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Per me la vita a Bilbao fu più un sogno, che un sogno divenuto realtà. Mi sembrava assolutamente straordinario trovarmi lì con Esmond e non riuscivo a rendermi conto che vivevo in Spagna davvero; e pensare che a poche centinaia di chilometri, al di là del mare, c’era Rutland Gate, immutato, e la vita tranquilla e senza scosse della famiglia scorreva quieta, scandita soltanto dalla colazione, dal pranzo, dal tè, dal notiziario delle sei della BBC, dalla cena, dall’ora di andare a letto, e tutto seguiva il suo normale decorso... Riuscivo a immaginare le zie che venivano a prendere il tè e con aria indifferente domandavano a mia madre: «Dov’è Decca?». «A Dieppe con le gemelle Paget» avrebbe risposto placida Muv. «Dalle lettere che mi arrivano, sembra che si stia divertendo molto.»

La realtà sembrava ancora ruotare intorno a casa mia, alla famiglia, e aveva poco a che fare con gli sferraglianti treni francesi di terza classe, l’affollato albergo di Bayonne e il rollio della nave da carico degli ultimi dieci giorni; oppure con la cupa e seria città di Bilbao dove ci trovavamo ora. Era come vivere in una eterna visione.

Mi sentivo confusa, una convalescente appena ripresasi dall’effetto dell’anestesia dopo un’operazione importante, che aveva amputato in un colpo solo tutti i vecchi legami, le abitudini, le regole di vita.

Esmond, al contrario, si abituò immediatamente alla vita e al lavoro di Bilbao. Io lo seguivo, entrando a passo svelto in uffici governativi, sale stampa, centri informativi per ottenere appuntamenti per interviste e articoli. Cercavo di mettere a fuoco l’enorme macchia sfocata di quella grigia cittadina portuale, per comprendere l’eroismo della sua gente pallida e determinata, che svolgeva senza esitazioni i propri compiti quotidiani all’ombra della consapevolezza di un attacco imminente.

Quel febbraio, il fronte era ancora tranquillo. Gli eserciti si stavano scontrando nella battaglia di Madrid. A Bilbao c’erano pochi giornalisti stranieri e chi arrivava riceveva un trattamento principesco. Con nostra grande sorpresa scoprimmo che l’Ufficio per la stampa straniera avrebbe fornito vitto e alloggio in uno dei più grandi alberghi.

Anche se la guerra era lontana, la città rischiava la fame. Carne, latte, uova e burro erano introvabili. Colazione, pranzo e cena non si distinguevano perché consistevano tutti in riso e garbanzos (ceci). Nei caffè si poteva ordinare una cioccolata nera in tazza, densa e dolce, accompagnata da fette di pane grigio. Bambini affamati si riunivano attorno ai clienti implorando un cucchiaio di cioccolata o un pezzo di pane.

Dopo qualche giorno a Bilbao fummo portati al fronte da alcuni impiegati dell’ufficio stampa. Fu un viaggio lento, in un’auto dell’esercito, su chilometri e chilometri di piste di montagna dissestate. I nostri amici dell’ufficio stampa basco ci indicarono gli accampamenti lungo la strada.

«Quello là a destra è un battaglione comunista... Più avanti potete vedere una compagnia di anarchici... A sinistra ecco un battaglione del partito cattolico nazionalista basco...» Pareva che in quella parte della Spagna l’esercito fosse organizzato in base al credo politico.

Il fronte era in alto, su una collina, e dava su un profondo burrone. Al di là del burrone, a meno di un chilometro di distanza, si vedevano i soldati e i cannoni nemici. «Italiani» disse l’uomo dell’ufficio stampa, e sputò.

Dalla nostra parte c’erano alcuni cannoni e mitragliatrici, sistemati a intervalli regolari.

Il nostro compagno mi suggerì di provare a sparare con il fucile. Mi fece vedere come inquadrare nel mirino le minuscole figure sull’altra sponda del burrone. Premetti il grilletto, che scattò con una spaventosa detonazione, spingendomi all’indietro. La pallottola si conficcò in un albero vicino. Il mio «colpo» fu restituito dal nemico nella stessa maniera disarticolata.

La mia strana sensazione di irrealtà si acuì.

Sulla via del ritorno ci fermammo per poco in un paesino nella «terra di nessuno», una striscia di parecchi chilometri tra i due fronti, in un altro settore.

