5.
"Ma a volte forse perché son giovane
mi manca una ragione".
Non so mai bene cosa rispondere quando qualcuno mi chiede di descrivere la mia quotidianità nella latitanza; quando potevo lavoravo - in Messico mi sono perfino iscritto all'università - ma più di ogni altra cosa era il cibo a occupare le mie giornate. Ero infatti un latitante bulimico.
Lo diventai subito, dopo un paio di mesi ero già aumentato di una trentina di chili. Bernard el gordo (il ciccione) mi chiamavano i miei amici sudamericani.
La bulimia era figlia di un vecchio trauma. Nell'agosto del 1977 erano state inaugurate le carceri speciali; non riuscendo a cogliere la differenza fra Lotta Continua e le Brigate Rosse, la burocrazia penitenziaria, che mi riteneva un pericoloso terrorista, pensò bene di spedirmi a Cuneo. Ero con i primi venti "nuovi giunti"; ci chiusero in uno stanzone e uno alla volta ci massacrarono di manganellate. Vivevo nel terrore. Ogni mattina alle cinque prelevavano uno di noi dalla cella e lo portavano in un sotterraneo dove lo rimassacravano.
L'obiettivo era annullare ogni forma di dignità umana in modo da creare un ambiente favorevole al pentitismo. Dormire era impossibile, la notte facevano la conta ogni dieci minuti e ti puntavano un faro sugli occhi. Di giorno tenevano la radio e la televisione a tutto volume. Quando passava il carrello del rancio, ti sfidavano a mangiarlo, assicurandoti che ci avevano appena pisciato dentro. La doccia settimanale era occasione di divertentissimi scherzi. Quello preferito era di lasciarti insaponare per bene e poi chiudere l'acqua con l'annuncio che il tempo era scaduto. La sala colloqui sembrava un acquario; incontravo i miei familiari chiuso in una gabbia di vetro antiproiettile. Le conversazioni erano registrate.
Decidemmo di ribellarci. Riuscimmo, anche se tra mille difficoltà, ad aprire un dibattito con i detenuti degli altri carceri speciali sparsi per l'Italia. Il "kampo"di Favignana era per il suicidio, altri per la rivolta, noi iniziammo lo sciopero della fame a oltranza e tutti ci seguirono. Dopo dieci giorni di sola acqua, la direzione decise di trattare. Strappammo qualche piccola concessione e soprattutto la promessa della fine dei pestaggi.
Ero il più giovane e avevo vissuto come un incubo quei giorni di lotta disperata. Iniziai improvvisamente a ingurgitare cibo come un forsennato e non smisi finché non mi trasferirono in un carcere "normale".
Durante la latitanza, la mia incontenibile obesità diede, comunque, maggiore credibilità ai miei personaggi. E questo fu l'argomento preferito con la mia fidanzata che l'abbassava al rango di inestetismo.
"Fai conto di essere un poliziotto"le dicevo, "e di dover scegliere chi controllare tra due persone. Una è atletica, magra, in piena forma e l'altra assomiglia a Ollio, chi fermeresti?". A poco a poco la convinsi e nei momenti di intimità mi chiamava "il mio quintalino".
Solo nell'ultimo periodo messicano riuscii a dimagrire; a parte la scarsa qualità del cibo e delle bevande, ero rimasto sconvolto dalla miseria e dalla fame atavica che affliggeva oltre il cinquanta per cento della popolazione. Se uscivo di casa per andare dal macellaio o al ristorante, osservare quell'umanità dolente e affamata mi toglieva ogni stimolo, e il più delle volte il denaro destinato al piacere del mio stomaco finiva in quelle mani perennemente tese. Il senso di colpa di essere gringo era più efficace di un corso Weight Watchers.
Con il mio ritorno in Italia e nelle patrie galere la bulimia riesplose distruggendomi il metabolismo.
"Di grassi nel sangue ha l'equivalente di quattro etti di burro per litro" tuonavano i miei avvocati nelle conferenze stampa e nelle udienze del Tribunale di Sorveglianza che doveva decidere sull'istanza di libertà per malattia. Anche le autorità carcerarie erano favorevoli alla concessione del differimento della pena, probabilmente preoccupate dal fatto che tenevo sempre sotto braccio il libro "Storia del cannibalismo in Europa".
