INTRODUZIONE.

“Disturbo?” “Gastrico.” Con questo fulmineo scambio che pare uscito dalle Commedie in due battute Campanile rovescia, o meglio dissolve, il commosso lirismo delle pagine precedenti: La sua vita gli pareva una serie di rottami nella memoria. Galleggiavano sul mare del passato pezzi di ricordi, alcuni quasi informi; qua e là emergeva un particolare secondario, chissà come perfettamente conservato. Apritegli la testa. È una specie di soffitta ingombra di rottami: pezzi di giocattoli rotti – una fata – Guerino il Meschino – una donna di servizio – un lettino – il globo d’un lume a gas un cartoccio di dolci – il porro sulla guancia di una vecchia signora, amica di casa – un’estate in campagna – una cartoleria affollata di scolari e mamme, e i commessi che perdon la testa a distribuire libri, quaderni, pennini, compassi, carta da disegno, gomme per cancellare – la calma luce d’un fanale – un marciapiedi col viavai degli ombrelli aperti e gocciolanti, e tutto il mondo confuso e rumoroso che lo circondava, ma dal quale era assente; allora, sentiva sopra di sé una gran protezione, una difesa continua, sicura, che gli pareva non dovesse mai venir meno; e, dentro di sé, una tranquillità straordinaria e l’illusione che questa vita dovesse durar sempre così, come se quelli che non erano ragazzi appartenessero a un’altra razza. Giorni d’estate in campagna, pomeriggi passati a leggere quetamente, mattine fresche all’aria aperta.

Un gomito di strada campestre bianca fra le siepi polverose e il traballare d’una bicicletta, il vento in faccia. Una stazione assolata e piena di mosche; c’era un campanello che continuava a trillare, mentre lui stava seduto sulla panchina, con intorno le montagne. Un traghetto, laggiù, in fondo in fondo, dove il cielo si rannuvolava…

Così come, subito dopo la rappresentazione della silenziosa mestizia che dilaga nell’appartamento del morto trasformando ogni cosa – anche un pesce rosso abbandonato – in lacrymae rerum del cosmo, si legge questo splendido scambio: “Tu ti sei commosso?” “Mi sto ancora commovendo. ” “Non hai ancora finito?” “Vorrei commuovermi un altro po’. ” Ora (a parte ciò che può suggerire l’istinto) il fatto che qui come altrove Campanile senta il bisogno di dissacrare dimostra la serietà (la tautologica sacralità, appunto) di quella commozione, il cui stesso potere conturbante alimenta l’antidoto di uno stilizzatissimo pudore dei sentimenti. “E se questo sentimentalismo fosse autentico sentimento?” si chiede Oreste Del Buono a proposito dei capitoli elzeviristici di Cantilena all’angolo della strada: sciogliendo affermativamente il dubbio vorrei anche riferirlo all’intera opera di Campanile, che non è grande solo per le sue battute ma per il continuum sterniano (saggistico, narrativo, lirico, teatrale, aforistico) di cui quelle famose battute sono come la scansione o il ricamo: ma che prese isolatamente, come suo malgrado dimostra il Trattato delle barzellette del 1961, sono cosa meno felice. Devo insomma dissentire da Umberto Eco allorché sostiene che Campanile “è censurabile quando si lascia andare alla tentazione della bella scrittura, perché allora crepuscolareggia o rondeggia”; e dissento non solo perché il “crepuscolareggiare” sta alla congrua restituzione stilistica di un autentico senso crepuscolare della vita come il “sentimentalismo” sta al “sentimento”, ma anche perché, assecondando quel senso e quel sentimento, Campanile da buona prova sia nei testi tonalmente più seri sia in quelli più apertamente umoristici. Per i primi valga la citata Cantilena (1933), che giustamente Paolo Mauri ha descritto, nonostante la molteplicità dei temi, come un’ininterrotta meditazione antropologica sulla morte: si leggono qui, ad esempio, pagine bellissime sulla plasticità e il cromatismo delle “cose” ricordate dal moribondo che richiamano immediatamente altre pagine del pirandelliano Uomo dal flore in bocca, e pagine altrettanto belle sul momento nel quale si incomincia a morire che fanno correre ad analoghi spunti sparsi nell’opera di Buzzati; e ancora vi si legge un capitolo, intitolato Oh, voi non lo sapete, sul pensiero dei proprì morti da parte dei vivi e sulla contemplazione dei vivi da parte dei loro morti che è un prodigio di fantasia della pietas e uno dei vertici di tutta la produzione di Campanile.

