9.

Ritorno.

 

"Lo sguardo è un cristallo a fuoco sugli anni".

 

Il mio ritorno dal Messico coincise con l'inizio della battaglia giudiziaria per ottenere la revisione del processo. La quale coinvolse larghi strati di opinione pubblica sia in Italia che all'estero. Si formarono Comitati di solidarietà in varie città italiane e uno internazionale con sede a Parigi e Londra.

Alla fine di un lungo iter propedeutico di fronte alla Corte d'Assise di Venezia, il 20 giugno 1988 il collegio di difesa presentò l'istanza di revisione alla Corte di Cassazione.

Nel frattempo, nel novembre del 1987, ero tornato in libertà per differimento pena, formula che indica una temporanea sospensione della carcerazione per dare modo al condannato di curarsi. Non riuscivo ad accettare carcere e condanna e cercai rifugio in una bulimia senza precedenti. Il metabolismo si alterò a tal punto da farmi diventare un soggetto a rischio di ictus e infarti, e il Tribunale di Sorveglianza decise di concedermi i primi otto mesi di libertà. Furono poi sempre reiterati perché non raggiunsi mai un livello di salute accettabile.

Nel gennaio 1989 la Cassazione concesse la revisione del processo, annullando la sentenza di condanna e rinviando gli atti alla Corte d'Appello di Venezia per il nuovo giudizio.

Il 20 ottobre dello stesso anno, quattro giorni (che mi saranno fatali) prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, iniziò il nuovo processo che terminò il 22 dicembre del '90.

La Corte, dopo quattordici mesi di istruttoria dibattimentale non emise una sentenza, bensì un'ordinanza di rinvio degli atti alla Corte Costituzionale perché non aveva le idee chiare su quale codice applicare. Era giunta a un giudizio finale di assoluzione per insufficienza di prove, ma si era posta il seguente dilemma: se si applica il vecchio codice l'imputato deve essere condannato, con il nuovo deve essere assolto con formula piena.

Gli atti ripartirono per Roma alla volta della Corte Costituzionale che il 5 luglio del 1991 stabilì con sentenza interpretativa che la Corte veneziana aveva compiuto un grave errore per aver ignorato le norme transitorie che imponevano, in questi casi, di assolvere l'imputato con la formula più ampia.

Gli atti ripartirono per Venezia dove la Corte d'Assise d'Appello doveva riunirsi per entrare cinque minuti in camera di consiglio, il tempo di scrivere il nuovo dispositivo e pronunciare la sentenza di assoluzione.

Intanto, (i tempi della giustizia si sa non sono propriamente fulminei) il Presidente della Corte, che mi aveva giudicato per ben quattordici mesi, per sopraggiunti limiti di età era andato in pensione. Il 21 febbraio del 1992 mi ritrovai di fronte a un altro Presidente e a un'altra Corte che, nella sua sovranità, decise di non ripetere l'istruttoria dibattimentale (si rimandava pertanto alla sola lettura degli atti) e nel giro di poche udienze il 27 marzo emise una sentenza che riconfermava la condanna a diciotto anni di reclusione del 1979. Un plotone di esecuzione.

Il giorno dopo, a meno di ventiquattro ore dalla sentenza, con una tempestività davvero inusuale, la Procura Generale spiccò un ordine di cattura e mi ritrovai di nuovo in carcere. Tutto ciò avvenne nell'incredulità e nello sconcerto generale perché nella storia della giustizia italiana non era mai accaduto che un condannato, con pena differita per motivi di salute dall'unico organo competente in materia e cioè il Tribunale di Sorveglianza, venisse incarcerato senza una precisa ordinanza dello stesso Tribunale.

In carcere sprofondai in un grave stato di abulia e bulimia. In parole povere, mi ingozzavo di cibo e dimostravo uno sconcertante disinteresse nei confronti di ogni cosa. Le mie condizioni si aggravarono e dopo quarantasette giorni tra udienze e visite mediche, il perito del Tribunale pronunciò queste parole: "Se fra qualche giorno non volete leggere il suo necrologio sui giornali, dovete scarcerarlo" A questo punto mi venne restituita la libertà per un anno. Probabilmente anche grazie alla pressione esercitata da parte dell'opinione pubblica che, indignata per la sentenza e l'arresto, aveva risposto all'appello dei Comitati ("Massimo a casa subito").

Gli atti ripartirono per Roma e finirono in Cassazione ma il processo era già segnato, infatti il 24 novembre del '92, un'udienza lampo chiuse per sempre il caso Carlotto.

Il 13 maggio del 1993 sarei dovuto tornare in carcere con la prospettiva di scontare la pena fino all'anno 2004.