In quel periodo non ero l'unico a dare pensieri alla direzione. Un mio concittadino, incarcerato per rapina, aveva deciso che in galera non ci voleva stare. Per uscire non scelse né la via processuale, né quella dell'evasione. Voleva essere cacciato via e ci riuscì.
Girava per il carcere con uno scolapasta di plastica rossa in testa, gli occhi bassi e il passo breve e nervoso; in mano teneva un rettangolo di cartone con su scritto a chiare lettere "tessera del K.G.B.". Ogni giorno, per mesi, riuscì a farsi ricevere dal direttore dal maresciallo, dall'ufficio matricola, dal cappellano, dal medico e a tutti chiedeva: "E' arrivato l'ordine del mio trasferimento a Mosca?".
Tentarono di toglierselo di torno, ma la sua fama era arrivata ovunque nell'universo carcerario e tutti gli altri istituti di pena lo rifiutavano. Lo blandirono, lo picchiarono perfino, ma lui tenne duro, finché, esasperati, trovarono il modo di liberarsene con un referto medico che attestava scientificamente la sua incompatibilità con l'ambiente.
Fedele al suo ruolo, alla guardia incaricata di aprire l'ultimo cancello che lo separava dalla libertà, sfoggiando ancora una volta lo scolapasta rosso, mostrò la sua tessera di agente segreto e disse:
"K.G.B., vado in missione".
Parigi è il posto giusto per diventare bulimici, una sapiente e antica cultura del convivio ti insegna l'importanza della qualità nella quantità. Questo concetto fondamentale l'ho capito subito: ho imparato a frequentare i posti giusti e a girare al largo dai Mac Donald's. Con un'attenta verifica incrociata di più guide sono arrivato presto a selezionare quanto di meglio offriva il mercato.
Iniziavo la mattina con una superba colazione in una pasticceria dalle parti del Boulevard des Italiens: cappuccino appena tiepido con una spruzzata di cacao misto a zucchero di canna, tre brioche con la crema, e un bicchiere di Perrier prima di immergere il cucchiaino in una delicata mousse al kiwi. A metà mattina raggiungevo Rue de Rivoli, dove c'era un bistrot che annoverava un C“tes du Rh“ne e un paté de foie gras degni del loro nome. Per il pranzo, se non mangiavo a casa, avevo una vasta scelta di brasserie, a seconda delle voglie del giorno. La merenda, a base di sandwich (per non esagerare con gli zuccheri) la consumavo di solito dalle parti della Madeleine, dove c'era un alsaziano che era un vero maestro nel difficile rapporto tra tipo di pane, salsa e carne. Meritava un dieci e lode anche per le birre.
La scelta del ristorante per la cena mi metteva sempre un po' in ansia per cui cominciavo a pensarci già al mattino. Di solito privilegiavo i ristoranti regionali francesi, ma non potevo trascurare l'internazionalismo gastronomico che mi imponeva l'incontro con altre culture. Alle quali dedicavo un paio di serate a settimana, per zone geografiche: cinese, vietnamita, tailandese, indiana, pakistana afgana, cubana, messicana, argentina e così via.
Una delle norme di sicurezza del latitante consiglia di non frequentare mai gli stessi ristoranti; la osservai solo con quelli dove si mangiava male. Sono convinto che riguardi solo i latitanti magri, un cliente obeso e famelico è certamente il migliore e nessun oste vorrebbe mai perderlo.
Non potendo andare ogni giorno al ristorante, ed essendo il mio palato sempre più esigente, imparai a cucinare. Prima ci aveva sempre pensato la mamma (cuoca eccezionale e versatile), mentre da quel punto di vista, poco mi era servita l'esperienza con gli scout, dai quali avevo imparato solo a cuocere la pasta e le salsicce alla griglia.
