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A parte la politica, nella nostra vita erano entrati due elementi che fecero pendere il piatto della bilancia dalla parte dell’emigrazione: l’Ufficiale giudiziario e le mie cento sterline.

L’Ufficiale giudiziario era un giovanotto pallido dall’aria triste che lavorava per la London Electric Company. Fortunatamente per noi, nello svolgere il suo lavoro non era particolarmente bravo; bastavano i travestimenti più banali – i baffi finti di Esmond, un cilindro o un berretto da operaio, i miei occhiali scuri – a confonderlo per i pochi secondi necessari a fuggire. Ci guardava con aria addolorata, la fronte corrugata per la sorpresa, mentre noi svoltavamo rapidamente l’angolo o scomparivamo alla sua vista giù per la metropolitana.

L’Ufficiale giudiziario mi faceva sentire in colpa, perché in un certo senso la sua presenza ossessiva mi inchiodava ingiustamente alle mie responsabilità. Nessuno mi aveva mai spiegato che l’elettricità andava pagata; e a Rotherhithe Street lampade, stufe elettriche e fornelli funzionavano a pieno regime giorno e notte. Quando arrivò la prima, bolletta, carissima, pensammo per un momento di contestarla davanti a un tribunale basandoci sul fatto che l’elettricità è un Dono di Dio – un elemento, come il fuoco, la terra e l’aria; ma alcuni amici avvocati ci assicurarono che non saremmo approdati a niente. Era impensabile pagare, quindi dalla casa di Rotherhithe Street ci trasferimmo in una stanza ammobiliata vicino a Marble Arch.

In qualche modo l’Ufficiale giudiziario riuscì a scoprire dove abitavamo. Ogni mattina, prima di andare al lavoro, sbirciavamo cauti dalla finestra per vedere se aveva imboccato la strada o era in agguato dietro un angolo. Abbandonammo con rimpianto ogni travestimento perché ormai li aveva già visti tutti parecchie volte. Se lo avvistavamo, ci infilavamo di nuovo sotto le coperte, perché Esmond sosteneva che fosse illegale, e forse anche una violazione della Magna Carta, consegnare una citazione a una persona a letto. A volte ci restavamo anche due giorni, per paura che il nostro aguzzino fosse ancora nel quartiere. Anche se ce li gustavamo, quei giorni perduti stavano diventando una fonte di irritazione per il capo di Esmond.

Ovviamente, in Inghilterra la vita era diventata insostenibile sotto più punti di vista. In più il giorno del mio ventunesimo compleanno avevo avuto un colpo di fortuna inaspettato, un fondo fiduciario di cento sterline, che stavamo cercando di utilizzare nel modo giusto.

Mia madre aveva aperto dei libretti di risparmio per tutti noi. Alla nascita di ciascun figlio aveva iniziato a depositare, una volta la settimana, sei pence su ciascun conto che, quando compimmo ventun anni, insieme agli interessi aveva raggiunto la somma di cento sterline. Fu una gran fortuna che le mie fossero ancora intatte, perché molti anni prima le mie sorelle maggiori avevano inavvertitamente perso una bella porzione dei loro risparmi in uno dei molti «investimenti maledettamente sicuri» di mio padre. Io e Debo l’avevamo scampata, perché eravamo state considerate troppo giovani per firmare per quella speculazione.

Nei primi anni Venti mio padre era stato avvicinato da un americano, dal nome romantico e apparentemente occidentale di «signor Reno», che gli aveva proposto un progetto peculiare. Il signor Reno aveva inventato una specie di serbatoio, di cui esibiva progetti e disegni; quando fosse stato costruito, il serbatoio Reno sarebbe stato in grado di scendere nelle profondità dell’oceano e riportare in superficie i tesori preziosi dell’epoca dei pirati e dell’Invincibile Armada spagnola. «Provate a pensarci – enormi forzieri pieni di lingotti d’oro!» esclamava mio padre strofinandosi le mani. Fece un enorme investimento personale e raccolse i soldi di zii e amici ansiosi di spartirsi l’oro dei pirati.