In quell'ultima fase della telenovela giudiziaria, tra la fine di marzo del '92 e il 7 aprile del '93, giorno in cui venne concessa la grazia presidenziale, la latitanza tornò improvvisamente d'attualità.

Non c'era giornalista che non mi chiedesse cosa pensassi dell'eventualità di fuggire, ancora una volta come estrema possibilità di sottrarmi al carcere, a una condanna ingiusta.

In tutta onestà rispondevo che non venivo minimamente sfiorato da questa idea, ma ammettevo che la domanda non era fuori luogo. Le sorti processuali si erano capovolte, un'assoluzione annunciata e sottoscritta dalla Corte Costituzionale era stata sostituita, con la rapidità di un gioco di prestigio, da una condanna. Dopo diciassette anni, undici processi e una battaglia giudiziaria durissima, mi ritrovavo con dodici anni di residuo pena da scontare, una situazione psico-fisica di estrema debolezza e soprattutto un'accusa infamante con la quale in tanto tempo non ero riuscito a convivere.

A tutti non era sfuggito un piccolo calcolo matematico: la condanna era relativa a diciotto anni dei quali sei già scontati, ne rimanevano dodici che sommati agli oltre diciassette dell'intera vicenda, portavano a quasi trent'anni il coinvolgimento della mia vita nel caso. Un'assurdità che induceva tantissima gente a esortarmi alla fuga, non gli amici dei Comitati, beninteso, ma le persone che incontravo per strada, al bar, in edicola. Si avvicinavano, mi stringevano la mano e dopo qualche parola di circostanza mi sussurravano: "Scappa, sei malato, in carcere moriresti, hai già sofferto abbastanza…".

Non potevo che essere grato della loro solidarietà, ma a tutti rispondevo che non l'avrei mai fatto. D'altronde era una decisione che avevo preso all'indomani della sentenza della Corte d'Appello, e l'avevo ampiamente motivata a un giornalista del "Corriere della Sera", nel corso di un'intervista avvenuta poche ore prima dell'arresto.

Si tornava dunque a parlare di latitanza ma si trattava di un'ipotesi che escludevo per diverse ragioni. Innanzitutto per non tradire la fiducia di quel movimento di opinione pubblica che credeva nella mia battaglia giudiziaria. Inoltre per non venir meno a quella del Tribunale di Sorveglianza che mi lasciava in libertà per garantirmi il diritto alla salute e non alla fuga. Tra l'altro non potevo ignorare che la mia fuga avrebbe indotto a respingere, per ritorsione, le istanze di altri detenuti malati, perché in Italia la responsabilità penale di un individuo, una volta inserita nel contesto del carcere, non si limita alla sola sfera personale ma si estende a tutta la popolazione detenuta. Infine, non volevo prestare il fianco all'esiguo ma potente partito dei colpevolisti che avrebbero strumentalizzato la mia fuga, ritenendola una prova della mia colpevolezza.

Insomma, non aveva più senso fuggire. Se in passato la fuga era servita a non legittimare la sentenza di condanna, quest'ultima, dopo diciassette anni e undici processi, aveva provveduto da sola a svuotarsi di significato. Se l'ipotesi di sottrarsi alla pena non aveva senso, ancora meno l'aveva tornare volontariamente in carcere, perché avrebbe avuto il significato di una resa incondizionata non solo riguardo all'ultima sentenza, ma addirittura a tutto quello che era successo in quegli anni.

Mi trovavo in una situazione complessa: da un lato non volevo fuggire, dall'altro non volevo tornare in carcere; rimaneva la grazia ma in quella fase appariva un'ipotesi estremamente remota. Avevo sempre dichiarato pubblicamente che non l'avrei mai chiesta in quanto innocente e una delle prerogative di questo istituto è rappresentata proprio dal pentimento. Dato che non esistevano precedenti di provvedimenti concessi in assenza di un'ammissione di colpa, ritenevo impossibile ottenerla.

Né fuga, né galera, questa era la mia linea di condotta. Ma allora che fare? Mentre mi lambiccavo il cervello nel tentativo di trovare una soluzione, la mia famiglia, il collegio di difesa e i Comitati decisero di chiedere essi stessi la grazia in mio favore. I miei genitori presentarono formale richiesta, tramite i difensori, alla Corte d'Appello competente e la pratica iniziò l'iter burocratico. I Comitati, invece, convocarono una conferenza stampa, per dare modo ai consulenti giuridici di illustrare la campagna di sostegno all'iniziativa il cui punto di forza era rappresentato da una raccolta di firme destinate a essere presentate poi al Capo dello Stato.

