8.

"La voce esce come un'eco dal marmo dei ricordi

uomini e donne passano come un film".

 

Amore e latitanza.

Quando capii che le parole di Alessandra: "Esci dalla mia vita, ti prego", avevano spazzato via la speranza che si trattasse di una crisi passeggera e invece sancivano la fine del nostro rapporto, venni travolto dalla sensazione che si prova, credo, quando si è investiti da un Tir.

Probabilmente Alessandra aveva capito di avere un'ultima occasione per reinventarsi la vita. Devo ammettere che ha deciso nel modo migliore, ma per trovare la forza di allontanarsi per sempre ha dovuto troncare di colpo ogni tipo di rapporto con me, scomparendo letteralmente nel nulla.

Il Tir mi investì alle spalle, all'inizio della lunga strada della seconda fase della vicenda giudiziaria, che doveva durare ancora otto anni. Senza Alessandra è stata molto più dura. Aveva molto meno senso ingaggiare una battaglia giudiziaria di quella portata, con la speranza di riconquistare il mio diritto a vivere, non avendo più lei accanto.

Ben prima che arrivasse il Tir, ero consapevole dell'oggettiva assurdità del nostro legame e di quanto fosse pericoloso per la sua vita. Spesso gliene avevo parlato, ma mi ero sempre trovato di fronte una donna che, certamente senza riuscire a rendersene conto, preferiva evitare il problema cercando così di risparmiarmi l'immenso dolore che ne sarebbe derivato. I suoi scatti di rabbia e le frasi del tipo:

"Sono sufficientemente adulta e matura per decidere"bloccavano ogni mia iniziativa e rinviavano la discussione a data da destinarsi.

Due sono le cose che, ancora oggi, mi è difficile accettare: la sua scelta di non cercare un rapporto di amicizia con me, e il fatto che tutti i libri, i dischi e gli altri oggetti che documentavano un legame di quindici anni siano scomparsi con lei. Anche le cose che mi appartenevano, come le lettere e i suoi regali: un giorno aveva fatto un blitz a casa mia e si era portata via tutto. Come se volesse cancellare ogni traccia. Inizialmente ho atteso un suo ripensamento, ma non è mai arrivato. Solo oggi, grazie al paziente lavoro del tempo, sono molto più sereno e il dolore si è sensibilmente attutito.

Il motivo che mi spinge a scrivere della storia tra me e Alessandra è la sua somiglianza, direi quasi identità, con le migliaia di altre storie tra uomini e donne che hanno vissuto, direttamente o di riflesso l'esperienza del carcere e/o dell'esilio. Ciò che hanno in comune queste due condizioni è la distruzione dei rapporti affettivi.

Un essere umano privato della libertà o costretto ad abbandonare il proprio paese, si trova ad affrontare un'esperienza drammatica e si aggrappa disperatamente al rapporto affettivo, non solo mosso dall'amore ma anche per garantirsi un minimo di continuità con il proprio passato. Vista dalla parte dell'altro o dell'altra, la situazione non è diversa e il distacco è, oserei dire, quasi fisiologico in questi rapporti, perché la dimensione della quotidianità alla fine obbliga alla scelta di salvaguardare la propria vita. Non si tratta di egoismo, bensì della necessità di arrendersi all'evidenza, dopo aver tentato tutto il possibile.

A Parigi gli amici, basandosi sull'esperienza di un secolo di esilio, mi avevano detto fin dall'inizio che tra me e Alessandra sarebbe finita e che sarebbe stato meglio per tutti e due troncare il prima possibile, per dare a lei la possibilità di "un'esistenza normale"e a me quella di coltivare rapporti "interni" alla logica dell'esilio.

Buoni consigli, ma difficili da attuare all'interno di dinamiche personali che non si basano sulla razionalità. Da un lato, ovviamente, avvertivo la necessità di operare una scelta, dall'altro il bisogno di non prendere a calci la mia vita. E' stato un errore perché ben prima del mio arresto, nel 1985, Alessandra aveva suo malgrado provocato una serie di tensioni che mi avevano portato a scelte sbagliate come quella del Messico. Più o meno consapevolmente stava costruendo le premesse per il distacco definitivo.

Ho assistito a tante, troppe, vicende del genere. Alla fine tutte uguali. Quando ripenso alla mia emerge l'amarezza di aver perduto Alessandra come amica, nel senso di non avere la possibilità di rinnovarle la mia stima per il coraggio dimostrato quando venni arrestato in Messico.

