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Anche se durante l’infanzia io e Debo avevamo litigato e discusso senza sosta, quando lei ebbe diciott’anni e io quindici diventammo, incredibilmente, grandi amiche. Da scolaretta gigantesca Boud si era trasformata una debuttante enorme e quasi inquietante. Era alta più di un metro e ottanta e con la sua fitta chioma bionda torreggiava sui suoi coetanei ai più svariati eventi mondani, come un grosso Babbo Natale tra le bambole. La sua personalità dirompente bene si accordava alle sue dimensioni. In classe aveva accelerato la partenza di più di un’istitutrice e aveva raggiunto una specie di record come la più ingestibile di tutte noi. Era stata espulsa da scuola quand’era stata chiamata a recitare davanti alle alunne, alla direzione e ai genitori riuniti «semplicemente per aver detto una parola in più», come sosteneva lei. La parola era «Dio», che lei aveva aggiunto al verso: «Un giardino è una cosa meravigliosa, per Dio». Aveva perfezionato un metodo per fare infuriare mio padre: le bastava guardarlo con aria truce durante i pasti. Restava seduta in silenzio a ingurgitare enormi quantità di purè di patate, gli occhi fissi su Farve con sguardo cupo e minaccioso. Lui glielo restituiva, cercando di costringerla ad abbassare gli occhi, ma lei vinceva sempre. Picchiando i pugni sul tavolo lui ruggiva: «Smettila di fissarmi, maledizione!». Le invidiavo quelle sue vittorie e al tempo stesso le facevo notare che si approfittava ingiustamente degli aspetti più subumani di mio padre: «Povero Farve, è come un leone, non è in grado di sopportare lo sguardo dell’Occhio Umano».

Boud aveva sempre avuto un certo talento per l’arte in stile barocco. In una specie di originale variazione sul tema del collage, aveva creato enormi tele che ricreavano scene storiche: Annibale che valica le Alpi su uno sfondo di montagne d’argilla, i finimenti d’argento del generale e del suo esercito sottolineati con la stagnola; l’Arca di Noè con ritagli di pelliccia vera appiccicati agli animali. Da debuttante, cominciò ad applicare questo talento al suo assortimento di vestiti. Brillava come un pavone enorme, coperta di bigiotteria vistosa, acquistata in un negozio di costumi teatrali, e immensi abiti da sera di broccato. Con grande costernazione di mia madre si comprò una tiara finta, luccicante di rubini, smeraldi e perle, e insistette per indossarla ai balli. In genere la sua intenzione era quella di scioccare – di «épater le bourgeois» come specificava mia madre in tono di disapprovazione – e ci riusciva. L’insoddisfazione di Boud per la sua vita rispecchiava la mia. Applaudivo i suoi gesti scandalosi, morii dalle risate quando a Buckingham Palace rubò della carta da lettere e la usò per scrivere a tutti i suoi amici, esultai quando si mise a portare ai balli il suo topo addomesticato.

I Giovani Brillanti erano scomparsi dalla scena londinese un paio d’anni prima, come i loro equivalenti al di là dell’oceano, i Giovani Dannati, erano senza dubbio spariti dalla scena americana con l’arrivo degli anni Trenta. La stagione londinese era tornata ai suoi soliti noiosi schemi, una serie infinita di pranzi, balli, cene, l’attenzione (di solito alimentata ad arte dai giornali) sulle debuttanti più popolari della stagione, qualche scandalo, qualche fidanzamento...

Gli sforzi di Boud per animare l’ambiente le conquistarono poche simpatie. Forse se avesse fatto la stessa cosa, che ne so, nel 1926, avrebbe anche lanciato qualche moda. Ma le debuttanti del 1932 non erano dell’umore giusto. Di conseguenza, dalle sue coetanee Boud era considerata un’eccentrica.

Quando fu il suo turno, partecipò con noia e inquietudine al rituale del «debutto». Stava cercando qualcosa di più eccitante, di più intrigante di quello che le offriva la stagione londinese – qualcosa di vietato dai genitori, qualcosa di straordinario, di sconvolgente...

La casa di Diana pareva un buon inizio: ci era stato proibito di andarla a trovare da quando, qualche anno dopo il matrimonio, lei e Bryan avevano divorziato. Come al solito noi, nella nostra aula, eravamo state escluse dall’orribile discussione seguita alla loro separazione. Sapevamo soltanto della vergogna e dell’infelicità indicibili che Diana aveva causato alla famiglia e che secondo i Riveriti ora per noi le speranze di sposarci si erano ridotte moltissimo, perché nessun giovanotto rispettabile avrebbe mai voluto avere a che fare con le sorelle di una divorziata. Non c’è bisogno di aggiungere che tutto questo rese Diana ancora più affascinante ai nostri occhi.