All'inizio mi trovai solo, per la prima volta, contro tutti quelli che mi volevano bene o che sostenevano la mia causa. Non ero affatto contrario alla grazia (l'unico strumento correttivo ed equitativo dei rigori della legge in grado di chiudere il caso con giustizia e umanità), ma l'assoluta certezza del rigetto della domanda mi portava a sostenere che famiglia, avvocati e Comitati si stessero imbarcando in un'avventura senza speranza.

La mia controproposta era quella di concentrare tutte le energie sulla causa che avevo intentato allo stato italiano per le reiterate violazioni, perpetrate nei miei confronti, della "Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali", di competenza della Corte di Strasburgo. Tutti però obiettavano che la causa era certamente molto importante, ma a loro interessava sottrarmi a una carcerazione ingiusta e che mi avrebbe portato sicuramente alla morte, visto il continuo peggioramento del mio stato di salute.

Faticosamente si giunse a un compromesso: avrei collaborato e partecipato a tutte le iniziative a favore della grazia, sostenendone la giustezza di principio, ma nella chiarezza del mio ruolo di imputato che non l'aveva mai chiesta di persona perché innocente.

Si mise così in moto in Europa una straordinaria mobilitazione a favore del provvedimento di grazia. Giuristi, esponenti del mondo della cultura e dell'arte, politici e semplici cittadini si attivarono per porre fine alla più lunga vicenda della storia della giustizia italiana. Fecero il possibile e l'impossibile.

Di quel periodo conservo un ricordo allo stesso tempo terribile e bellissimo; terribile per lo stato di angoscia e tensione che cresceva di giorno il giorno all'avvicinarsi della scadenza del 13 maggio, bellissimo per l'intensità umana di quella solidarietà. Giravo per l'Italia partecipando alle più svariate iniziative, conferenze stampa, dibattiti spettacoli e venivo investito da una vera ondata di calore e affetto da parte di tante persone.

Verso la metà di febbraio, quando ormai mancavano poco meno di tre mesi al 13 maggio, la lentezza dell'iter burocratico mi costrinse a fare i conti con la realtà. Basandomi su un'esperienza di diciassette anni dei "ritmi"della giustizia, ero certo che la pratica non sarebbe giunta in tempo sul tavolo del Ministro di Grazia e Giustizia e successivamente su quello del Presidente. La situazione generale del Paese non prometteva niente di buono e dubitavo che il Ministro e il Presidente trovassero il tempo di esaminare un caso così complesso.

A differenza che in passato, sulla base della straordinarietà della mobilitazione dell'opinione pubblica e dall'ormai acclarata eccezionalità del caso, ritenevo più probabile la concessione della grazia ma il tempo, ancora una volta, era contro di me. Riesaminai scrupolosamente tutta la vicenda e mi convinsi che non potevo discostarmi dal mio proposito di rifiutare fuga e galera.

Né fuga, né galera. Che fare d'altro?

Dentro di me montava la rabbia. Sentivo che si imponeva ancora una volta un atto di assoluta rottura per chiarire in modo inequivocabile che mai avrei accettato "quella condanna"di "quella giustizia".

La giustizia dei "se". Se il processo non fosse iniziato quattro giorni prima dell'entrata in vigore del nuovo codice, se la Corte non avesse avuto dubbi, se i giudici fossero stati a conoscenza delle norme transitorie e della loro interpretazione (era loro dovere), se il Presidente non fosse andato in pensione… se e solo se… non sarei stato condannato ma assolto.

Un notissimo magistrato della nostra Repubblica, a questo proposito, disse che si trattava di un caso di "sfiga giudiziaria". Probabilmente aveva ragione, ma cosa c'entra la sfiga con la giustizia?

E non era finita qui. A causa del pensionamento del Presidente, avevo subito due processi all'interno dello stesso grado di giudizio. Caso unico e irripetibile, ma la legge non è uguale per tutti?

E poi, era ammissibile che un processo che si protrae per quattordici mesi, con l'escussione di testi e l'espletamento di perizie, dovesse valere meno di uno basato sulla mera lettura degli atti, durato solo qualche udienza? Esiste una risposta tecnica, ma può riferirsi al più elementare concetto di giustizia?

Otto giudici - due togati e sei popolari - avevano letto gli atti e sentenziato che ero colpevole, altri cinque - tutti togati - dissero che non vi erano errori nella loro sentenza e il caso venne chiuso definitivamente.

Decine di giuristi e numerosi magistrati avevano ripreso in mano le stesse carte e non avevano avuto dubbi nell'affermare la mia innocenza e che si trattava di un grave errore giudiziario. Dov'era allora la prova certa della mia colpevolezza a fronte di giudizi tanto diversi?