 

La nostra storia iniziò a quindici anni, quando entrambi frequentavamo gli scout. Fu un periodo molto bello e spensierato. Fino al 20 gennaio 1976, data di inizio della telenovela giudiziaria. A diciannove anni diventavo un detenuto e lei una "vedova bianca". Mi seguì di carcere in carcere, presentandosi puntualmente a ogni visita; entrò a far parte della mia famiglia anche perché all'interno della sua, mi riferisco particolarmente alla madre, non si vedeva di buon occhio la relazione con un uomo condannato a quasi vent'anni di carcere.

Arrivò l'assoluzione e il nostro legame crebbe d'intensità, iniziammo così a progettare una vita in comune. Ma poi ci fu la condanna in appello e, in attesa della Cassazione, i progetti cedettero il posto a una quotidianità vissuta intensamente nella speranza che l'incubo finisse. Non fu così e si trasformò in uno ben peggiore: la latitanza.

Alessandra dopo qualche mese mi raggiunse a Parigi e iniziò a fare la pendolare, cosa che la costringeva a sdoppiarsi in due vite completamente diverse e incompatibili. A Padova studiava e viveva in famiglia e poi mi raggiungeva in qualche posto d'Europa nella più completa clandestinità. All'insaputa della sua famiglia che non avrebbe mai tollerato questi suoi viaggi.

Di fatto continuava a essere una "vedova bianca": anche se stavamo insieme per un paio di settimane, per lei era come venirmi a trovare in carcere. Come un detenuto, ero una non-persona con la sua non-vita e nessun futuro in vista. Dopo un po' di tempo cominciò a non reggere più lo sdoppiamento: Padova divenne per lei solo un parcheggio dove trascorrere il tempo in attesa del nostro prossimo incontro. Non riuscì più a studiare (si è laureata solo dopo avermi lasciato) e a lavorare, i suoi non scucivano un quattrino, e i miei genitori dovettero farsi carico del costo dei viaggi e del suo mantenimento quando stava con me.

Ben presto mi resi conto che anche lei aveva un'esistenza spezzata, aveva smesso di pensare al futuro e viveva alla giornata. Quando, preoccupato, iniziai a porre seriamente la questione, lei iniziò a mentire, raccontandomi di fantomatici esami e promettenti lavori.

Nei momenti in cui stavamo insieme, riuscivamo a dimenticare tutto e a vivere in un mondo solo nostro. Passavamo le giornate a fare l'amore, a passeggiare per la città, a ridere e scherzare, a corteggiarci, a farci regali e a giurarci eterna passione. Con lei non mi pesavano nemmeno le norme di sicurezza poiché le aveva imparate subito e si muoveva con grande disinvoltura pur osservandole scrupolosamente.

 

Il tempo giocava contro di noi. Fummo costretti a fare i conti con la realtà che mi imponeva di lasciare l'Europa. Alessandra si infervorò sul Messico, mostrando un'urgenza di cambiamento che all'inizio non capivo, perché ogni luogo che avevamo visitato non le era piaciuto.

Poco prima della partenza, quando ormai era troppo tardi per tornare indietro, da un discorso iniziato per caso, scoprii che non voleva abbandonare Padova e la sua famiglia, tantomeno vivere con un latitante. Mi amava moltissimo ma non riusciva ad accettare l'idea della condanna e bisognava riaffrontare il processo. Da questo punto di vista sfondava una porta aperta, visto che il processo "era"la mia vita e avrei pagato qualsiasi prezzo pur di avere giustizia. Ma in quel momento assumeva un significato completamente diverso, quasi di dissociazione dalle scelte che avevamo fatto e mi sentii solo in quel salto da dodicimila chilometri nel buio.

Quando la nave salpò per Vera Cruz, era sulla banchina a salutarmi agitando il foulard; una bella scena, di quelle che concludono un film d'amore. Pensai che non l'avrei più rivista. Mi sbagliavo. Venne, ma solo una volta e per pochissimi giorni. Il Messico le fece un po' ribrezzo e molta paura. Parlò solo della strategia riguardante la revisione del processo ed evitò ogni altro discorso sul nostro rapporto. Quando venne il momento di ripartire, osservai che il suo viso lasciava trasparire una sorta di sollievo. Ma sapevo di averla già perduta a Parigi.

