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Arrivare in autobus a Rotherhithe da zone più familiari di Londra (Kensington, Hyde Park, Oxford Street) richiede più di un’ora. Si attraversano chilometri e chilometri di case popolari dai nomi inappropriati come Devon Mansions e Cornwall Homes. Queste strutture tristi in mattoni rossi, alte nove o dieci piani, ospitano una razza più bassa e pallida degli abitanti del West End londinese. Nell’aspetto, nel vestire e nel modo di parlare sono così diversi da dare l’impressione di un gruppo etnico differente.

La nostra casa di Rotherhithe Street era infilata tra due magazzini, di fronte a uno di quei condomini brulicanti. Il soggiorno prendeva tutto un piano e aveva la vista sul fiume. Sugli altri piani c’erano numerose camere da letto dove dormivano Roger e molto spesso anche altre persone. Io e Esmond ci sistemammo al quarto piano, dove c’erano un paio di stanze e una cucina.

Volevo dimostrarmi un’efficiente moglie proletaria e tenere tutto pulito, lindo e gradevole; ma alcuni sforzi abortiti confermarono la previsione di Idden che non sarei stata molto brava in questo tipo di cose. Con grande enfasi afferrai una scopa e passai ore a spazzare le scale, ma Roger mi scoprì e in tono critico osservò: «Dovresti iniziare dalla cima e venire giù». Mi spiegò pazientemente che il mio metodo di lavare, insaponare, sciacquare e asciugare ogni stoviglia dopo i pasti mancava di razionalità e mi suggerì il metodo della catena di montaggio, prima insaponare tutto, poi risciacquare e poi asciugare, tutto insieme. Ma siccome non riuscivo ad afferrare il concetto, e visto che Esmond non notò mai lo stato della casa, rinunciai subito e abbandonai il campo a Roger.

Cucinare non dava grossi problemi, visto che raramente mangiavamo a casa. Qualcuno mi aveva regalato un libro di ricette di Boulestin, ma poiché quasi tutte richiedevano mezzo chilo di burro, un litro di panna, un bicchiere grande di brandy, un petto di pollo, un’aragosta o ingredienti del genere, potevamo permetterci di mangiare a casa solo in rare occasioni, e di solito finivamo per cenare a base di fish and chips nella più vicina sala da tè Lyons.

Esmond trovò lavoro come copywriter in una piccola agenzia di pubblicità dello Strand. Riuscivamo a tirare avanti con il suo salario di cinque sterline la settimana usando il semplice trucco di non comprare quasi niente. Esmond cercava sempre di mettere insieme un capitale sufficiente per aprire un night club, o comprare una latteria, o una macchina, e quindi ogni venerdì sera prendevamo ciò che restava dei guadagni settimanali e andavamo alle corse dei levrieri. Ma di solito queste spedizioni si concludevano in un disastro. Esmond, con la sua faccia da boule, sfoggiava la quasi commovente fede inveterata del giocatore nel cane che aveva scelto, ma quasi sempre, mentre la gara si avvicinava alla fine, il suo ottimismo entusiasta veniva sostituito da una incredula disperazione e spesso ci toccava tornare a casa a piedi perché non avevamo nemmeno i soldi per il biglietto dell’autobus.

Un paio di volte tentammo perfino con l’idea della bisca. Roger fornì una parte del capitale iniziale di dieci sterline, invitammo venti o trenta persone e organizzammo una partita di vingt-et-un. Ma non si sa come non funzionò nemmeno fare la parte del «banco» e alla fine della seconda mano avevamo perso gran parte del capitale. Il giorno seguente notammo un buchino perfettamente rotondo nella finestra del soggiorno che dava sul fiume. Esmond insisté che la polizia fluviale doveva avere scoperto la nostra bisca clandestina e ci aveva sparato dalla loro barca. Io osservai che la procedura normale sarebbe stata presentarsi alla nostra porta e reclamare. Non capii mai se Esmond credeva davvero a quella teoria fantastica, ma in ogni caso dopo quella volta smettemmo di giocare d’azzardo in casa.

Per la prima volta cominciavo a conoscere alcuni amici di Esmond. La nostra vita sociale era costituita soprattutto dalle «feste con bottiglie». I padroni di casa fornivano il cibo, anche solo patatine o perfino panini al prosciutto, a seconda delle condizioni finanziarie, e gli ospiti si portavano dietro da bere, dalla birra al whisky. Il principale obiettivo del padrone di casa era conservare un po’ di alcolici per la settimana seguente.