Nelle strade era ammucchiata la spazzatura e il paese sembrava quasi completamente deserto. Alcune donne anziane con lunghe vesti nere stavano setacciando i rifiuti. Ci dissero che, nonostante l’evacuazione, avevano preferito restare nelle loro case, sfamandosi con le verdure e i polli che riuscivano ad allevare.

Le nostre giornate a Bilbao cominciarono ad assumere un andamento regolare. La mattina andavamo all’Ufficio stampa alla ricerca di notizie o intervistavamo i funzionari del governo per avere materiale per gli articoli. Il pomeriggio lo passavamo a battere gli articoli per poi spedirli al «News Chronicle». All’epoca a Bilbao non succedeva granché. La città sembrava bloccata in uno stato di ansiosa attesa. I caffè erano pieni di persone che ascoltavano i notiziari alla radio, e dopo si alzavano rispettosamente in piedi, attente e silenziose, quando venivano trasmessi non uno, ma i quattro inni che simboleggiavano il Fronte unito – l’inno nazionale basco, quello spagnolo, l’Internazionale e l’inno anarchico.

La curiosità e l’ansia per ciò che doveva ormai essere accaduto a casa mi consumavano.

Un giorno, tornando in albergo, ci dissero che il proconsole basco del consolato britannico era appena passato a cercarci. Ci spaventammo molto. Cosa poteva volere? Nei nostri viaggi avevamo attentamente evitato ogni contatto con i consolati inglesi.

La mattina seguente il proconsole tornò. Era un basco giovane e di bell’aspetto e parlava inglese con un forte accento. Da lui venimmo a sapere che un «proconsole» è un cittadino della nazione in cui si trova il consolato e che costituisce una specie di legame tra il consolato e le autorità locali.

«Ho ricevuto un telegramma» disse con un gran sorriso. «È in codice. Credo che riguardi voi due.»

«Possiamo vederlo?» domandò Esmond.

«Sì, certo. Eccolo, ed ecco il libro dei codici. Vediamo se insieme riusciamo a decifrarlo.» Intuimmo che non doveva essere una procedura molto ortodossa, ma accettammo subito di aiutarlo.

Il telegramma diceva: TROVATE JESSICA MITFORD E CONVINCETELA A TORNARE. Era firmato da Anthony Eden.

«Adesso devo rispondere. Cosa posso dire?» domandò il proconsole. Lo aiutammo a scrivere la bozza e a codificare la risposta: TROVATO JESSICA MITFORD. IMPOSSIBILE CONVINCERLA A TORNARE.

«Di solito è il signor Stevenson, il console britannico, a occuparsi di questo genere di cose. Ma sfortunatamente ora si trova a Bayonne per affari e potrebbe non tornare per qualche giorno.»

Garantimmo al proconsole che aveva gestito il problema in conformità alla più augusta tradizione diplomatica inglese e che nessuno, al suo posto, avrebbe saputo far di meglio. Tuttavia attendemmo il ritorno del signor Stevenson con grandi timori; non sapevamo perché, ma prevedevamo che si sarebbe dimostrato un osso molto più duro.

Il nostro incontro con il proconsole ci indusse a pensare all’urgenza di sposarci. Ci informammo presso le autorità basche, che con nostra grande sorpresa ci dissero che anche nel bel mezzo di una guerra civile le persone sotto i ventun anni non potevano sposarsi senza il consenso dei genitori. Alcuni anarchici che incontrammo in un caffè ci proposero i servizi di un prete loro prigioniero («Possiamo trovare il modo di costringerlo a farlo» dissero), ma avrebbe significato due giorni di viaggio e non eravamo certi che un matrimonio del genere sarebbe risultato legale.

Qualche giorno dopo fummo convocati al consolato inglese per un colloquio con il signor Stevenson.

Il signor Stevenson, un uomo di mezza età in abiti di tweed con baffi rossicci e una calvizie incipiente, era seduto dietro una grossa scrivania in quel triste angolino d’Inghilterra in terra straniera. Era circondato da ordine e pulizia inglesi e trasudava una mancanza di fascino tipicamente britannica, diversamente dal piacevolissimo proconsole. Non si alzò per salutarci.

«Voi due avete provocato un sacco di guai» annunciò in tono brusco e ufficiale. «Ho ricevuto istruzioni di rispedirla immediatamente in Inghilterra, signorina Mitford. Quando può essere pronta alla partenza?»

«Ma io resto qui, non ho alcuna intenzione di andarmene.»

