, la Venera s’era appoggiata alla porta di casa provando due sensazioni opposte, senza capire quale fosse la più intensa: se la gioia di aver finalmente trovato un lavoro stabile a suo marito o la paura di comunicarglielo. S’era presa qualche giorno per riflettere sul quando e sul come visto che mancava ancora una settimana alla scarcerazione dell’Animalunga e, sempre blandendo il piccolo Manuele con le solite balle sulla malattia del papà, non era arrivata a nessuna decisione. Subito, quando il Manera aveva fatto ritorno a casa, non aveva osato dirlo. Mentendo anche a sé stessa, la Venera s’era detta che bisognava concedergli tempo per riadattarsi alla ritrovata libertà. D’altra parte il Gaggia aveva richiesto di incontrare suo marito il prima possibile: si fidava del prevosto neh!, aveva detto, ma si riservava il diritto di pesare e misurare da sé i propri dipendenti. Il tempo premeva e non faceva sconti, questo la Venera lo comprendeva bene, soprattutto quando pensava a suo figlio, che avrebbe voluto mantenere per sempre bambino e innocente e invece cresceva giorno dopo giorno.

Quindi aveva aspettato che venisse sera, l’ora di cena. E sperando, per una volta, che suo marito tornasse a casa dopo il rituale giro delle osterie – le «chiese» le definiva lui – alterato al punto giusto, in modo di trovarlo malleabile. Destinaccio o disdetta che fosse, il Manera era tornato a casa puntuale come raramente gli era capitato e soprattutto sobrio. Alla Venera era toccato rinviare, temendo scenatacce. Aveva ancora aspettato. Che Manuele andasse a letto. Che si addormentasse, cosa della quale si era assicurata andando ad ascoltarne il respiro tranquillo un paio di volte. Poi aveva ancora aspettato che loro due si coricassero. Infine, prima che i ruggiti leonini di suo marito si levassero nel silenzio, a segno che era piombato nel sonno, sentendosi protetta dal buio della stanza e con gli occhi rivolti, più che al soffitto, all’alto dei cieli affinché l’aiutasse, aveva sparato la novità. L’Animalunga stava già riflettendo su come impegnare la giornata seguente. Alle parole della moglie aveva subito reagito bruscamente, levandosi a sedere sul letto.

«Che diavolo di lavoro?» aveva chiesto. Ma col tono di chi avrebbe rifiutato comunque.

La Venera, sempre forte per il buio, aveva capito che ormai il più era fatto. Con le mani incrociate sul petto come se fosse già morta gli aveva spiegato di cosa si trattava. Alla fine, dopo aver comunicato che il Gaggia lo aspettava di lì a pochi giorni nel suo ufficio lecchese, aveva taciuto, in attesa. Il silenzio che ne era seguito era stato interrotto solo dalle unghie dell’Animalunga che si stava grattando la pera. Rifletteva. Quando l’irritante rumore di grattamento era scemato, la Venera aveva compreso che suo marito s’era convinto. Aveva valutato per bene l’offerta e aveva capito che un’occasione del genere per mettere a frutto tutta la sua abilità non gli sarebbe mai più capitata: andarsene in giro per locali con tanto di motoretta fornita dalla ditta, imbonire di balle sulle qualità di questo o quel prodotto osti e trattori e magari anche qualche bella brunetta o biondina… anche, perché no?, avere la possibilità di mettere a segno qualche colpetto dei suoi, fare la cresta sui prezzi, bere gratuitamente, recitare la parte dell’uomo d’affari… una pacchia, altro che dire no!

«Va bene», aveva risposto, senza aggiungere altro, girandosi sul fianco e cominciando, come suo solito, a russare come un trattore.