Senza contare le perizie sbagliate, le indagini a senso unico, i reperti scomparsi, la lunghezza della carcerazione preventiva, la gratuità del carcere speciale e la malattia prodotta dalla detenzione.

"Basta"pensai. Decisi che era arrivato il momento di non subire più passivamente le bizze di una giustizia inumana. L'unico strumento che possedevo, per ribellarmi all'enormità delle ingiustizie, era la mia vita. E se la grazia non fosse stata concessa entro il 13 maggio, avrei rinunciato ad essa.

Al suicidio fino a quel momento non avevo mai pensato, anzi per formazione ideologica e umana ero portato a considerarlo un atto di resa, ma era l'unica cosa che potessi fare per salvaguardare la mia dignità, l'unico aspetto della mia vita che la giustizia non fosse riuscita a portarmi via. Non avevo nessun desiderio di porre fine alla mia vita ma il suicidio, in quel contesto, assumeva il valore di un atto di guerra contro i giudici, togati e popolari, della Corte d'Assise d'Appello di Venezia, che ritenevo i maggiori responsabili di quanto era accaduto.

"Si sono comportati come un plotone di esecuzione e allora che lo siano fino in fondo"mi dicevo. Il risentimento nei loro confronti non si basava solo sul giudizio di colpevolezza, bensì sulla mia assoluta convinzione della loro non completa, quantomeno superficiale conoscenza degli atti processuali. Ero rimasto annichilito quando avevo letto le motivazioni della sentenza per l'impressionante numero di errori e inesattezze, ma la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata leggere, nelle ultime righe, questa frase: "La Corte, con la condanna, ha inteso trasformare il caso Carlotto in una storia dignitosa per la giustizia italiana".

Non avevo scelta. Non esistevano più strumenti giuridici per confutare la loro verità. Dovevo giocare al rialzo e la puntata questa volta sarebbe stata la mia vita.

In quest'ottica, ritenevo che la grazia, se concessa prima del 13 maggio, avrebbe assunto l'inequivocabile significato di un atto di giustizia e umanità, per l'evidente eccezionalità e tempestività del provvedimento. Tanto più che la Corte d'Appello di Venezia aveva espresso parere contrario. La grazia rimaneva quindi una speranza, alla quale mi aggrappai disperatamente, ma mi imposi, comunque, la lucidità necessaria per affrontare l'eventualità del suicidio.

Così mi incamminai di buona lena in un'altra passeggiata nella follia che sarebbe durata una novantina di giorni. Infatti, il ragionamento che mi aveva portato a una scelta tanto radicale quanto assoluta, se rapportato alla logica più comune cadeva in mille pezzi, ma se inquadrato nell'intera vicenda risultava rigoroso e inattaccabile.

La cosa che più di tutte mi convinse a rompere ogni indugio e passare all'organizzazione dell'"evento", fu l'immagine di me che uscivo di galera a quarantotto anni suonati dicendo: "E adesso mi rifaccio una vita".

Convinto che il suicidio non si improvvisa (il mondo è pieno di dilettanti che angustiano i propri simili con disquisizioni sul perché non ci sono riusciti), presi carta e penna e stilai la lista dei problemi da risolvere.

Innanzi tutto il mezzo. Ovviamente desideravo qualcosa di rapido e indolore. Consultando testi di medicina legale e seminando qua e là con aria assolutamente svogliata e ingenua, precisissime domande a quelli che ritenevo gli esperti più quotati in materia, arrivai a preferire una cospicua e ben miscelata dose di farmaci, che non tardai a procurarmi.

Li divisi in due scatole. Una conteneva quelli che avrebbero determinato il decesso. Erano da assumere per primi e per non sbagliarmi la contrassegnai con il numero uno. L'altra, del tutto inutile precisare che era la numero due - l'avevo scritto con il pennarello indelebile - conteneva quelli da ingerire subito dopo e che servivano per provocare un immediato stato di incoscienza che sarebbe durato giusto il tempo per permettere ai primi di fare effetto. Mi sembravano tanti e siccome temevo di non riuscire a ingurgitarli tutti, con il rischio di fallire per non avere curato bene i dettagli, mi recai in un negozio di dolciumi dove acquistai delle caramelle che per forma e dimensione assomigliavano maggiormente alle pastiglie.

Feci un paio di prove di simulazione e verificai che non vi erano problemi nell'assunzione a patto di non usare bevande gassate.