Le feste erano frequentate da un gruppo eterogeneo di giornalisti, scrittori, cantanti di night club e studenti. Dei molti che attraversarono la scena, come comparse in un film, solo pochi mi sono rimasti impressi nella memoria; Peter Nevile, Roger Roughton, Philip Toynbee, Giles, il fratello di Esmond...

Philip, che come venni a sapere era il «T.P., Rugby» dell’articolo sul congresso di Mosley in Out of Bounds, veniva spesso a Rotherhithe Street e si fermava per giorni. La sua faccia cadaverica ma piuttosto romantica mal si accordava alla sua personalità da cucciolo affettuoso, esuberante e troppo cresciuto. Aveva una capacità incredibile di ubriacarsi in maniera spaventosa. In quelle occasioni si metteva a girare per la stanza dichiarando in tono speranzoso: «Oddio, voglio andare a letto con qualcuno!». Se c’era una festa, si avvicinava a tutte le ragazze sole oppure afferrava il telefono e chiamava in giro. Non cessava di stupirmi quanto spesso questo comportamento poco ortodosso e indiscriminato venisse ricompensato con il successo, e la quantità di volte in cui, quando Philip si fermava a Rotherhithe Street, c’era «uno in più a colazione».

Esmond e Philip si erano conosciuti quando Philip, a sedici anni, era scappato da Rugby. All’epoca Esmond ne aveva quindici, viveva a Londra in una stanza ammobiliata e si manteneva con lavoretti di giornalismo e vendendo spazi pubblicitari. Era diventato una specie di centro ufficioso per ragazzi in fuga e Philip aveva abitato per un poco da lui prima di decidere di tornare a scuola.

Philip era il nostro unico legame, anche se piuttosto disdicevole, con l’ormai lontano mondo dell’alta società londinese. Anche se faceva parte del partito comunista, trovava ancora il tempo di partecipare a un bel numero di balli delle debuttanti, durante la stagione, e ci degnava dei suoi racconti.

«Non potresti portarti un sacchetto e prenderci un po’ di quei manicaretti deliziosi?» lo incitammo. Ma lui in genere ci portava solo frammenti di pettegolezzi succosi sulla mia famiglia e su ex amici, e storie su ciò che si diceva di noi.

In una occasione il partito comunista chiese a Philip di partecipare a una campagna elettorale in una cittadina di minatori nel nord del paese. Accadde così che fu invitato a una festa a Castle Howard, poco distante dalla cittadina, per il fine settimana successivo alle elezioni. Non volendo tornare fino a Londra, aveva fatto le valigie con abiti adatti a entrambi gli eventi. Riuscì a farci divertire raccontandoci i suoi sforzi disperati per nascondere l’apparato, il frac che giaceva nascosto e colpevole in fondo alla valigia durante il suo soggiorno nella casetta di un minatore.

Esmond rise fragorosamente, sottolineando così una delle sue principali obiezioni al proprio ingresso nel partito comunista. Sapeva che era troppo pieno di giovani intellettuali di classe elevata e operava quindi su basi irrealistiche. All’epoca gran parte dei nostri amici erano comunisti e da loro venivamo a sapere molti pettegolezzi interni. Si trattava soprattutto di espulsioni per ragioni banali, gente che ne aveva «le tasche piene» e si dimetteva, faide lunghissime e inutili, litigi petulanti su sgarbi reali o immaginari. In genere gli ex comunisti, coloro che si erano dimessi o erano stati espulsi, erano i peggiori di tutti, perché si rivoltavano inaciditi contro gli ex compagni e spesso diventavano acerrimi nemici di tutto ciò per cui avevano lottato. Eppure sapevamo che il partito comunista aveva anche un altro volto. A livello internazionale, e in una certa misura anche in Inghilterra, si era dimostrato una forza trascinante nella lotta contro il fascismo e per la sicurezza collettiva contro i poteri dell’Asse. I comunisti avevano fatto un lavoro splendido nel concentrare l’attenzione sulla piaga della disoccupazione, organizzando migliaia di persone di ogni angolo del paese in modo che partecipassero a manifestazioni contro la fame e altre forme di azione diretta. In tutte le grandi battaglie per il progresso degli anni Trenta, i comunisti si erano dimostrati eccezionalmente dotati di coraggio, lealtà e determinazione.