Come esempio di testo umoristico, invece, valga proprio questo Povero Piero, “commedia” degli equivoci alla Wodehouse e fuoco di fila di qui prò quo e di nonsense alla Petrolini, e però, secondo una vocazione che è di tutto Campanile, libro sulla morte e su quel momento ambiguo (perché è insieme presa di coscienza e rimozione, celebrazione ed esorcismo) che è il funerale (in questo senso il pensiero dovrebbe spostarsi da Wodehouse a Waugh). Innanzitutto, e non sarà casuale, confluiscono nel Povero Piero, a distanza di un quarto di secolo, diverse pagine della Cantilena, fra cui spicca quella, indimenticabile, della “disinvoltura” e “praticità” del defun to (cito dal testo più antico, più ampio, confrontabile qui con la p. 270): E chi non ha mangiato, chi non ha dormito, chi – secondo l’esortazione degli estranei espressa a bassa voce dovrebbe andare un poco a buttarsi sul letto, chi pare uno straccio, chi ha la barba lunga, chi le chiome disfatte. Insomma, uno spettacolo di sbalordimento. Soltanto il morto ha capito la situazione e s’è messa l’anima in pace. Finché c’è vita, c’è speranza. Finché c’è stato un filo di speranza, anch’egli s’è agitato, ha fatto gesti incomposti e detto parole insensate. Ma ora, non più. Ora è tranquillissimo. È l’unico disinvolto. L’unico che sappia far la sua parte. È morto da poche ore e già pare praticissimo di queste cose. Laggiù, nella stanza piena di fiori, tra le candele, steso sul letto, vestito del suo abito migliore, ha già assunto quell’aspetto impenetrabile, quel pallore inverosimile, quell’immobilità, quella freddezza caratteristiche. Insomma, ha già quello che i francesi chiamano le physique du róle. Tutti i vivi si agitano come pulcini nella stoppa, dimostrando d’essere stati colti all’improvviso e rivelando un’impreparazione deplorevole. Nel morto, nessuna sorpresa. Si direbbe che in vita sua non abbia mai fatto altro che morire.

Anche il brano sulla memoria della propria vita come “serie di rottami” amorosamente inventariati proviene dalla Cantilena, insinuando nel Povero Piero una nota di disperata sensualità che non per altro ho ricondotta a Pirandello che per il fatto di ritenere lo scrittore siciliano uno dei più sensuali della nostra letteratura; così anche altrove nel libro avverto sublimi e struggenti echi pirandelliani là dove una lettura non magnanima avvertirebbe qualcosa a metà strada fra Jacovitti e Guareschi: nell’improvvisa immagine, ad esempio, de “l’ottimo salame e soprattutto il diaccio e frizzante contenuto del bottiglione rugiadoso”, dove con la sua stessa panciutezza il bottiglione, pensabile da ogni smunto morente, è davvero metafora di tutta la vita.

Ma certo oltre alla morte Il povero Piero mette in scena l’antimorte degli equivoci e dei controsensi (emblematica la scena in cui gli addobbi funebri stanno per essere riutilizzati per un matrimonio), la morte come atto mancato (si veda tutta la parte centrale, orchestrata con la sapienza di Agatha Christie, sul “mistero del cadavere scomparso”), la morte come momento creativo che infrange e strania gli automatismi della vita e della lingua. Per quanto riguarda immediatamente la “vita” il testo di Campanile (qui più che in altri libri, data l’ambientazione di tutta la vicenda in un “salotto buono”) è il corrispettivo letterario dei disegni di Novello – valga per tutte la scena delle bomboniere – anche se una lettura più attenta suggerisce poi altri accostamenti: incontrando quelle “dame dal cuore eccellente” che, grandi lettrici di libri gialli, “erano avidissime di nuovi ammazzamenti” come non pensare, ad esempio, alla Liliana Balducci del Pasticciacelo!