Affrontai il problema in modo scientifico. Studiai i testi sacri, poi le varie scuole di pensiero (divenni un acerrimo nemico della nouvelle cuisine, soprattutto per la scarsità delle porzioni) e munito della giusta strumentazione iniziai a creare sformati, arrosti, stufati, dolci. Minimo per quattro. Non era colpa mia se le ricette indicavano sempre quantità di ingredienti per sfamare da quattro a sei persone e del resto non si poteva buttare via tutta quella roba. Per problemi di sicurezza, difficilmente potevo invitare i miei amici a casa e quindi, se non c'era Alessandra, mi mettevo a tavola quasi sempre da solo. A dire la verità anche i miei amici mi invitavano poco a casa loro e quando capitava, pretendevano un rimborso; insomma preferivano incontrarmi al ristorante dove ognuno pagava per sé. Quando uno è grasso è facile preda di quei luoghi comuni tipo "meglio comprarti un vestito che invitarti a cena"e altre spiritosaggini.
Nel preparare i cibi preposti a deliziare il mio palato e a calmare l'incontenibile appetito, impiegavo tre o quattro ore e dedicavo anche un'intera mattinata all'acquisto degli ingredienti nei migliori negozi. L'intera mattinata della domenica era consacrata a tirare la pasta per tortelli, ravioli e cappellacci. Anche la tavola era preparata con cura, dalla tovaglia, ai bicchieri, alle posate, e siccome i fiori mi hanno fatto sempre tristezza, al posto del classico vasetto mettevo un pupazzo di Poldo, l'amico bulimico di Braccio di Ferro.
Raggiunsi la maturità della mia arte culinaria creando io stesso ricette che sperimentavo a lungo prima di inserirle nel mio ricettario personale, dotandole di nomi che pescavo nella mia telenovela giudiziaria. Non intendo citarli perché in carcere ci sono già stato abbastanza.
La cultura del buon bere l'avevo già nel sangue così non mi fu difficile avventurarmi nel magico universo vinicolo francese. Ogni pasto era sempre ben innaffiato; non bevevo esageratamente ma in giusto rapporto alla quantità del cibo. Al massimo per sei persone.
Per finire non mi negavo mai del buon cognac o calvados.
La digestione, all'inizio, era un problema complesso, la tensione di quella vita in fuga me la rovinava continuamente. Individuai abbastanza in fretta il rimedio: per una buona digestione l'ideale era andare al cinema. Perché è un luogo di tregua, una zona franca dove, spente le luci e iniziata la proiezione, l'unica realtà è quella della pellicola e le tante piccole realtà degli spettatori vengono annullate. La scelta del film era secondaria, nel senso che andavo nel cinema più vicino. Ho visto una quantità abnorme di boiate pazzesche, addirittura per più proiezioni, come le tre di un giallo-horror norvegese dove l'assassino era l'ascensore.
Se stavo a casa mi installavo comodo di fronte al televisore, la bottiglia di superalcolico e le sigarette a portata di mano. E per finire, nel complicato equilibrio della mia bulimia, il fumo ebbe presto un ruolo importante: riempiva le pause tra un'assunzione di cibo e l'altra.
Latitante, bulimico e tabagista.
Il periodo più scadente dal punto di vista qualitativo fu quello che trascorsi impersonando José. In quel quartieraccio da dove non potevo allontanarmi, non potei offrire alla mia bulimia il gusto e la raffinatezza a cui era abituata e dovette accontentarsi di cuscus, merguez e vino d'Algeria a buon mercato.
Oggi la bulimia è di moda, i media se ne occupano e le teorie si sprecano. Non per vantarmi, ma già dieci anni fa ero arrivato alla conclusione che il popolo degli obesi è assediato e oppresso. La parte di umanità rappresentata dai magri non sopporta la diversità degli altri più in carne e il suo vero scopo nella vita è di farli dimagrire.
Il magro ne sa una più del diavolo. Innanzitutto non solo conosce tutti i tipi di dieta, ma ne ha elaborata una di sua invenzione che consiglia a tutti i grassi che incontra. Nel caso in cui si trovi di fronte a un ciccione non ricettivo, è capace di tutto; sa passare fulmineamente dall'adulazione alla minaccia.