L’opinione che Esmond aveva dei comunisti incontrati in Spagna è riassunta in Boadilla nella descrizione di Hans Beimler, comandante politico del battaglione Thaelmann:

Dentro di me lo colloco nella categoria Comunisti Autentici. Si tratta di un mio giudizio personale e istintivo. Per meritarlo bisogna essere: a) una persona seria; b) un patito della disciplina; c) un membro del partito; d) un appassionato di tutte le tecniche dell’arte militare e assolutamente sprovvisto di qualsiasi movente personale ed egoista come la paura o il coraggio avventato.

I nostri amici che inutilmente cercavano di reclutarci nel partito di solito semplificavano così le ragioni del rifiuto di Esmond: «Non è capace di sottomettersi alla disciplina», o «È troppo individualista». Le sue vere ragioni erano decisamente più complesse. Certo, per natura non sopportava le imposizioni, eppure si era dimostrato capace di sottomettersi alla disciplina quand’era stato necessario per raggiungere l’obiettivo, come in Spagna. Ma non vedeva alcuna ragione per la disciplina fine a se stessa praticata all’interno del partito inglese, ed era determinato a stare alla larga dalle misere liti interne, dall’isolamento di chi era definito «deviazionista», «disfattista piccolo-borghese» eccetera, di cui avevamo tanto sentito parlare dai nostri amici comunisti. Anche se in genere gli scopi del partito erano identici ai suoi, esserne membro comportava troppa teatralità perché lui lo ritenesse adatto alla sobrietà che aveva acquisito in Spagna.

Il partito laburista di Bermondsey era molto più conforme ai nostri gusti. Alle riunioni mensili, che si tenevano in una sala squallida poco lontano da Rotherhithe Street, si svolgevano accese discussioni sugli eventi politici importanti del momento. Portuali stanchi e pallidi si mettevano a cantare insieme alle mogli The Red Flag, che in quel quartiere di Londra era ancora l’inno del partito. Si organizzavano e portavano avanti raccolte fondi per il latte per gli orfani spagnoli o per aiutare le vittime ebree di Hitler, spesso violando le regole del quartier generale. Gli mancavano il fascino e il linguaggio speciale e fiorito di alcuni dei nostri amici comunisti, ma quei membri del partito laburista locale sembravano dotati di una serietà, di una determinazione e di una comprensione chiara e semplice dei problemi da conquistarsi subito il nostro rispetto. In quella parte di Londra il partito era molto più militante dei suoi stessi portavoce ufficiali. Si diceva che i bambini delle scuole si mettessero in fila per gridare «buu» alla principessa Mary, simbolo di una beneficenza detestata, durante le sue sporadiche spedizioni all’orfanotrofio locale.

Il Primo maggio tutta la comunità, uomini, donne e bambini, si presentava con striscioni fatti in casa da agitare accanto a quelli ufficiali, gridando slogan del «Fronte unito contro il fascismo». La lunga marcia per Hyde Park iniziava al mattino presto; contingenti del partito laburista, delle cooperative, del partito comunista, del partito laburista indipendente marciavano tutto il giorno per unirsi ad altre migliaia di persone provenienti da tutti gli angoli di Londra nella tradizionale festa dei lavoratori.

Tutti si portavano il pranzo al sacco, c’erano allegri spintoni, ordini urlati e bambini che dopo essere sfrecciati tra la folla venivano recuperati all’ultimo minuto. Philip e Roger ci insegnarono alcune canzoni nuove da cantare lungo la strada – parodie di inni comunisti: «Siamo classisti e sempre lo saremo, e della borghesia sul corpo marceremo!»; «Oh che piacere nella buia notte la borghesia riempire di botte!» e una versione ironica di Red Flag: «La bandiera del popolo è rosa, non rossa come il partito creder osa!».

Ci avevano avvertito che le camicie nere avrebbero cercato di disturbare la manifestazione e infatti in parecchi punti lungo il percorso c’erano alcuni gruppi, in attesa. Armati di sfollagente di gomma e tirapugni, saltavano fuori da dietro gli edifici; ci furono parecchie scaramucce in cui le camicie nere furono travolte dalla superiorità numerica degli uomini di Bermondsey. Una volta scorsi due figure alte e bionde che mi erano familiari: Boud e Diana, che agitavano bandiere con la svastica. Risposi con il pugno alzato nel saluto del Fronte rosso e Esmond e Philip riuscirono a fatica a dissuadermi dal gettarmi nella mischia solo ricordandomi che ero incinta.