Ai cinque ragazzi Mitford più grandi fu permesso di mettere venti sterline dei risparmi che mia madre aveva accantonato per loro. Ricordo di aver versato calde lacrime di rabbia mentre mi descrivevano le enormi fortune che presto avrebbero posseduto – per non parlare di gioielli favolosi, pesanti catene d’oro, gemme inestimabili che senza dubbio il serbatoio del signor Reno avrebbe pescato. Ma mia madre fu inflessibile; io e Debo non avevamo ancora compiuto sette anni ed eravamo troppo piccole per prendere una decisione autonoma in campo finanziario.

Poco dopo io e Debo festeggiammo quando venimmo a sapere che il signor Reno era partito per l’America senza lasciare traccia. «Davvero disonesto da parte sua – non riesco a immaginare cosa deve avere avuto per la testa» disse Muv. Le altre sorelle cercarono di argomentare che io e Debo dovevamo accollarci la nostra parte di perdite, dal momento che se ce l’avessero permesso avremmo investito anche noi la nostra parte di denaro. Ma per una volta la giustizia prevalse e i nostri risparmi rimasero intatti.

Cento sterline sembravano proprio la somma giusta per emigrare. Non erano sufficienti a mettere in piedi un’attività o da investire in una rendita, ed erano troppe per spenderle tutte in qualche festa o cena al ristorante. Eppure con un terzo della somma si potevano comprare due biglietti di sola andata in terza classe per l’America e restava una bella cifra tonda, più di trecento dollari al cambio di allora, per sopravvivere finché non avremmo trovato lavoro.

Con nostra grande delusione il console americano a cui avevamo richiesto i documenti necessari non valutò affatto la questione in questo modo. Anzi, espresse grande sorpresa al pensiero che volessimo iniziare una nuova vita con un capitale così ridotto, disse che rischiavamo di finire a carico dello stato e che avremmo dovuto dimostrare un reddito di almeno quindici dollari la settimana prima che prendesse anche solo in considerazione l’idea di concederci il visto.

Sollecitammo parecchi amici – Philip Toynbee, Peter Nevile, Giles – suggerendo loro di firmare una carta che ci avrebbe garantito il loro sostegno finanziario nel caso ci fossimo trovati sul lastrico, ma ricevemmo soltanto fermi e indignati rifiuti. «Vi darà i documenti, vedrete; basta che diciate le Parole Magiche» ci ammonì Peter. Pareva proprio che le Parole Magiche fossero Terra delle Opportunità, Marcato Individualismo e Libera Iniziativa. Con l’aiuto di Peter, Esmond scrisse e mandò a memoria un breve appello in cui quelle parole rituali venivano ripetute parecchie volte e ci ripresentammo al cospetto del console. Non appena fummo entrati nel suo ufficio, Esmond incarnò la sua idea di sfrenato americanismo. «Senta» esordì, «io e mia moglie nutriamo una fiducia enorme, profonda e sincera nelle capacità del vostro gra-a-a-nde paese, la Terra delle Opportunità, gli Stati Uniti d’America, di offrire, attraverso il suo sistema di Libera Iniziativa, una vita modesta ma adeguata per quei giovani che, come noi, sono imbevuti dello spirito di un Marcato Individualismo». Continuò così per un po’, e negli occhi gli scintillavano autentiche Sincerità e Schiettezza.

Se Esmond aveva a un tratto assunto le sembianze di un incrocio tra il signor Oover di Zuleika Dobson e Spencer Tracy, il console sembrò non accorgersene. Come aveva anticipato Peter, quelle parole ebbero su di lui un effetto incredibile, quasi ipnotico. Con uno sguardo fisso nel vuoto – senza dubbio stava immaginando i grandi viali ventosi di qualche città del Midwest, brulicante di forti individualisti – pronunciò le parole di consenso: «Be’, credo che con voi ragazzi correrò il rischio».