Ma, notoriamente, è attraverso la lingua che il genio di Campanile attacca e scioglie le sclerosi della vita, tanto che non c’è suo libro che non sia una sublimazione idiomatica del filisteismo: qui nella fattispecie il tema funerario consente la metalinguistica mise en ahimè dei necrologi, dei telegrammi (al centro delle pagine più esilaranti del libro), delle lapidi, dei discorsi di circostanza ecc., con un parossismo demenziale (il famoso “umorismo scemo” di cui ha parlato la critica, formula accettabile, s’intende, soltanto a parte objecti) che di rarefazione in rarefazione e di straniamente in straniamente finisce con l’estrarre dalla materia verbale un’essenza che è puro suono, fregio araldico, liturgia astratta: che è il “genere” comune a scrittori così diversi come Sterne (qui esplicitamente omaggiato attraverso il Foscolo), come Carroll, come Beckett. Si aggiunga che, a rendere ancora più surreale la prospettiva, l’oggetto più proprio del Povero Piero non è tanto il funerale, quanto l’appanicata volontà, da parte dei parenti, di tenere nascosta la notizia del decesso, secondo i voti del defunto, fino ad esequie avvenute: come se il vero scandalo della morte fosse la sua pubblicità (viene in mente un racconto di Cortàzar, forse uno dei più belli dello scrittore argentino, intitolato La salute degli infermi). Da qui, da questo assillo della riservatezza, un’oltranza censoria che si fa ossessione secondo la via maestra della letteratura ossessiva (da Kafka a Gombrowitz, da Ruzzati a Suskind): prendere uno spunto qualsiasi e di passaggio logico in passaggio logico condurlo ad esiti abnormi, assurdi, grotteschi (il che non esclude mai, per tornare alle mosse di partenza, il patetico, qui anticipato e come coagulato nell’aggettivo del titolo). La qual cosa è poi una forma di rispetto per la propria materia: lavorarsela sistematicamente e scrupolosamente in tutte le direzioni in barba al pericolo – in cui effettivamente e direi allegramente Campanile talvolta cade – di incagliarsi o di ripetersi: donde anche quell’aura encielopedicotrattatistica che circonfonde perfino i testi campaniliani più squilibrati o più occasionali. E donde, per li rami, anche certe “moralità” secentesche sparse con indolente sprezzatura lungo il romanzo, come quella sulla duplice “vanità” della vita (“circa la nostra spensieratezza, quando penso che le persone morte usavano, da vive, parole esotiche per far colpo in conversazione, mi viene da ridere”) o quella sulla componente mortuaria di determinate bellezze: Non abbiamo tutti uno scheletro dentro di noi? Uno scheletro che ci accompagna dalla nascita alla morte e che è sempre con noi e ci fa compagnia; anche quando non pensiamo agli scheletri è qui, con noi; anche quando siamo soli, anche quando siamo al buio, è con noi. Abbiamo forse paura di questo? Vi dirò di più: certe donne sono belle proprio perché rivelano leggerissimamente il teschio sotto la pelle del volto; guardate quella giovine donna dagli occhi profondi, dal volto espressivo, che incrociamo per la strada, che ci lancia uno sguardo fuggitivo dalle orbite profonde, sotto le sopracciglia arcuate…

Virtuoso capace di scrivere centinaia di pagine sul nulla – maestria che lo rende tangente all’orbita di un pianeta peraltro diversissimo come Manganelli – Campanile, perfettamente in grado di redigere quella minacciata Vita diNuma Pompilìo in trecento pagine per dire che di quel re “non si sa nulla“ (cfr. In campagna è un’altra cosa, 1931), gode di un agio estremo nel parlare di un ”nulla“ così universale e presente e fantasticato come la morte, dando l’impressione che, incentrato sul solo funerale, Il povero Piero possa essere appena uno dei pannelli di una più vasta trattazione. La morte è ovunque perché, è Gadda a ricordarcelo, ”ogni oltraggio è morte“. Sentendo allo stesso modo, ma vergognandosene, Campanile deve abbassare tanta altitudine, e con la voce di Totò o di Aldo Fabrizi scrive nel Povero Piero: ”Tutto è morte“, disse Marcantonio scotendo il capo, all’arrivo della pastasciutta”.

MICHELE MARI.