«Signor Stevenson, immagino che lei sia consapevole di non avere né l’autorità né il potere di costringere la signorina Mitford ad andarsene contro la sua volontà» proruppe Esmond, assumendo quel suo tono da «ne so più di un console».

Suonò così autoritario e padrone della situazione che mi sorpresi a provare una certa compassione per Stevenson. Non poteva sperare di battere un avversario del genere. Discutemmo per mezz’ora, poi tornammo in albergo. Il primo round con il signor Stevenson era finito in parità. Non era riuscito a raggiungere il suo obiettivo, ma la nostra sicurezza era stata pesantemente minata.

Il giorno dopo venne a trovarci.

«Signorina Mitford, ho appena saputo che sua sorella e suo cognato arriveranno domani a Bermeo su un cacciatorpediniere inglese. Lei deve rendersi conto di avere procurato alla sua famiglia spaventose angosce, con le sue azioni. Credo che il minimo che possa fare sia andare a incontrare sua sorella. È venuta dall’Inghilterra insieme al marito solo per vederla e assicurarsi che lei stia bene.»

«Quale sorella?» domandai.

«La signora Rodd. Domani vado a Bermeo per affari, devo incontrare il capitano del cacciatorpediniere. Vengo a prenderla alle sei di domattina.»

«Le faremo sapere cos’abbiamo deciso» replicò Esmond in tono fermo, mostrandogli la porta.

Discutemmo per ore se dovevo andarci oppure no. Se avessi rifiutato, probabilmente Nancy e Peter sarebbero venuti a Bilbao e avrebbero fatto scene imbarazzanti. D’altro canto, forse avevano pensato di rapirmi e costringermi a salire a bordo del cacciatorpediniere.

«Certo, io sono molto più forte di Nancy, ma il signor Stevenson ha un’aria disgustosamente energica. È probabile che lui e Peter riuscirebbero a trascinarmi sulla nave.» Alla fine decidemmo che era meglio che ci andassi; il pensiero di Nancy e Peter che piombavano all’albergo era troppo orribile per essere anche solo preso in considerazione.

Il porto di Bermeo distava solo una cinquantina di chilometri da Bilbao, ma ci mettemmo quasi due ore a percorrere lentamente quelle strade di montagna sterrate.

Come al solito, diluviava. Il proconsole ci aveva raccontato che gli spagnoli tendono a dare la colpa ai bambini inglesi delle loro piogge perenni, per via della filastrocca: «Pioggia, pioggia, vai in Spagna e resta là in campagna».

Il signor Stevenson mi condusse a una panchina sul molo e scomparve per occuparsi dei suoi affari.

Trascorsero le ore; nessun segno del cacciatorpediniere. Non avevo niente da leggere, nessuno con cui parlare, e l’attesa mi sembrò eterna.

Alla fine la nave comparve e gettò l’ancora, e ufficiali e marinai scesero a terra. In realtà ero molto eccitata all’idea di vedere Nancy ed estremamente ansiosa di avere notizie da casa. Peter Nevile aveva consegnato la lettera secondo gli accordi? Muv e Farve avevano capito che non c’era nulla di cui preoccuparsi? Si erano angosciati troppo? Si erano arrabbiati da morire oppure erano solo lievemente irritati? Avevo migliaia di domande da rivolgere a Nancy.

Cercai il gruppo del cacciatorpediniere ma non trovai traccia di Nancy e Peter. L’alto e bel capitano della nave si avvicinò e lo trovai molto inglese e familiare, dopo tutte quelle settimane tra gente di pelle più scura. Avrebbe anche potuto essere una delle pecore australiane del periodo dei balli delle debuttanti.

«Signorina Mitford? Senta, mi dispiace moltissimo, ma sua sorella alla fine non è venuta. Che peccato. Però vorremmo invitarla a bordo per pranzo, dev’essere affamatissima.» Era vero; non avevo mangiato niente tutto il giorno, perché eravamo partiti troppo presto per la colazione a base di riso e garbanzos dell’albergo.

«Mi piacerebbe, ma non posso.»

«Oh, che peccato. Ci farebbe davvero piacere. Pollo arrosto, crema di pane, piselli, purè di patate, torta al cioccolato, piatti così, sa.» Pronunciò quelle parole lentamente, con enfasi tentatrice. «A dirle la verità il cuoco di bordo ha davvero superato se stesso in onore della sua visita, perché eravamo sicuri che sarebbe venuta.»