Adesso che il viaggio stava diventando una realtà, Esmond ebbe un’idea che ci avrebbe permesso di girare per tutta l’America guadagnando soldi. Avremmo potuto portare anche qualche amico e offrire un tour di conferenze riguardanti diversi aspetti della vita britannica. La nostra idea dell’America, come quella di molti altri inglesi, era limitata e alquanto distorta. Ce la immaginavamo come un enorme paese di Babbitt con gli occhi sempre fissi sui reali inglesi, famiglia e sesso.

«I club femminili sono perfetti!» mi spiegò Esmond. «Ce ne sono in tutta l’America e questo è proprio il tipo di cosa per cui andranno matte! Spolperanno vivo Philip Toynbee.» Gli feci notare che era un pensiero assolutamente disgustoso, ma Esmond mi assicurò che era semplicemente un modo di dire americano che aveva appena imparato da Peter.

In poco tempo mettemmo insieme tre conferenzieri. Sheila Legge, una delle ricercatrici di mercato ex ballerine di fila, acconsentì prontamente e Esmond le assegnò subito un tema da svolgere: «Uomini, dal Ritz alla bancarella di fish and chips». Riuscimmo facilmente a convincere il giovane segretario di un ben noto poeta, che aveva appena lasciato il suo datore di lavoro in una di quelle scenate petulanti che spesso contraddistinguono questo genere di relazioni, a prepararsi a essere divorato dai club femminili; il suo tema, piuttosto suggestivo, era: «Da guardia reale a segretario di un poeta». Philip doveva parlare su «La vita sessuale all’università di Oxford» e offrire inoltre uno speciale per la Festa del Papà dal titolo «Arnold Toynbee, storico, ma prima e soprattutto “papà”». Io dovevo illustrare «La vita interiore di una debuttante inglese» (Esmond pensava che avrebbero gradito i racconti sulle deliziose cene e pranzi che ci proponevano di solito durante la stagione). Esmond sarebbe stato il coordinatore della spedizione e ogni tanto avrebbe contribuito con conferenze su argomenti infallibili come «La principessa Elisabetta è davvero il mostro di Glamis?», «La verità su Winston Churchill», «Come conoscere il re» e «La rivoluzione si diffonde a Eton».

Nell’atmosfera di eccitazione quasi elettrica che Esmond riusciva sempre a creare quando sviluppava un nuovo progetto, noi cinque ci incontrammo per stilare un programma da spedire alle agenzie che organizzavano conferenze. Iniziava in tipico stile Esmond: «Gentili signori, il re Giorgio e la regina Elisabetta non sono le uniche persone che quest’anno lasciano queste coste per l’America. Stiamo arrivando anche noi».

Ci spingemmo anche al punto di farci fare una serie di fotografie speciali da allegare alle descrizioni delle conferenze. Un Philip dall’aria lasciva accompagnava «La vita sessuale all’università di Oxford» e un Philip dall’aria filiale quella per la Festa del Papà. Sheila, nell’atto di mostrare generosamente la parte del corpo da cui, ipotizzammo, era nato il suo soprannome,1 era ritratta in una posa seducente accanto all’ingresso principale del Ritz; l’ex segretario del poeta era mollemente adagiato nelle vicinanze con in mano due oggetti simbolici, un piccolo volume e un cappello da guardia reale. Ma non appena riuscimmo a mettere insieme tutto quel materiale promettente i nostri colleghi conferenzieri cominciarono a fare marcia indietro, uno dopo l’altro. Un cambiamento improvviso nella vita sentimentale di Philip richiese la sua presenza in Inghilterra; il segretario del poeta fece la pace con quest’ultimo e riebbe il suo impiego; Sheila non riuscì a trovare i soldi per il biglietto. I nostri sforzi frenetici per sistemare la situazione non sortirono alcun effetto. Con grandi rimpianti decidemmo di rivedere i nostri piani e di far saltare il tour di conferenze.