Io e Debo non la vedemmo per oltre un anno, ma per Boud le cose andarono diversamente. Libera dagli impegni scolastici casalinghi, dall’istitutrice e dalle passeggiate quotidiane, ora andava e veniva come più le piaceva e senza che i Riveriti lo sapessero andò a trovare Diana più volte, di nascosto. Fu là che conobbe Sir Oswald Mosley, futuro marito di Diana. Mosley, nella sua carriera politica, era passato dal partito conservatore a quello laburista e al New Party, avventura durata soltanto un anno e poi abortita nonostante godesse del notevole sostegno di Lord Rothermere e del «Daily Mail». Ora era impegnato a organizzare l’Unione fascista inglese, di cui Boud entrò immediatamente a far parte.

«Non ti piacerebbe iscriverti, Decca? È così divertente» mi implorava, agitandomi davanti agli occhi la sua camicia nera nuova di zecca.

«Non ci penso nemmeno. Detesto quegli orridi fascisti. Se diventerai una di loro, allora io diventerò comunista.»

In realtà quella dichiarazione fu qualcosa di più che un semplice e automatico gesto in contrapposizione a lei: quel poco che sapevo dei fascisti mi disgustava – il loro razzismo, l’esaltazione del militarismo, la brutalità. Mi abbonai al «Daily Worker», comprai libri di letteratura comunista o che ritenevo tale e mi cucii in casa delle bandiere con la falce e il martello. La mia biblioteca comunista era anche cattolica e molti degli autori che conteneva sarebbero senza dubbio rimasti stupiti di trovarcisi. Comprendeva non solo opere di Lenin, Stalin, Palme Dutt, ma anche di scrittori che avevo sentito definire «bolscevichi» dalla generazione precedente – Bertrand Russell, Laski, i Webb, Bernard Shaw. Confusi John e Lytton Strachey e mi tuffai coraggiosamente in parecchie biografie del secondo prima di scoprire il mio errore. Il risultato di tutto questo fu che approfondii moltissimo la mia conoscenza della letteratura inglese moderna e del pensiero progressista, e più leggevo più mi affascinavano gli sconfinati panorami di pensiero e azione che mi si aprivano su ogni lato.

In quel periodo io e Boud evitavamo il più possibile la compagnia degli Adulti. A Swinbrook vivevamo nel T.P.P., tranne che per i pasti. L’avevamo diviso nel mezzo e Boud arredò la sua parte con ogni genere di simbolo fascista – i fasci italiani, un mucchio di rametti legati con una corda; fotografie di Mussolini incorniciate con un passe-partout; fotografie di Mosley che cercava di somigliare a Mussolini; la nuova svastica tedesca; una raccolta di dischi della gioventù italiana e nazista. Il mio lato ospitava la mia biblioteca comunista, un piccolo busto di Lenin acquistato per uno scellino in un negozio dell’usato e una cartella con le copie del «Daily Worker». A volte creavamo delle barricate con le sedie e inscenavamo battaglie campali, lanciandoci libri e dischi finché la tata non veniva a dirci di smettere di fare rumore.

Però io e Boud spesso ci alleavamo contro gli Adulti dando vita a una versione del tutto personale del Fronte unito. Una volta ci affidarono la bancarella di mia madre alla Festa dei Conservatori. «Guarda tutti questi soldi!» dissi a Boud. «È una vergogna anche solo pensare che quei vecchi schifosi dei conservatori se li becchino tutti. Credo che manderò cinque sterline al “Daily Worker” per la loro raccolta fondi.» Boud insistette per prendere, scellino dopo scellino, l’equivalente per l’Unione fascista inglese. Non ci fu molto tempo per discutere, perché mia madre sarebbe tornata di lì a poco; ci ficcammo rapidamente in tasca cinque sterline a testa, che quella sera spedimmo ai rispettivi beneficiari. Da allora mi sono chiesta spesso cosa devono avere pensato quelli del «Daily Worker» quando lessero il biglietto che accompagnava la somma: «Donazione di cinque sterline dalla Festa annuale dei Conservatori dell’Oxfordshire».

Le chiacchierate infinite in aula, a base di «cosa faremo da grandi?» cambiarono tono. «Io andrò in Germania a conoscere Hitler» annunciava Boud. «Io scapperò di casa e diventerò comunista» ribattevo. Debo era sicura che avrebbe sposato un duca e sarebbe diventata duchessa. «Un giorno arriverà/il duca che amerò...» canticchiava con aria sognante. Naturalmente non dubitammo neppure per un minuto che avremmo raggiunto i nostri obiettivi; ma forse raramente i desideri d’infanzia si sono realizzati con tanta precisione come i nostri.

Anche se all’inizio l’interesse di Boud per il fascismo era stato nascosto agli Adulti, di lì a poco trapelò. Lei li implorò di darle il permesso di andare in Germania. «Ma tesoro, pensavo che l’Estero non ti piacesse» disse mia madre. (Boud si era sempre rifiutata di imparare il francese perché pensava che fosse una lingua affettata e per noi la Francia era sinonimo di Estero).

Era l’anno della scalata al potere di Hitler. Boud annunciò di voler andare in Germania, imparare il tedesco e conoscere il Führer. I miei genitori fecero meno resistenza del previsto. Forse un’altra stagione londinese di tiare finte e ratti sguinzagliati nelle sale da ballo non era un pensiero che mia madre riuscisse a concepire con piacere. Boud ricevette il permesso di partire.