Quando venni arrestato dai Federales, gli amici avvertirono Alessandra, che portò la notizia a mia sorella. Insieme a lei poi andarono da mia madre, che capì all'istante e con un filo di voce chiese: "Almeno, è vivo?".

Alessandra allora fece una cosa straordinaria. Dalla mia famiglia raccolse tutto il contante disponibile, lo cambiò in dollari e partì per Città del Messico, decisa a comprare la mia libertà. Arrivò all'aeroporto e puntò dritta verso Calle de Soto. Per fortuna alcuni membri del gruppo che gironzolavano nella zona la videro e la bloccarono, trascinandola via quasi a forza.

Ancora oggi quando penso al pericolo che ha corso, mi vengono i brividi, anche se ne sono molto fiero. Nonostante la nostra attuale distanza, non scorderò mai quell'ultimo atto d'amore che ancora considero una delle cose più significative della mia vita.

Tornata dal Messico, Alessandra si dedicò alla causa della revisione fino allo stremo. Poi scomparve. Per sempre.

 

In quegli anni sono stato anche con altre donne. A parte Kioko, l'amica di Città del Messico, furono tutte relazioni "interne" all'ambiente dell'esilio. Erano sicuramente meno problematiche di quella con Alessandra e rigorosamente a termine: qualche settimana, un mese, poi uno dei due aveva delle cose da fare e tutto finiva. Mi facevano bene, ne uscivo sempre contento, rinfrancato e più ottimista.

La più bella fu anche la più bizzarra. Lei era iraniana, l'avevo conosciuta a Madrid e ritrovata a Parigi, sapevo che era esiliata e poco di più. Mi era piaciuta fin dall'inizio e quando la rividi intenta a raccogliere firme contro il regime di Khomeini, decisi di conoscerla.

"Ciao, ti ricordi di me?".

"Sicuro, Madrid, un paio di mesi fa".

"Come mai qui?".

"La mia famiglia si è trasferita a Parigi".

"E cosa fai oltre a raccogliere firme?".

"Lavoro alla redazione del giornale della mia organizzazione".

"Quale organizzazione?".

"Mujahidin del Popolo Iraniano".

"Sei tutta casa e causa?"le chiesi in italiano.

"Scusa?"disse guardandomi perplessa.

"Ti chiedevo cosa fai oltre al lavoro politico".

"Frequento un corso per interpreti in una scuola in zona Montparnasse".

Mi salutò e tornò al suo lavoro. Il giorno dopo l'aspettai all'uscita dall'istituto. Sembrò molto sorpresa di vedermi.

"Non ho resistito alla tentazione di venirti a prendere"la salutai.

"Cosa significa?"chiese con un'espressione corrucciata.

"Che mi piaci, mi sei simpatica e vorrei vederti più spesso".

Iniziò così un lungo corteggiamento. Andavo a prenderla a scuola, l'accompagnavo fino al portone di casa, partecipavo a tutte le iniziative pubbliche contro il regime iraniano pur di incontrarla.

Mi piaceva sempre di più. Era una donna dolcissima, attenta, fiera, con una particolare inclinazione all'ironia che aveva sempre come bersaglio l'essere donna in un paese musulmano. La trovavo molto bella anche se il viso era sempre incorniciato da un foulard e il corpo infagottato in larghe camice di flanella, gonne sotto il ginocchio e stivali, il tutto rigorosamente marrone. Colore che ho sempre detestato, così per scherzare le dicevo che avevo una malattia particolare agli occhi che peggiorava se guardavo oggetti marroni.

Un giorno mi fece delle domande sul mio passato. Alla fine mi disse:

"E' una storia molto triste. Posso raccontarla alla mia famiglia?".

"Se ti fa piacere".

Parlavamo spesso della nostra infanzia e diventò un'abitudine raccontarci le favole dei nostri paesi. Passeggiando verso casa sua, ci fermavamo in un giardino pubblico e seduti su una panchina uno di noi pronunciava le parole magiche: "C'era una volta…".

Ridacchiando, un bel giorno mi disse: "Mio padre ti vuole conoscere".

Per nulla tranquillo, mi affrettai a dire: "Non c'è fretta".

Scoppiò a ridere: "Verrai domani a bere il tè".