Il contrasto tra la mia vita beata con Esmond a Rotherhithe Street e la mia cupa esistenza precedente mi rendeva molto felice e aspettavo con gioia la nascita della bambina. A volte sognavo che ero tornata a casa e che l’istitutrice mi alitava sul collo durante una lezione di disegno dicendo: «Ottima prospettiva, cara»; o che ballavo con un giovanotto dal viso privo di lineamenti; o che litigavo con Boud a proposito della Spagna; o che rientravo da una passeggiata a Swinbrook sotto la pioggia battente. Quella sensazione di pesantezza, di intrappolamento, scomparivano solo quand’ero completamente sveglia.

Non vedevamo parenti o persone della nostra vecchia vita, anche se con alcuni di loro riallacciammo i rapporti in maniera un po’ goffa. Mia madre mi dava l’impressione di essersi davvero pentita della severità dei provvedimenti presi da Farve, anche se era troppo leale verso di lui per criticare una sua decisione. A volte io e Esmond andavamo a cena con lei al ristorante, ma erano occasioni un po’ fredde, e diventavano più imbarazzanti per l’amarezza implicita presente da entrambe le parti. Ci rivolgevamo appena la parola con i Rodd dopo il piano da loro architettato insieme ai Riveriti. A Debo non era permesso venire a Rotherhithe Street e lei non lo desiderava nemmeno; era nel bel mezzo della sua prima stagione ed era concentrata su questioni più importanti. Mi tenevo in contatto con lei grazie a lunghissime conversazioni telefoniche. Tuddemy, l’unico membro della famiglia che a Esmond piaceva davvero, veniva a trovarci piuttosto spesso e cenava con noi quand’ero riuscita a risparmiare abbastanza da poterci permettere di mangiare a casa, e partecipava perfino alle «feste con bottiglia».

Durante quei mesi a Rotherhithe Street trovai il mio primo lavoro, una ricerca di mercato per l’agenzia pubblicitaria di Esmond. Era un lavoro occasionale, su chiamata, e si svolgeva quasi sempre fuori città.

Le ricerche di mercato erano considerate un gradino sopra alle vendite o ai lavori d’ufficio; erano pagate di più ed era il genere di impiego che poteva «portare a qualcosa di meglio». Attirava un assortimento variegato di persone; le mie colleghe, tutte donne tra i venticinque e i quarantacinque anni, più o meno, erano ex ballerine di fila, mogli di uomini d’affari, amiche di copywriter, aspiranti giornaliste.

Viaggiavamo in treno in squadre di sei o otto, guidate dai supervisori, per raggiungere le cittadine industriali delle Midlands o del nord dell’Inghilterra. Dal momento che, oltre al salario, ricevevamo un fisso per vitto e alloggio, cercavamo la pensione più economica possibile, e spesso ci ammucchiavamo in una stanza sola per dormire in due o tre per letto, risparmiando quindi una parte considerevole del nostro rimborso spese.

Il lavoro si basava su un’idea molto nuova appena importata dall’America. Ci dissero che era di un certo dottor George Gallup, una persona che deteneva la strana ma eloquente qualifica di Sondaggista. Dovevamo raccogliere informazioni a uso e consumo dell’agenzia pubblicitaria sulle reazioni del pubblico verso prodotti diversi, e a questo fine ci avevano fornito di moduli complicati da riempire nel corso di interviste porta a porta. Naturalmente le domande variavano molto a seconda dei prodotti. Condurre un’intervista su un prodotto per la colazione o un detersivo per la casa era una passeggiata, mentre il modulo relativo ai deodoranti probabilmente conteneva la domanda: «Quanto spesso ritiene necessario lavarsi sotto le ascelle?», il che comportava il rischio che il ricercatore di mercato finisse scaraventato fuori dalla casalinga appena avvicinata. Il supervisore ci avvertì che il metodo del dottor Gallup includeva una salvaguardia contro le bugie da parte degli intervistati e ci lasciò intendere che in qualche modo l’avrebbe capito, se fossimo state così disoneste da riempire i questionari sorseggiando una bella tazza di tè nella più vicina sala Lyons.

La sera rientravamo a gruppetti a fare rapporto al supervisore e più tardi ci toccava superare l’intenso disagio della sistemazione per la notte. Nello squallore della stanza sovraffollata, l’argomento di conversazione era sempre lo stesso: Sesso e Uomini, il tutto discusso senza la minima traccia di calore o umorismo. Gli uomini, mariti o amanti, esistevano solo per essere munti o privati di ogni penny che fossero riusciti a guadagnare e il sesso era l’arma che la natura ci aveva tanto generosamente fornito a questo scopo. Un membro della nostra squadra si conquistò la rispettosa ammirazione delle altre, grazie a un trucco particolarmente ingegnoso ideato per convincere suo marito a darle dei soldi in più. Poco dopo il matrimonio, avvenuto parecchi anni prima, lui l’aveva presa da parte, con grande imbarazzo, e balbettando le aveva spiegato che sapeva che c’era «un certo periodo del mese» in cui le donne avevano delle spese extra, e la invitava a non esitare a chiedergli tre o quattro sterline in più quando quel momento fosse arrivato.