Dopo sei mesi tornò a casa per una breve visita: aveva raggiunto entrambi i suoi obiettivi. Parlava già un tedesco abbastanza fluente e non solo aveva conosciuto Hitler, ma anche Himmler, Goering, Goebbels e altri leader nazisti. «Ma come diavolo ci sei riuscita?» le domandammo, stupefatti. Boud ci spiegò che era stato abbastanza semplice; aveva prenotato ogni sera un tavolo al ristorante Osteria Bavaria, dove loro andavano spesso. Una sera dopo l’altra, era rimasta seduta a osservarli finché finalmente un valletto non era stato spedito a indagare sulla sua identità. Quando seppero che era una fraülein inglese ammiratrice dei nazisti ed era membro dell’Unione fascista del suo paese, Hitler la invitò al loro tavolo. In seguito diventò una del giro, li incontrava sempre a Monaco, li accompagnò a raduni, manifestazioni e alle Olimpiadi.

«Come pensavo! Anche Hitler è un Subumano, come il Povero Vecchio, e tu l’hai soggiogato con il potere dell’Occhio Umano» esclamai amareggiata.

Ma Boud non era disposta a lasciarsi prendere in giro per la sua devozione al nazismo. Era completamente e profondamente convertita. Il saluto nazista – «Heil Hitler!» con il braccio teso – divenne una sua abitudine con chiunque, familiari, amici e la stupefatta direttrice dell’ufficio postale del villaggio di Swinbrook. La sua collezione di oggetti e trofei nazisti ormai traboccava dal nostro piccolo salottino – fasci di copie del giornale antisemita di Streicher, «Der Stürmer»; una copia autografa di Mein Kampf; le opere di Houston Stuart Chamberlain, che nel secolo precedente aveva anticipato le ideologie fasciste, album di fotografie di leader nazisti.

Più o meno in quel periodo cadde il veto sulle visite a Diana, che ricominciò anche a frequentare Swinbrook. I rapporti familiari cambiarono immediatamente e Boud e Diana, che prima non andavano affatto d’accordo, divennero inseparabili.

Diana accompagnò Boud in Germania e fu a sua volta ammessa nella ristretta cerchia nazista. Presto le loro attività giunsero alle orecchie dei giornali e un reporter riferì che Hitler le aveva definite «esemplari perfetti di femminilità ariana».

La stampa ricamò parecchio sulla natura profetica del nome di battesimo di Boud – Unity Valkyrie.

All’inizio i miei genitori considerarono quel suo nuovo interesse come una barzelletta. A quell’epoca i conservatori o disapprovavano del tutto Hitler ritenendolo un pericoloso demagogo delle classi inferiori, o provavano per lui una malcelata simpatia per i suoi scopi e metodi – dopo tutto non aveva forse distrutto il partito comunista tedesco e soppresso i sindacati in un tempo sorprendentemente breve? Quindi le parole «quell’Hitler» uscivano dalle labbra di innumerevoli signorotti inglesi con sfumature sia di derisione sia di ammirazione. Anzi, con il suo avvento al potere il concetto di «schifosi crucchi» era stato misteriosamente abbandonato.

Boud e Diana supplicarono i Riveriti di accompagnarle in Germania a constatare di persona. «Farve in fondo è un fascista per natura. Il Führer gli piacerà da morire» insistevano. In breve, l’ebbero vinta. In Germania Muv e Farve ricevettero un trattamento principesco. Girarono su una Mercedes-Benz con autista, si videro sciorinare davanti tutti i dettagli più sgargianti del nuovo regime e tornarono pieni di lodi per ciò che avevano visto.

Le reazioni familiari a quella conversione furono le più diverse. Boud, naturalmente, ne fu felicissima. Per la prima volta ottenne i favori di mio padre e inaugurò un ottimo rapporto con Muv. Con disprezzo, Nancy disse che i nazisti, sopravvalutando l’influenza di due oscuri aristocratici di provincia sulla politica inglese, avevano trattato i Riveriti da personaggi importanti, cosa che non era mai accaduta loro. Tom ne fu divertito, ma non si fece coinvolgere. Io ebbi la conferma che dovevo scappare di casa e tentare la sorte con la causa antifascista.

Amavo ancora Boud per la personalità debordante e scintillante, per l’eccentricità del tutto inusuale e per la lealtà verso di me, sopravvissuta alle nostre ormai radicali differenze di opinione. Quando ci pensavo, presagivo con una triste e strana sensazione la spaventosa ondata che di lì a poco ci avrebbe separato, senza che fossimo in grado di controllarla, e l’ombra gelida che si stava avvicinando e ci avrebbe presto inghiottito. A volte parlavamo anche di ciò che sarebbe potuto accadere se fosse scoppiata la rivoluzione. Pensavamo entrambe che avremmo dovuto semplicemente prepararci a combattere in campi opposti e cercammo perfino di immaginare come sarebbe stato se un giorno una di noi avesse ricevuto l’ordine di giustiziare l’altra.