Passai quindi a risolvere il secondo problema: il luogo. La scelta fu più lunga e laboriosa del previsto; la discriminante di fondo era che non volevo che accadesse nella zona di competenza dell'Istituto di Medicina Legale di Padova. Detta in parole povere, non volevo rischiare di incappare, proprio da morto, in quei reperti misteriosamente scomparsi all'epoca del processo. Non avrei superato la prova.

Ovviamente, non volendo nuocere a parenti e amici, esclusi le loro case fin dall'inizio. Depennai anche gli alberghi e i locali pubblici in generale, per bon ton. Alcuni, pur possedendo le caratteristiche giuste, rischiavano di far avventurare i soliti idioti in funambolici ragionamenti alla ricerca di chissà quale recondito significato. Dopo lunghe ricognizioni, finalmente trovai un'amena località di montagna che faceva al caso mio. Dovetti verificare più volte il percorso, individuandone anche di alternativi, casomai la strada fosse bloccata da un incidente o da lavori in corso.

Passai poi a pianificare l'aspetto più delicato dal punto di vista organizzativo: far combaciare i tempi dell'"evento" e della sua scoperta, con quelli dei media. Non volevo che uscisse la notizia prima che i giornalisti fossero venuti in possesso del documento di quaranta pagine che avevo preparato per spiegare i motivi del mio gesto.

Questo mi costrinse ad anticipare il piano di due giorni, in quanto non mi fidavo dei calcoli matematici di chi doveva spiccare il mandato di cattura; secondo i miei, iniziando a contare dal 14, l'anno esatto scadeva il 13 maggio, ma poteva accadere che il preposto iniziasse dal 13 e in questo caso sarebbe scaduto il 12. Insomma, per evitare che si accavallassero le notizie dell'ordine restrittivo e della mia dipartita, preferii creare un margine di tolleranza, in modo da andare sul sicuro.

Dato che la speranza è l'ultima a morire, come si suol dire, confesso che non ero affatto contento di dover anticipare, in quanto essendo perseguitato da un destino capriccioso, magari avrei potuto correre il rischio di suicidarmi il giorno 11 e di ritrovarmi, stupefatto spirito invisibile (mi vengono in mente gli angeli del film "Il cielo sopra Berlino"), al fianco del Presidente nel momento in cui apponeva la propria firma alla richiesta di grazia il 12, senza potergli dire che ormai non era più il caso.

Inoltre, ho avuto modo di scontrarmi più volte con la concezione della matematica che ha la giustizia, e sentivo quindi che non era il caso di sottovalutare la faccenda. Un esempio per tutti: la mia altezza.

Per l'anagrafe, per il sottoscritto, e per i tanti medici che mi hanno misurato, risulta essere di centottantasei centimetri. Per la giustizia invece è di centottantadue e a nulla sono servite le mie rimostranze; una volta un gruppo di sei periti mi aveva preso ogni tipo di misure, e quando mi resi conto che a loro risultavano quattro centimetri in meno, lo feci notare ma mi incenerirono con lo sguardo.

Da allora quando qualcuno mi chiede quanto sono alto, sono costretto a fornire una risposta articolata: "Per l'anagrafe un metro e ottantasei, ma giuridicamente uno e ottantadue perché vede…".

Tornando ai media, la mia preoccupazione era appunto che la notizia fosse resa pubblica quando i giornalisti avessero già avuto il tempo di leggere le quaranta cartelle del mio documento, in modo che non vi fossero dubbi o possibilità di strumentalizzazione.

Avrei voluto che fosse un po' più stringato ma, a parte il fatto che non ho mai avuto il dono della sintesi, non era affatto facile condensare oltre diciassette anni di avvenimenti, spiegandoli e argomentandoli. Inoltre, intendevo approfittare della mia condizione di futuro estinto per scrivere tutte quelle cose che da vivo non avevo potuto dire per non aggravare in modo definitivo la mia situazione. E questo aveva occupato diverse pagine.

Quando uno decide di suicidarsi, dovrebbe prima fare un conto esatto di quante lettere personali deve scrivere per dare una spiegazione dell'"insano" gesto. Se avessi previsto che avrei dovuto scriverne centosettantatré, probabilmente mi sarei scoraggiato e avrei preferito far credere che si fosse trattato di un incidente. Ma ormai mi trovavo in una fase troppo avanzata dell'organizzazione.

D'altronde conosco un sacco di gente e da tutti avrei voluto accomiatarmi come si deve. Fu un'impresa impegnativa, in un periodo di febbrili attività a favore della grazia, che mi costrinse tra l'altro a entrare in una sorta di clandestinità perché dovevo scrivere di nascosto e poi occultare abilmente le lettere nei posti più improbabili.