Poi ci concentrammo sull’ottenere lettere di presentazione da qualunque conoscente fosse stato in America o conoscesse qualche americano. Erano indirizzate a una quantità di persone diverse come quelle a cui le avevamo chieste: artisti di Greenwich Village, magnati di Wall Street, gente del cinema, poeti, vecchie e gentili signore, giornalisti, pubblicitari.

Le mie idee sugli americani provenivano da fonti diverse, dai libri letti da bambina, come Piccole donne e Ciò che fece Katy, fino a Hemingway e ai film. Sapevo che mangiavano cibi strani e dai nomi poco appetitosi come squash, grits, hot dogs e corn pudding.2 D’altro canto, i cookies, i biscotti, avevano davvero un suono delizioso. Me li immaginavo come piccoli dolcetti a forma di cuochi, cooks, con grembiuli e cappelli di glassa. Dopo avere visto La foresta pietrificata ne dedussi che gli americani facevano spesso l’amore sotto i tavoli mentre le pallottole dei gangster sfrecciavano nell’aria.

Peter Nevile era l’unico tra i nostri conoscenti a essere già stato in America e Esmond, con la sua consueta precisione, gli chiese aiuto per aggiornarci sulla lingua, gli usi e le maniere che avremmo incontrato nella Terra delle Opportunità. Trascorremmo una serata a casa sua per farci iniziare.

«Non dite mai, “evviva”. Dite “viva”» ci spiegò pazientemente Peter. «In America tutto si muove più in fretta; la gente non si presenta alle elezioni, ma concorre per una carica. Se una persona dice che è sick, non significa che sta per vomitare; significa che è malata. Mad vuol dire arrabbiato, non pazzo. Non cercate il deposito bagagli, ma il guardaroba. Un nice joint è un bar carino, non un pezzo di carne arrosto...» Elencò una serie di nomi propri in cui ci saremmo imbattuti, alcuni presi da titoli nobiliari inglesi, come Earl e Duke, altri da stati americani come Washington, Georgia, Florida. «D’altro canto» continuò, passando all’accento americano mentre si entusiasmava per l’argomento, «sarà difficile trovare qualcuno che sia stato battezzato Viscount o New York. Non c’è una vera e propria logica». Ci spiegò come usare gotten e you betcha (da non pronunciare mai, in nessuna circostanza, you bet you) e ci riempì di una certa quantità di informazioni sbagliate sul fatto che pediatrician era un nome simpatico per definire uno specialista in calli e mortician un musicista con tendenze necrofile che suona solo ai funerali.3

«Twenty si pronuncia “twenny”» continuò Peter, «e state attenti a non pronunciare nemmeno la prima “t” di interesting. Poi è meglio che impariate qualche espressione utile per fare conversazione. Per esempio in genere la gente dice I’ll be seeing you invece di goodbye. A questo punto potrete rispondere Not if I see you first, il che dimostrerà che siete bene attenti, svegli e divertenti. Invece farete ridere tutti se direte Abyssinia.4 Un’altra cosa: se qualcuno vi rivolge un complimento – come stai bene, che bel vestito e così via – dovreste rispondere Thank you invece di borbottare qualcosa di incomprensibile. Dovete anche stare attenti a ciò che è considerato un complimento; per esempio un americano può dire “Quel vestito è come the cat’s pajamas”.5 Non prendetela come una critica, perché è esattamente il contrario».

Quando suggerii, in quella che immaginavo fosse un’ottima espressione idiomatica americana, che secondo me era ormai ora di “telare” a casa, l’ultimo consiglio di Peter fu: «A New York avrete bisogno di un avvocato corrotto; senza non potete cavarvela. Perché non mandate un telegramma al console britannico e gli dite di mandarvene uno all’arrivo della nave?».

1. Leg, gamba.

2. Zucca, crema di farina di mais, panini con salsiccia e dolce a base di mais.

3. Pediatrician, pediatra, mortician, impresario di pompe funebri.

4. Abyssinia suona un po’ come I’ll be seeing you, ci vediamo.

5. Espressione idiomatica tipica degli anni Venti che significa «il massimo». Letteralmente, «il pigiama del gatto».