In casi disperati, il magro-dietologo si trasforma in uno strizzacervelli. Con la stessa professionalità con cui consiglia colazioni a base di caffè con aspartame, yogurt bulgaro e fette biscottate integrali (mai più di due), inizia ad accusare il povero obeso di avere dei problemi. Rapporti irrisolti con la maestra elementare o con il lattaio, ansia, insicurezza, complessi, qualsiasi cosa è un'arma nelle sue mani per colpevolizzare lo strato eccedente di adipe del malcapitato. (Nell'oscura speranza che questo si ricordi delle sue parole mentre sta addentando una fragrante sfogliatella ripiena di crema e gli vada di traverso nello sforzo di riportare alla luce, una volta per tutte, quanto rimane di irrisolto con il lattaio.) Se anche questo tentativo fallisce, la faccenda diviene ancora più grave e bisogna scavare di più fino ad arrivare alle origini di quell'insano appetito. Immancabilmente il magro arriva a scoprire, nascosta dal grasso, una volontà autodistruttiva e inizia la fase dei "Vuoi farti del male"e "Guarda che ti stai suicidando". Ogni morso della sfogliatella diventa un passo in più verso la morte.
Il magro dietologo e psichiatra, di fronte ai casi più pervicaci svela presto la sua terza specializzazione: internista cardiologo. Con dovizia enciclopedica elenca tutti i danni provocati dai trigliceridi e dal colesterolo, poi passa alla descrizione dei sintomi e del decorso delle malattie cardiovascolari. Fino alla morte.
L'obeso che ascolta si impressiona, pensa di sentire i primi dolori al petto, si vede già in carrozzella con una paralisi devastante e… gli viene fame! Non vede l'ora di sbarazzarsi del guastafeste per rilassarsi con la sua sfogliatella. Se il ciccione è anche tabagista, il magro salta tutti i preliminari e parla solo della morte, come se fosse questione di minuti.
In ogni caso, il mio ingrassare diventò subito oggetto di attenzione e preoccupazioni e dopo un po' non c'era nessuno che mi lasciasse mangiare in pace. Nonostante questo, potevo dirmi un privilegiato perché non avevo nulla di irrisolto con il lattaio, dato che la causa della mia bulimia era chiara.
Dai magri ho dovuto difendermi per lunghissimi anni. Con ogni mezzo.
Sono arrivato a mentire, a mangiare e fumare di nascosto; alcune volte di notte quando tutti dormivano. A non frequentare più persone che mi avevano strappato il giuramento della "dieta dal lunedì".
Purtroppo la mia bulimia aveva spesso delle manifestazioni gottose, e diventavo un ricercato ciccione e zoppo. In quei periodi mi davo alla latitanza anche per sfuggire ai miei amici; la gotta ha un decorso molto lento e dolorosissimo, ci mancava solo qualcuno che mi facesse una ramanzina.
A Città del Messico ho conosciuto un altro bulimico. Era un cantautore guatemalteco, i militari gli avevano torturato e ammazzato tutta la famiglia. Non cantava più ma la chitarra la portava sempre con sé.
Alcuni artisti messicani mi avevano fatto ascoltare le registrazioni di alcuni suoi vecchi concerti e devo dire che era veramente bravo.
Lo incontravo spesso a casa di amici seduto su una sedia, lo strumento sulle ginocchia e le mani che lentamente ma metodicamente portavano cibo alla bocca. Gli sedevo sempre vicino e insieme sembravamo due personaggi di Botero. La gente pensava che fossimo grandi amici nel vederci parlottare sottovoce per ore.
Con la stessa emozione di due tossici che ricordano un viaggio nel Triangolo d'Oro, noi parlavamo di cibo. Ci raccontavamo i pranzi e le cene di famiglia, i profumi, i sapori e le atmosfere di quando eravamo felici.
E' morto nel '90 in una foresta del nord del Guatemala al confine col Messico. In combattimento. Aveva lasciato la chitarra ed era entrato nelle file della guerriglia che difende gli indios dal genocidio.
A Parigi, la comunità degli esuli aveva da tempo compreso la portata delle devastazioni psico-fisiche prodotte dall'esilio, dalla tortura e dal carcere. Non superare la barriera sottilissima che divide il disagio psicologico dalla patologia vera e propria era un problema generalizzato in quell'ambiente.