Un aspetto non secondario della faccenda era che stavo comunque morendo per via del metabolismo alterato, tutti i valori erano fuori scala. Vivevo sul filo dell'ictus e dell'infarto e gli attacchi di angina erano all'ordine del giorno. I vari organi del mio corpo rallentavano giorno dopo giorno ritmi vitali. Avvertivo la sensazione, del tutto particolare, che allentassero i contatti reciproci. Mi sentivo strano, come se fossi diventato vecchio. Una stanchezza infinita mi accasciava e fare qualsiasi cosa mi costava sforzi enormi.

Una sera, una crisi, che il carvasin non aveva tamponato, mi gettò nel panico e mi precipitai in ospedale temendo di morire. Non potevo permettermelo perché non ero ancora pronto ed era il giorno sbagliato.

Tornato a casa, il giorno dopo mia madre mi guardò e mi disse:

"Figliolo, quando stavi male hai detto una serie di cose che non ho capito. Parlavi di evento, di un documento per i giornalisti da terminare, di ottanta lettere ancora da scrivere. A che cosa ti riferivi?".

Mi trovai poi di fronte a un nuovo problema: potevo morire prima del giorno 11 e a questo non c'era rimedio, ma poteva pure succedermi, secondo i medici, di ritrovarmi paralizzato su una sedia a rotelle o ancor peggio, di diventare una larva umana a seconda dei danni cerebrali prodotti dall'ictus.

L'idea di vedermi in tribunale su una sedia a rotelle, lo sguardo vitreo e la lingua penzoloni mi atterriva più di ogni altra cosa e decisi di rivolgermi a un ex galeotto con cui per lungo tempo avevo diviso dodici metri quadrati, servizi inclusi. Eravamo molto amici, un tipo tosto che non si stupiva di nulla. Lo andai a trovare e gli dissi: "Devi giurarmi che se per caso mi venisse un coccolone e diventassi uno zombie che non riesce nemmeno a pulirsi il culo, tu mi darai una mano ad andarmene". Mi rivolse uno sguardo interessato da entomologo: "Dimmi se ho capito bene. Tu vuoi che io ti giuri che, se ti venisse un colpo e rimanessi paralizzato o rincoglionito, ti toglierei dalle spese. Sei scemo o cosa?".

"Se capitasse a te, mi chiederesti la stessa cosa. Hai passato la cinquantina, inizi a essere in un'età a rischio". Toccandosi le palle, rispose: "E' vero, ho fatto troppa galera per permettermi di fare il paralitico. Ma tu lo faresti?".

"Neanche per idea!".

"Bell'amico che sei, e allora perché dovrei farlo io?".

"Perché mi devi un sacco di favori. Vuoi che ti rispolveri la memoria?".

"Lascia stare. Allora d'accordo. Come vuoi che lo faccia? Non posso mica venire in ospedale e spararti in testa".

"No, ci ho già pensato"risposi. "Ti procuri un po' di acidi e me li metti sotto la lingua, faranno tutto da soli".

"Acidi? Ma è roba da droghini, sai che non ho mai voluto avere a che fare con quella merda. Ho un'idea migliore, ti infilo un sacchetto di plastica in testa…".

"Per carità"lo interruppi, "vuoi finire in galera? Gli acidi sono il sistema migliore, penseranno a un infarto, l'ho letto su un libro di medicina legale".

"Ah, se è così, vada per gli acidi".

Gli strinsi la mano e lo baciai come fanno i galeotti quando la promessa è solenne: "Ti ringrazio, sei un amico. Adesso non ti rovinare il fegato, molto probabilmente non sarà necessario".

"Speriamo" e poi aggiunse, "non offenderti… ma in galera eri meno scoppiato".

 

Decisi di terminare la programmazione dell'"evento" e la mia partecipazione alle attività a favore della grazia per la fine di marzo. Volevo dedicare (per la prima volta in tanti anni) almeno un mese solo a me stesso.

In tre mesi erano state raccolte oltre diciottomila firme (numerosissime quelle illustri), erano stati organizzati dibattiti, spettacoli, trasmissioni alla radio e alla televisione. I media, in generale, tifavano per la grazia; si respirava insomma un clima positivo, ma tutti si rendevano conto che le probabilità di ottenere una risposta prima del 13 maggio erano sempre più scarse.

In una demoralizzata riunione, i Comitati si accordarono per organizzare una giornata nazionale di mobilitazione il 26 marzo denominata "Quarantotto giorni per la grazia a Massimo Carlotto", il prosieguo della campagna dopo il mio arresto e, nei miei confronti, un'opera di convincimento affinché mi preparassi ad affrontare un altro periodo di carcere.

