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A quei tempi il West End di Londra era diviso in distretti residenziali distinti, dove niente era casuale. La personalità di ciascuno sembrava fissa, come determinata da qualche Legge immutabile dell’Universo. I più ricchi e alla moda vivevano a Mayfair, Belgravia, Park Lane; gli artisti, i letterati e i bohémien gravitavano verso Chelsea o anche Bloomsbury; Hampstead, Hammersmith e St. John’s Wood erano riservati alla borghesia, mentre le imponenti palazzine londinesi dei più vari signorotti, cavalieri, baroni e baronetti si trovavano a Kensington, Paddington, Marylebone e Pimlico.

Noi appartenevamo all’ultima categoria. La nostra enorme casa a sette piani al 26 di Rutland Gate, Kensington, esprimeva comodità e praticità piuttosto che eleganza. C’era perfino un ascensore che aveva fatto installare mio padre e del quale andava immensamente orgoglioso.

Rutland Gate è un vicolo cieco piuttosto breve di fronte a Hyde Park, e l’ingresso è segnalato da due pilastri vittoriani bianco sporco. Al centro c’è un grosso giardino quadrato e recintato, di cui tutti i residenti hanno la chiave. È un giardino senza erba, pieno di cespugli dall’aria triste e di aiuole di tulipani colorati e sporchi. Nelle lunghe serate estive lì si radunano le tate dalle uniformi bianche, e si siedono sulle panchine di ferro verdi a cullare neonati in carrozzina e ad ammonire bambinetti: «Non toccare niente, tesoro, questo giardino è brutto e sudicio».

Stavamo nella casa di Londra solo ogni tanto, per la stagione mondana. Per la maggior parte del tempo veniva affittata o restava vuota; poi molto, molto raramente, a uno o due di noi veniva concesso di abitare qualche giorno insieme alla tata ai Mews, un minuscolo appartamento, ex residenza dell’autista, sul retro della casa, sopra il garage. Lo consideravamo un privilegio straordinario. La vita nei Mews aveva la qualità del campeggio all’aperto. Non c’erano cuochi, così cucinava la tata, e a volte disseppelliva dal fondo della memoria la ricetta di qualche strana squisitezza, che la aiutavamo a preparare: sorbetto di prugna, trippa con cipolle, budino di pane. Ai Mews era un’avventura perfino farsi il bagno. La stanza, con la sua antica vasca dalle zampe artigliate, era dominata da un enorme scaldabagno rotondo e puzzolente che chiamavamo l’Amberley. Accenderlo era un gesto molto audace. Bisognava girare una piccola manopola rigida e infilare un fiammifero acceso in uno sportellino, producendo uno schiocco sonoro e terrificante. Dopodiché si trattava di capire esattamente quando l’acqua sarebbe stata abbastanza calda per il bagno, ma non abbastanza da fare scoppiare l’Amberley. Nessuno di noi capì mai se davvero esisteva quel rischio. A ripensarci, è probabile che quelli dell’Amberley avessero pensato, a nostra insaputa, a qualche meccanismo di sicurezza nel caso venisse dimenticato acceso. Ad ogni modo, non ci venne mai in mente e i bagni si rivelavano esperienze piuttosto cariche d’ansia.

Trasferirsi nella grande casa di Rutland Gate era una questione ben diversa e somigliava all’evacuazione di un piccolo esercito. Per giorni, prima e dopo il viaggio, l’aria era carica di tensione e una specie di rabbia gelida e repressa, suscitata dalle migliaia di dettagli di cui bisogna occuparsi per un trasloco, pareva depositarsi nelle ossa degli Adulti fino a quando non veniva disfatta l’ultima valigia. La frase «Non essere ridicola!» esclamata in tono acido era sufficiente a interrompere le mie suppliche per portare Miranda a Londra. «A quel tesorino piacerebbe da matti. Non c’è mai stata...» ma alla vista della faccia di Muv quelle parole mi morivano in gola.

Montagne di valigie, mucchi giganteschi di pane avvolto in carta oleata che doveva durare fino alla prossima infornata, Debo trascinata giù dalla macchina mezza morta per il mal d’auto – ed eccoci arrivati. Il mobilio addormentato pareva riprendere lentamente vita mentre toglievamo una per una le lenzuola protettive; oggetti familiari, quasi dimenticati dall’ultima volta che eravamo stati lì, tornavano alla luce per essere esaminati e toccati. Un enorme vaso dorato, coperto di decorazioni complicate, spiccava sul buffet della sala da pranzo. «E questo da dove arriva?» «Non ti ricordi, tesoro? L’ha ricevuto il bis-bisnonno dagli irlandesi; gli sono stati tanto grati quando li ha aiutati a soffocare una delle loro rivolte.»