La comunità sudamericana, in particolare, era falcidiata dai suicidi e dall'alcolismo. Il ceto intellettuale riusciva, sia pure con qualche difficoltà, a inserirsi e a superare il trauma, ma gli indios, ancestralmente legati alla loro terra, "mineros" o campesinos che fossero, vivevano l'esilio come se fossero stati relegati in una riserva.
Il dibattito aveva coinvolto tutti ed era stata creata una fitta rete di sostegno medico e umano per chi si ammalava, alla quale anch'io mi sono rivolto in più di un'occasione. Ogni comunità aveva i suoi casi, ma tutti ne erano a conoscenza per una sorta di tam-tam trasversale che fungeva da bollettino medico. Uno dei più noti era quello del mio amico Lolo.
Lolo era cileno. Il suo vero nome era Jorge. Jorge Saball Astaburuaga.
Figlio di anarchici catalani fuggiti dalla Spagna alla vittoria di Franco, era cresciuto nella sinistra cilena militando nelle file del MAPU. Disincantato e ironico, senza fanatismi ideologici, probabilmente per l'alta percentuale di sangue libertario che scorreva nelle sue vene.
Il giorno del golpe, 11 settembre 1973, suo padre tirò fuori da un baule una vecchia pistola tedesca, ricordo della guerra civile e gliela consegnò, esortandolo a fuggire. Aveva diciotto anni. Santiago era tutta un posto di blocco. Lolo e un suo amico poliziotto fedele ad Allende, di fronte all'ennesima via di fuga sbarrata, decisero di forzare il destino. La sparatoria li divise. Lolo raggiunse Parigi convinto che l'amico non ce l'avesse fatta. Si sbagliava, anche l'altro era riuscito a salvarsi e a rifugiarsi a Roma. Per anni si piansero reciprocamente fino all'incontro in un'assemblea di esuli cileni a Francoforte.
Nel frattempo Lolo si era già ammalato di cancro, gli orrori di Pinochet vivevano nel suo corpo sotto forma di un tumore che lo divorava a poco a poco. Gli esuli cileni di tutta Europa sapevano di Lolo e del suo cancro. Era una specie di simbolo della loro sofferenza. E della loro resistenza. Sembrava non avere altro scopo nella vita che la politica, godere della bellezza della musica, del rapporto con Vicky, la sua compagna, e di quello con i suoi amici. Ero uno di loro. Mi ha protetto e coccolato tra un'operazione e una chemioterapia, mi ha insegnato il segreto dell'autoironia per difendersi dalla brutalità della vita e ad amare la musica. Diceva sempre che ero un giovane barbaro. Aveva ragione, infatti la mia conoscenza musicale si limitava ai canti scout e a quelli di lotta.
Andavo a trovarlo e lui mi faceva ascoltare un disco dopo l'altro guidandomi per mano nel mondo della grande musica.
Fu l'ultima persona che vidi prima di partire da Parigi; arrivò trafelato, in ritardo, solo il tempo di regalarmi l'ultima cassetta.
Non l'ho più incontrato. Dopo il mio ritorno in Italia, Lolo fu uno dei fondatori e uno dei militanti più attivi del "Comité International Justice pour Massimo Carlotto".
In quel periodo i primi cedimenti della dittatura di Pinochet stavano permettendo a molti esuli di tornare in Cile. Lolo era tra quelli che potevano tornare subito. Rimase, invece, ancora per molto tempo a Parigi a lavorare per il Comité. Partì troppo tardi, giusto il tempo di tornare in Cile e di accorgersi che il cancro aveva sferrato l'offensiva finale.
Checho, amico carissimo di entrambi, mi teneva al corrente sull'agonia; un giorno mi disse che presto sarebbe entrato in coma e che era l'ultima occasione per salutarlo. Gli telefonai, ma quando sentii la sua voce lontana e un po' assente, riuscii solo a dire delle banalità, piangendo poi di vergogna per non essere stato capace di esprimergli quello che sentivo veramente.