In contemporanea riprese vigore anche la campagna pro latitanza; tra gli altri ricevetti anche una delegazione di vecchi amici che non vedevo più da anni. Mi scongiurarono di fuggire.

Nettamente contrari erano invece gli scommettitori. In città il toto- grazia prosperava e ogni tanto ricevevo la telefonata di qualche sconosciuto che mi chiedeva notizie sull'andamento della domanda e si raccomandava di non fare colpi di testa.

Scelsi la data del 26 marzo per la mia ultima apparizione in pubblico.

Tra le diverse iniziative preferii partecipare a quella di Padova, dove era stato organizzato uno spettacolo-happening in un teatro. Ci andai soprattutto per avere l'opportunità di salutare per l'ultima volta tanti cari amici, tra i quali buona parte degli artisti che partecipavano alla serata.

Prima dello spettacolo vero e proprio vi furono una serie di interventi. Quello di Kissi, del Comitato milanese, diede più degli altri l'esatta misura dell'angoscia di coloro che si battevano per la grazia, e temevano di non farcela prima di maggio:

"Mi sono ritrovata a riflettere su situazioni che mi suscitano rabbia, indignazione e impotenza. Siamo tutti vittime della cosa pubblica.

Aspetto da tre anni pagamenti dallo Stato. La sanità per me non è più un diritto. Monta una rabbia terribile. Chi ti deve tutelare, ti frega. Ma questi sono, possono essere aspetti marginali della mia esistenza. Io posso anche "staccare". Ma Carlotto non si può sottrarre. Conoscendo la sua esperienza drammatica, noi tutti siamo minacciati. Chi ci può tutelare? Penso, soltanto noi stessi, attraverso la "voce pubblica".

"Alleiamoci. Usciamo dal silenzio delle case. Riuniamo le voci. Chi può parlare, lo faccia pubblicamente. Chi sa scrivere, deve farlo. Chi sa dipingere, dipinga.

"Vi ricordo che mancano solo quarantotto giorni per la grazia.

Scrivete, anche solo lettere indignate ai giornali. E poi Massimo è un condannato particolare: non piange, non urla, non si lagna. E' pacato, ma soprattutto è intelligente e tenace e questo dà fastidio. Solo se la voce pubblica sarà una valanga, Massimo sarà tutelato.

"Massimo Carlotto innocente, se sarà graziato, sarà comunque per lo stato un colpevole graziato, con tutti i limiti del caso. E anche questo ci indigna. Massimo Carlotto ha diciassette anni di diritti in arretrato, tentiamo almeno di salvargli la vita".

 

Alla fine abbracciai e salutai tutti e, il giorno dopo, mi imbarcai su un aereo diretto a Cagliari, con l'intenzione di restarci circa un mese e poi tornare per passare gli ultimi giorni con la mia famiglia.

Avevo scelto la Sardegna perché lì avrei potuto godere della compagnia del mare, del sole e di tanti carissimi amici. Ricordo ancora l'euforia che provavo nel rendermi conto che per la prima volta avrei avuto modo di dedicarmi del tempo, finalmente libero da scadenze processuali. Certo la tensione era sempre fortissima, i giorni scorrevano inesorabili, ma io avevo scelto. Ero pronto. Che il destino seguisse pure il suo corso. Provavo un grande senso di pace; per la prima volta guardavo il mondo che mi circondava. In tutti quegli anni ero stato testimone, indiziato, detenuto, imputato, assolto, condannato, latitante, detenuto, condannato, scarcerato per malattia, imputato, assolto, condannato, detenuto, condannato scarcerato per malattia. Ora tentavo di essere qualcosa di diverso, magari non proprio me stesso ma qualcosa di simile, meno disumanizzato, meno "caso Carlotto".

Compilai una breve lista dei libri, dei dischi e dei film che mi avrebbero fatto compagnia in quel periodo. Durante il giorno stavo sempre solo, ma la solitudine non era più nemica, era uno spazio dentro cui mi muovevo leggero, godendo delle cose più insignificanti.

La notte la trascorrevo con gli amici, grandi mangiate e grandi bevute, mi riappropriavo del gusto di ridere, della trasgressiva futilità del pettegolezzo. Mi infilavo sotto le lenzuola mediamente sbronzo, il sonno arrivava veloce e non mi abbandonava fino al mattino.