«Quell’idiota integrale!» continuò lei con voce piatta e quasi brutale. «Negli ultimi dieci anni gli ho cavato tre sterline e dieci al mese. Non sa nemmeno quanto costa un pacchetto di assorbenti igienici.»

Ascoltando la sua storia e sentendo i commenti di approvazione delle altre, sentii di avere toccato il fondo della degradazione, un fondo che non credevo esistesse. Le ricercatrici di mercato mi avevano aperto un universo completamente nuovo; ne ero disgustata e affascinata al tempo stesso, e speravo che non facessero parte della classe lavoratrice destinata a guidare la rivoluzione. Ma sembrava proprio che non corressero questo pericolo, perché nessuna di loro si interessava nemmeno lontanamente di politica; per loro la lettura dei giornali si limitava alla cronaca nera e alle notizie popolari sulle care piccole principessine Lilibet e Margaret Rose.

Le mie colleghe erano abbastanza gentili con me; mi trattavano come una strana piccola mascotte e mi chiamavano «la Bambina». Adoravo i viaggi avventurosi in zone d’Inghilterra dove non ero mai stata prima e la sensazione quasi di calore di guadagnare dei soldi veri, ma ero sempre felice quando arrivava la fine di una missione e potevo ritornare alla relativa innocenza e purezza di Rotherhithe Street. Gli intrighi iniziati alle alcoliche feste con bottiglia, la sregolatezza senza limiti di Philip e di altri amici almeno erano vissuti in uno spirito di esuberante romanticismo e non avevano nulla in comune con la frigidità terrificante e calcolata delle Ricercatrici di Mercato.

La bambina nacque qualche mese dopo il nostro ritorno in Inghilterra. Diventò il centro della mia esistenza. Esultante, Esmond la guardava crescere, imparare a sorridere, ad agitare i piedi e ad acchiapparseli con mano malferma. Progettavamo il suo futuro, sarebbe cresciuta tra i bambini semplici di Rotherhithe Street, nata per la libertà e per le manifestazioni del Primo maggio, senza le fastidiose limitazioni di tata, istitutrice, passeggiate quotidiane e balli noiosi; o forse l’avremmo portata a vivere a Parigi, una piccola gamine che sgambetta verso il lycée con la sacca dei libri a tracolla...

Il partito laburista aveva creato ospedali gratuiti in tutto l’East End e io la portavo tutte le settimane in uno di questi, per farla pesare e farle somministrare olio di fegato di merluzzo. Nel quartiere scoppiò un’epidemia di morbillo, ma le infermiere dell’ospedale mi assicurarono che non c’era niente da temere – una bambina allattata al seno era immune da infezioni del genere. Forse non sapevano che l’immunità può essere trasmessa solo da una madre che ha passato la stessa malattia; o forse, in quella zona brulicante di Londra, non era venuto loro in mente che una persona potesse essere arrivata alla maturità senza avere passato, prima o poi, tutte le normali malattie infantili. In ogni caso, fecero un tragico errore. Quando ebbe quattro mesi la bambina contrasse un morbillo spaventoso, violentissimo, e nel giro di pochi giorni lo presi anch’io. Esmond, impazzito, trovò delle infermiere che ci curassero giorno e notte; la mia temperatura si alzò in maniera allarmante, finché non cominciai a delirare e a perdere la ragione. Quando mi ripresi scoprii che la bambina stava morendo di polmonite.

Sopravvisse solo pochi orribili giorni, boccheggiando sotto una tenda a ossigeno. Le infermiere andavano e venivano e la loro gentilezza artificiale nascondeva l’orrore come un sorriso in un incubo; poi fu tutto finito.

Io e Esmond fuggimmo come due persone massacrate e rese quasi incoscienti in una brutta rissa per la strada. Lui si occupò di tutto, ritirò i nostri risparmi, fece le prenotazioni necessarie e il giorno dopo la sepoltura della bambina partimmo per la Corsica. Là vivemmo per tre mesi nella gradita irrealtà di una cittadina straniera, lontani dalla compassione degli amici, e tornammo solo quando l’incubo cominciò a svanire.