Al pensiero del pollo arrosto e della torta al cioccolato sentii letteralmente i succhi gastrici al lavoro, ma fui irremovibile. Non potevo andarmene subito, ero venuta con il signor Stevenson e sarebbe stato scortese pranzare altrove; ma il capitano aveva una risposta per demolire ogni obiezione.

«Be’, le dirò la vera ragione per cui non posso venire. Ho l’orribile sensazione che mi metterete sotto chiave non appena sarò salita a bordo, e mi riporterete in Inghilterra.»

Lui ne fu scandalizzato. «Che idea assurda! Ma per chi ci ha preso, per rapitori? Senta, le do la mia parola d’inglese che non faremo nulla del genere. Lei verrà a bordo per pranzo, poi la riporteremo a riva in tempo perché riesca a tornare a Bilbao con il signor Stevenson.»

Scrutai attentamente il suo viso aperto, giovanile. Quegli occhi azzurri e seri fissarono i miei; nessuna traccia di dissimulazione. Non aveva certo l’aspetto del truffatore – ne dedussi rapidamente che sarebbe stato incapace del minimo gesto ingannevole e con una parte del mio cervello mi chiesi che genere di salsa avrebbero accompagnato al pollo.

«Bene... lasci che telefoni a Esmond. Gli avevo promesso che non sarei salita a bordo in nessuna circostanza.»

Chiamai Esmond in albergo e gli riferii cos’aveva detto il capitano.

«Non andarci» disse lui. «È un trucco, è chiaro. Digli che ti portino il pollo arrosto a riva – anzi, potresti anche mettermene da parte un pezzetto.»

Dissi al capitano che avrei dovuto declinare l’invito e la sua espressione ferita mi mise così a disagio che non ebbi cuore di aggiungere il danno alla beffa facendomi portare il pranzo a terra.

Quel pomeriggio si trascinò a lungo. Rimasi seduta sulla panchina, altezzosa, finché al tramonto, rigida di freddo e rabbia, tornai a Bilbao con il signor Stevenson. Dentro di me ero infuriata con Esmond perché era stato iper-prudente a proposito di quel pranzo. Quel simpatico capitano non mi avrebbe sicuramente mai ingannato, dopo avermi dato la sua parola d’onore.

Al mio ritorno lo trovai che camminava avanti e indietro, in preda a una furia cieca. Aveva appena ricevuto un telegramma da Hastie, lo studio di avvocati di mio padre. Diceva: SIGNORINA JESSICA MITFORD SOGGETTA TUTELA TRIBUNALE STOP SE LA SPOSA SENZA AUTORIZZAZIONE GIUDICE RISCHIA ARRESTO. Ne fui disgustata e molto turbata. In tutte le ore trascorse a chiedermi cosa avrebbero potuto architettare i miei, e quali tentativi avrebbero messo in atto per farmi tornare a casa, non mi era mai passato per la testa che avrebbero potuto minacciare la prigione. Si trattava quindi di una vera e propria dichiarazione di guerra. Stavo cominciando a capire l’atteggiamento intransigente di Esmond verso la mia famiglia, che non era affatto troppo drammatico e inutilmente rigido, ma molto più realistico del mio.

Poco dopo questo episodio il signor Stevenson si rifece vivo. Stavolta tirò fuori un «asso dalla manica» a cui non riuscimmo a opporci. Ci fece notare che il governo basco contava moltissimo sul contributo britannico per evacuare i rifugiati (donne e bambini), dell’offensiva prevista. Minacciò di rifiutarsi di collaborare all’evacuazione finché non avessimo accettato di lasciare volontariamente il territorio basco. Dal momento che ci eravamo stabiliti a Bilbao come ospiti dell’ufficio stampa del governo e contavamo sul loro aiuto per ottenere informazioni per gli articoli, avrebbe comunicato all’ufficio stampa che se non avesse troncato ogni rapporto con noi avrebbe ritirato ogni genere di contributo inglese ai rifugiati.

Questo incredibile ricatto mi rese consapevole della potenza e della mancanza di scrupoli delle forze alleate contro di noi. In un tempestoso incontro finale con il signor Stevenson ci arrendemmo; ma Esmond pretese in cambio il nostro ritorno non in Inghilterra, ma nel sud della Francia. Il giorno dopo ci imbarcammo su un cacciatorpediniere per St-Jean-de-Luz.