Ma non riuscivo a tenere lontano il mio passato. Il dialogo di un libro, la scena di un film la melodia di una canzone me lo riproponevano continuamente. All'inizio tentai di oppormi ma poi lasciai che la mente vagasse liberamente, stanando anche il ricordo più insignificante. Ero stanco di provare emozioni e ripercorrevo con distacco le strade della memoria. Non avevo nemmeno voglia di pormi domande e trovare risposte. Ogni tanto mi chiedevo se era valsa la pena di soffrire per quasi metà della mia esistenza.

Morto o graziato terminava per sempre il caso Carlotto e ritenevo che l'avvenimento andasse adeguatamente celebrato scegliendo e premiando la battuta più spiritosa sul processo. Impresa per niente facile per la vastità e la qualità del materiale. Alla fine, su tutte, trionfò quella della mamma di un mio amico che, con grande serietà e partecipazione, mi aveva detto: "Speriamo che ti assolvano… almeno con prognosi riservata".

Le mandai un mazzo di fiori, con anonima gratitudine. Era l'unica cosa della vicenda che valesse la pena ricordare.

Per certi versi non vedevo l'ora di arrivare al dunque; c'era un non so che di melenso e noioso nell'apparente distacco con il quale vivevo l'attesa, che la rendeva insopportabile. Mi ritrovavo a indugiare su aneddoti sdolcinati e a sottilizzare e arzigogolare sulla piega che avevano preso certi avvenimenti e la loro influenza sulla mia vita.

Tutte cose che in definitiva non mi interessavano più. In realtà non riuscivo a resistere alla tentazione di dare un significato rituale all'attesa. Non mi piacevo. Mi dicevo che non ero mai stato così indecentemente palloso e contraddittorio, poi cercavo di non essere troppo duro con me stesso… qualche giustificazione in fondo ce l'avevo.

 

Mercoledì 7 aprile 1993. Erano da poco passate le undici quando mi svegliai. L'instabile equilibrio chimico del mio organismo pretendeva subito nicotina e in mutande mi trascinai fino al soggiorno cercando più con le mani che con gli occhi, le sigarette e l'accendino. "Meno trentaquattro giorni"constatai ma il pensiero non mi comunicò proprio nulla e l'accantonai. Infilai gli occhiali da sole, uscii sul balcone a fumarne una seconda. I gomiti appoggiati alla balaustra, il mio sguardo mise a fuoco prima il mandorleto, poi lo stagno e infine il mare. Ogni tanto i fenicotteri rosa si alzavano in volo. "In cerca di cibo"pensai, risvegliando così anche il mio appetito. Mi vestii e con molta calma mi diressi verso la pasticceria; un bicchiere di tè freddo per dare ristoro alla gola bruciata dalle troppe sigarette e grappe della notte, poi il cappuccino con le brioche. Le briciole cadevano sul quotidiano locale disteso sul tavolino e con un movimento lento, per non distrarmi dalla lettura, le spingevo fino al limite della pagina per farle cadere.

Con il fascio di giornali sotto il braccio mi diressi verso l'enoteca, dove il proprietario mi rivolse il saluto solitamente riservato ai clienti che gratificavano la sua scelta di vini e liquori. Il sapore metallico della mia bocca invocava un bianco deciso, erbaceo e dai profumi pungenti, che mi fece propendere per un sauvignon e un traminer aromatico.

Faceva caldo e camminare sotto il sole mi faceva desiderare di tornare a casa al più presto, ma dovevo ancora passare al videonoleggio a ritirare un paio di film per il lungo pomeriggio.

Era quasi l'una quando aprii in fretta la porta di casa per rispondere al telefono che squillava con insistenza. Mentre mi avvicinavo sentii che si inseriva la segreteria telefonica e prima di alzare la cornetta dovetti attendere la fine del messaggio preregistrato.

"Messaggio per Massimo Carlotto, sono l'avvocato…".

Lo interruppi: "Ciao, sono Massimo, ci sono novità?".

"E' andata bene!"urlò nella cornetta, "sei stato graziato".

Riagganciai dopo aver farfugliato qualche parola incomprensibile e mi sedetti sul divano cercando disperatamente di provare qualche emozione. Non ci riuscii, solo il mio corpo risentiva della notizia manifestando un leggero tremore, accentuato alle mani e alla gamba destra.

Uscii sul balcone e riappoggiai i gomiti sulla balaustra, accendendo l'ennesima sigaretta. Il mandorleto, lo stagno, i fenicotteri rosa e il mare, immobili nell'ora più calda della giornata, testimoniavano il loro assoluto disinteresse per la positiva conclusione della più lunga vicenda processuale della storia italiana.

Rimasi a guardare fino a quando la sigaretta si consumò scottandomi le dita. "Forse dovrei smettere di fumare"pensai mentre le bagnavo di saliva per lenire il dolore.