"Ma il tè lo bevo solo quando sto male"protestai.

Oltre al padre, fui presentato anche ai fratelli: cinque, tutti con i baffi, mi guardavano con un'espressione imperscrutabile.

La casa dove abitavano era appartenuta alla famiglia della madre che quel giorno non era presente. Sapevo che era francese e aveva conosciuto il marito iraniano all'università. Era un bell'uomo, tra i sessanta e i settant'anni, alto, austero, con una candida barba ben curata.

"Avevo sette figli, sei maschi e una femmina"disse indicando la mia amica, intenta a servire il tè. "Ora ne ho sei. Il maggiore è morto nel carcere di Teheran, ucciso con la tortura della spugna. Sapete cos'è?".

"No".

"La guerra con l'Iraq massacra la nostra gioventù. Il fronte ha bisogno di sangue, per le trasfusioni, e i pasdaran, i guardiani della rivoluzione, lo prendono ai prigionieri politici. Fino all'ultima goccia".

"Mi dispiace molto… non sapevo".

"I miei figli sono tutti mujahidin e vogliono tornare in Iran per combattere. Anche lei, la mia unica femmina".

La guardai sorpreso, non me ne aveva mai parlato e mi sentivo a disagio.

"E' una lotta senza speranza. Khomeini è forte e lo sarà anche dopo la sua morte. Ero un dirigente del Tudeh, il partito comunista iraniano, abbiamo creduto nella democrazia di Khomeini e ci ha tradito. Non esistiamo più, chi non è morto o in carcere, è in esilio. Io lo sono per la seconda volta la prima a causa del regime dello Scià. I miei figli vogliono andare a combattere con gli iracheni molti altri giovani sono già al fronte".

Lo interruppi: "Comprendo la sua amarezza ma non capisco il motivo di questo discorso".

"Lei corteggia mia figlia e a me questo non piace; da quello che mi ha raccontato, nel suo paese è considerato un criminale e questo mi piace ancora meno. I miei figli partiranno e io e mia moglie resteremo soli.

Ho qualche speranza di convincere mia figlia a non sprecare inutilmente la sua vita, quindi nel frattempo la lasci stare. Sia gentile, la nostra famiglia ha bisogno di tranquillità".

"Sarà sua figlia a decidere"risposi, avviandomi verso la porta.

L'indomani, come sempre, andai ad attenderla di fronte alla scuola.

Ero triste, non tanto per le parole del padre, ma per essere venuto a conoscenza di una situazione familiare drammatica che aveva spazzato via la bellezza e l'ingenuità del nostro rapporto.

"Perché non mi hai raccontato prima della tua famiglia e hai lasciato che lo facesse tuo padre?".

"Sei arrabbiato?"chiese.

"No, però mi sento come ferito da un'altra tragedia, come se il destino avesse deciso di farmi conoscere l'orrore di tutto il mondo.

Non sono abbastanza forte per questo. Forse tuo padre ha ragione, sono la persona meno adatta per starti vicino. Tra l'altro non ho ancora capito se ti piaccio o no, insomma prima dell'incontro con tuo padre e i tuoi silenziosi fratelli, la nostra amicizia era una boccata di aria pura, di tranquillità, ora invece avverto la presenza incombente di una storia che non mi appartiene e di scelte delle quali non vorrei sapere nulla".

"Ti preferivo quando raccontavi le fiabe" disse con aria sorniona.

"Sai cosa mi ha detto mia madre? Che è arrivato il momento di venire a casa tua".

Era molto più bella di quanto pensassi. A mano a mano che si spogliava spuntava una donna di ventiquattro anni dai capelli nerissimi e la pelle di seta. La donna più bella che avessi mai visto. Mi persi nei suoi occhi fino al giorno in cui mi disse: "I miei fratelli partiranno tra poco".

"E tu?".

"Io resterò".

"Sono contento. Hai preso la decisione migliore".

"E' arrivato il mio fidanzato".

"Pensavo di essere io"scherzai.

"Stava in Germania, adesso si è trasferito a Parigi".

"E non ci vedremo più. Lo dico prima io. Doveva succedere ma non sono triste, è stata una storia molto bella. L'unico rimpianto è di non aver fatto l'amore sin dal primo giorno.".

"Per me no, mi è piaciuto essere corteggiata da un italiano così galante"disse ridendo.

"Stai attenta".

"Anche tu".