Stare a Londra era decisamente un’esperienza magnifica, ma l’anno del matrimonio di Diana l’eccitazione dei preparativi conferì a quel soggiorno qualcosa di speciale, un tocco da re Mida. Che entusiasmo! Per me e Debo era quasi troppo. Infinite prove dei nostri vestiti da damigelle d’onore, color crema e oro, pacchi di regali che arrivavano ogni giorno per posta, da aprire e palpeggiare, elenchi di cibi deliziosi per il ricevimento. Io e Debo respiravamo un’atmosfera inconsueta e lussuosa fatta di seta, pizzo, carta velina, biancheria da corredo in crêpe de Chine, valigeria in pelle di cinghiale, con la promessa imminente di mousse di aragosta e torta nuziale. Boud, più enorme che mai negli spasimi estremi dell’adolescenza, restava lì in piedi, incombente, in disparte, e solo a fatica la convincemmo a provarsi il suo gigantesco abito da damigella.

La tata fece del suo meglio per tenerci fuori dai piedi. Ci furono le solite gite londinesi: il Museo delle Cere di Madame Tussaud, lo zoo, il Victoria and Albert oppure, quando tutto il resto non funzionava, una bella passeggiata fino all’Albert Memorial nei Kensington Gardens. Quando ci eravamo stancate di quelle distrazioni, o se la tata era troppo occupata per portarci da qualche parte, passavamo il tempo nel giardino della piazzetta impegnate in una nuova attività Hon: sfuggire ai mercanti di schiave.

Era stata Miss Bunting a proporci questo affascinante soggetto. Durante una lezione di geografia sulle principali industrie del Sudamerica era venuto fuori l’argomento Buenos Aires e lei ci aveva spiegato che la capitale dell’Argentina era nota principalmente come centro di smistamento di schiave bianche. Anzi, un giorno che era andata al cinema da sola, l’amica di un’amica di una sua amica aveva avuto un’esperienza piuttosto scioccante. Una vecchia signora dall’aria innocua le si era seduta accanto e le aveva fatto un’iniezione di morfina, e la povera amica dell’amica dell’amica si era ritrovata a Buenos Aires.

Dal momento che a me e Debo non era permesso superare da sole l’ingresso di Rutland Gate e Muv ci aveva ammonite spesso di «non parlare mai con chi non indossi un’uniforme», il nostro contributo alla lotta contro la tratta delle bianche fu giocoforza piuttosto limitato. Tuttavia, anche in quelle circostanze cercammo di fare del nostro meglio.

C’era un commerciante di schiave che viveva a qualche metro da noi, proprio in Rutland Gate. Ogni mattina, mentre portavamo i cani a passeggio, ci superava correndo in bombetta e completo nero, armato di ombrello ben chiuso; e ci salutava sempre con un «Buongiorno». Dal momento che non portava l’uniforme e non ci era mai stato presentato, quel saluto era la prova che era un mercante di schiave. «Non rispondergli, Debo, altrimenti ti risveglierai a Buenos Aires pronta a essere smistata» la avvertii. «E non correre – questo li eccita.» Ogni sera alle sei l’uomo tornava a grandi passi a Rutland Gate con un sorriso preoccupato – probabilmente stava riflettendo su qualche problema di smistamento a Buenos Aires – e ci diceva «Buonasera». Noi tiravamo dritto decise, senza accelerare il passo e senza guardare nella sua direzione. Ma reagimmo con malcelato disappunto quando venimmo a sapere che era solo un amico di Nancy, un rispettabilissimo mediatore di borsa sposato che ci salutava perché sapeva che eravamo le sue sorelline. «Molto anti-Hon da parte di Nancy, e poi forse fa solo finta di lavorare in borsa» convenimmo io e Debo. Nancy invece raccontò quella storia a tutta Londra e il povero mediatore divenne noto nell’alta società londinese come «il Mercante di Schiave», soprannome che probabilmente si porta dietro ancora oggi.

Finalmente il tanto atteso giorno delle nozze arrivò; ma io e Debo eravamo a letto con la scarlattina e la febbre alta. «Non credo che gli farà male alzarsi, solo per la cerimonia, poi potranno tornare a letto», disse Muv. Ma la famiglia di Bryan si impuntò facendo fronte comune con grande decisione. Perfino Diana pensava che le nostre facce arrossate avrebbero fatto piombare una cappa funebre sull’evento e suscitato commenti sfavorevoli tra gli invitati. Quella sfortuna ci fece infuriare; né ci consolammo con gli avanzi del banchetto e la lettura dei dettagliati resoconti della cerimonia comparsi sulla stampa mondana.

Diana e Bryan fecero il viaggio di nozze all’estero. Ci spedirono enormi scatole di costosi cioccolatini francesi, ripieni di una specie di crema tartufata scura, il cui ricordo mi basta ancora oggi per rivivere i primi tempi del loro matrimonio.