Morì al rallentatore. Vicky, Checho e altri compagni lo assistettero fino alla fine, minuto per minuto. Gli tenevano la mano che lui stringeva ogni tanto per far capire che c'era ancora, lo pulivano, stando sempre ben attenti che gli auricolari fossero al loro posto e il registratore in funzione, perché Lolo voleva morire in compagnia della sua musica.
Se ne andò ascoltando De Gregori e la notizia fece il giro del mondo.
Era il 2 dicembre 1991. Tutti quelli che ebbero modo di farlo, tornarono a Santiago per l'ultimo saluto.
Checho ricordò Lolo davanti a centinaia di persone e sparse le sue ceneri in piazza mentre musicisti di strada intirizziti dal dolore eseguivano "Viatge a Itaca"del catalano Llu¡s Llach: "…Buen viaje a los guerreros si a son pueblo son fieles, el velamen de su bajel favorezca el dios de los vientos". Qualche tempo dopo, assieme a una lettera dei genitori di Lolo, mi arrivò il testo del discorso di Checho.
"Caro Lolo, mi è toccato il triste compito di salutarti per l'ultima volta. Sappiamo che se per un miracolo potessi vederci e ascoltarci, ci faresti un versaccio, dato che le cerimonie, i discorsi e le celebrazioni erano così lontane dal tuo modo di essere e di pensare.
Non importa. Queste parole sono per te, ma anche per noi…".
Sono convinto anch'io che quel giorno Lolo si sia annoiato e abbia mandato tutti a fare in culo. Quando ne parlavamo, mi diceva sempre che la morte non era un motivo sufficiente per perdere il buon umore.
In esilio aveva abbandonato il MAPU per abbracciare definitivamente l'anarchia. Detestava ogni aspetto della "cerimonialità"comunista, ma i comunisti amavano Lolo e, nel rispetto della diversità, lo commemorarono anche loro.
Figlio degli anni Settanta, sono cresciuto pensando che la morte possa essere leggera come una piuma o pesante come una montagna. Quella di Lolo va oltre il tetto del mondo.
Era rimasto in Francia per me, lui che amava così tanto la sua terra.
Aveva bruciato le sue ultime energie gridando che ero innocente. E io oggi non posso fare altro che chiedermi se la mia causa valesse tanto.
So cosa risponderebbe lui, ma non basta a scacciare la tristezza.
L'esilio, il tormento della nostalgia, il desiderio disperato di tornare in patria, la morte.
Lolo è tornato ed è morto circondato dall'affetto di amici e parenti.
Altri esuli sono stati meno fortunati, altri sono tornati pur sapendo che la morte li attendeva. Altre montagne dalle cime aguzze conficcate tra il cuore e la memoria. Prima Toms. E poi Xavier, abbattuto sull'uscio di casa: non aveva capito che non era ancora il momento di tornare in Honduras, e Belinda, l'amica peruviana di Pigalle, caduta tra le file di Tupac Amar£, e Carmen l'infermiera, colpita da un mortaio in Salvador con i due bambini che stava portando in salvo.
Lettere sgualcite, passate per troppe tasche o voci distorte dall'eco delle telefonate intercontinentali: una data, la causa della morte. Ma sono i perché che a volte non capisco. Di quelle scelte maturate in esilio, così terribili, così coraggiose e forse così sbagliate. Ho il sospetto che spesso siano state dettate dal destino di essere sopravvissuti, di aver raggiunto la salvezza percorrendo strade lastricate di sangue, torture, galera, errori e tradimenti. Tornare era forse l'unico modo per chiudere i conti con il passato. Altro non so dire. Preferisco ricordarli com'erano a Parigi, quando mi chiamavano "el gordo" e mi insegnavano ad affrontare la vita con dignità.
A quel tempo pensavo che ci saremmo rivisti, liberi e felici. Mi sembrava che il tributo pagato alla storia da quella generazione di rivoluzionari del terzo mondo fosse già immenso. Mi mancano tanto. So che un giorno andrò in quella piazza di Santiago dove sono state sparse le ceneri di Lolo e li incontrerò tutti. Un giorno.