Dopo che furono tornati in Inghilterra, a me e Debo fu permesso di andare a stare da loro in campagna insieme alla tata. Quella visita non fu un completo successo. Ci furono lunghe discussioni con mia madre, molto riluttante a lasciarci andare; Diana e Bryan facevano decisamente parte di «Che masnada», anche più di Nancy, e Muv temeva che la compagnia dei loro amici inappropriati potesse avere su di noi un effetto iperstimolante e disastroso.

Quando finalmente arrivò il momento, la visita fu decisamente inferiore alle mie aspettative. Certo, la casa dei Guinness era bellissima e piena di lussi e comodità come l’avevo immaginata. Avevano perfino una piscina, innovazione straordinaria per quell’epoca. Io e Debo costringemmo Diana a farci visitare tutte le stanze appena riarredate: «E questo quant’è costato? E le tende? Quanto costava al metro la carta da parati?». Eravamo curiosissime di sapere come spendevano i soldi le persone spaventosamente ricche. D’altro canto, gli amici inappropriati furono una delusione. Forse erano inibiti dalla mia presenza e da quella di Debo; in ogni caso le conversazioni spumeggianti e inadatte che attendevo con tanto entusiasmo non si tennero mai.

Dal giorno del matrimonio, Diana sembrava cambiata. Ora era una Bellezza con la B maiuscola. Le sue fotografie comparivano con grande regolarità sulle copertine dei settimanali mondani; il suo ritratto fu dipinto da una decina di artisti. Il suo viso pareva sempre uguale – ampio, calmo, lo sguardo leggermente perduto nel vuoto; e sembrava così anche nella vita reale. Io e Debo pensavamo che stesse diventando «falsa». Non rideva e non si accigliava quasi più e aveva messo a punto un’espressione, valida per tutte le occasioni, simile a quella della Gioconda. Gli occhi, già più grandi di quelli delle persone normali, erano spalancati in uno sguardo fisso, la bocca leggermente aperta, rilassata ma non rigida, il mento a mezza altezza. Una volta si lasciò andare e ci spiegò che se mantieni un’espressione bella e rilassata da giovane, sarai meno soggetta agli effetti dell’età. Io provai qualche volta a fare quella faccia, ma su di me pareva non funzionare, e suscitava soltanto il commento della tata: «Cosa c’è, tesoro, non ti senti bene?».

Anche il suo comportamento nei miei confronti era cambiato. Aveva adottato una gentilezza e una dolcezza uniformi e irritanti e mi trattava con quella pazienza trattenuta che si usa con gli animali, i bambini piccoli o i ritardati. Sentivo che stava sviluppando un Bellissimo Carattere da abbinare alla sua faccia. Ero a disagio in sua presenza. Con grande rimpianto, la rimossi dalla carica di Sorella Preferita; il comportamento acido e spesso tagliente di Nancy era più vario e interessante, e quindi più piacevole, la cupezza incallita di Boud più reale.

Dopo quella visita vedemmo pochissimo Diana e Bryan, anche se seguivamo le loro imprese sulle pagine degli eventi mondani dei giornali. C’erano «baby party» a cui gli ospiti arrivavano vestiti da neonati in passeggino o su asinelli a noleggio, alcuni perfino accompagnati da tate riluttanti assunte per la serata. C’erano cacce al tesoro in cui ogni invitato riceveva un elenco di cose da trovare: un palo della luce, un cane sambernardo, un poliziotto, un’anatra di St. James’s Park. I giornali avevano battezzato i partecipanti «i Giovani Brillanti» e si scagliavano contro questi figli di ricchi che giocherellavano mentre Roma bruciava.

A volte ai Giovani Brillanti si univano gli Esteti. Diana e Bryan sponsorizzarono una mostra d’arte in una delle gallerie del West End più alla moda. I quadri, di un artista «appena scoperto», Bruno Hat, erano ultramoderni. Andavano dal cubismo al nuovissimo surrealismo. Alcuni erano semplici tele con appiccicati pezzi di lana, sughero o frammenti di vetro. La mostra fu ampiamente pubblicizzata e attirò critici da tutti i giornali, che intervennero per esaminare e lodare quegli esempi di arte nuova. Bruno Hat, un polacco che non parlava inglese, era seduto in un angolo su una sedia a rotelle, il viso barbuto avvolto in una sciarpa, e quando qualcuno gli rivolgeva la parola mormorava suoni incomprensibili.

I quotidiani del giorno seguente, dal più rispettabile al più scandalistico, riportavano lunghe e seriose recensioni della mostra. Ma alla fine il segreto trapelò; Bruno Hat non era altri che Bryan Howard, un amico dei Guinness, travestito. L’intera mostra era stata una beffa. Mia madre disapprovò: «Ingannare tutte quelle povere persone. Molto brutto da parte di Diana», ma noi trovammo molto divertente e acuto da parte dei Guinness essere riusciti a raggirare perfino i critici d’arte.