Gli occhi di Malpelo

 

 

 

 

Può succedere talora che i cattivi maestri, come i cattivi padri, siano più efficaci dei buoni. La loro eredità in negativo, infatti, può essere così forte che chi è costretto a raccoglierla impara e interiorizza con un metabolismo diverso. E i maestri di Verga sono stati non cattivi, ma pessimi. Antonino Abate era suo lontano parente, fondò a Catania un istituto privato di istruzione, fu poeta in proprio: vulcanico e invasato, scrisse opere come Il Venerdì santo del ’49 in Catania, Il Progresso e la Morte, Napoleone il Grande, la Camerilla. Liberale, si beccò una pallottola borbonica all’addome, che divenne un oggetto di culto per i volenterosi allievi. Restando nelle maglie larghe del parentado, fu lui a mettere nelle mani di Verga i libri di un’altra autorità in materia, Domenico Castorina, il quale aveva dato prova del suo talento esordendo con un poema epico nientemeno che sulla distruzione di Cartagine e per questo, dopo il precedente di Vincenzo Bellini spedito a Napoli, fu ricompensato dal Comune di Catania con la sovvenzione di una trasferta in Alta Italia; qui concepì macigni come il Napoleone a Mosca, il Buonaparte in Egitto, I tre alla difesa di Torino e a Torino, dopo alterna ma soprattutto avversa fortuna, morì precocemente. L’arcaicità, gli abbagli di ortografia e di sintassi, la retorica di stampo classico, la sopraffazione continua nei confronti della lingua italiana: di tutto ciò Federico De Roberto ha fornito esempi, in una ricostruzione affettuosa quanto, a tratti, esilarante.

Siccome sia Antonino Abate che Domenico Castorina furono salutati come geni, si vede che la Sicilia del tempo non era la Cacania di cui parlerà Robert Musil. Non si creda che siano fantasmi del passato, e basta. Il catanese Mario Rapisardi, coetaneo e concorrente letterario di Verga e suo rivale in amore, salutato anche lui come un genio, per ritardo culturale a me sembra appartenere, con i debiti adeguamenti, alla razza degli Abate e dei Castorina.

Perché faccio questo discorso in apertura? Perché una domanda legittima può essere: da dove viene Verga e quale cultura ha alle spalle? Agli inizi del XX secolo Giovanni Gentile ha tentato ad altro proposito di fare un bilancio storico con Il tramonto della cultura siciliana e si sa quanto siano arrischiate queste classificazioni e periodizzazioni, quali malintesi si nascondano nella successione variabile di albe e di tramonti, di lumi e di oscurità. Ma mi pare certo che in Giovanni Verga si debba individuare il profilo di un capostipite e che da lui nasca la letteratura siciliana moderna e contemporanea, che occupa un posto così rilevante nella cultura nazionale. Peraltro non vanno persi alcuni segnali impliciti: i sullodati Antonino Abate e Domenico Castorina erano parenti, si erano distinti nella carriera letteraria, Castorina era andato nel Nord, e vi era morto. In altre parole, davano quello che potevano dare, e soprattutto alimentavano una leggenda, che per l’immaginario è una vena aurifera. Retorici ma generosi, avevano assolto alla funzione di modelli da imitare, anche di vita, in una Sicilia arretrata che si affacciava all’evento epocale dell’unificazione, attizzando un fuoco in giovani menti predisposte. Qui si colloca Verga, con la sua storia personale e il suo destino.

Un problema ritornante nel dibattito è questo: perché Verga? Molti si sono trovati in quella congiuntura storica, molti in quegli anni e dopo hanno affrontato il viaggio nel Nord, ma a lui è toccato di scrivere I Malavoglia, Rosso Malpelo, La Lupa ecc. Il che è un modo per entrare nella sociologia dell’opera letteraria, con le sue necessità e i suoi condizionamenti, ma senza accontentarsene in tutto, cercando invece uno spiraglio in una zona imprevedibile, che poi è lo spazio parallelo e segreto dell’arte. Quale che sia la risposta, risulta chiaro come Verga abbia avuto, e non possa non aver avuto, un itinerario difficile, da autodidatta, con tappe incerte, con ricadute, e soprattutto con una stagione d’esordio esemplare a rovescio.

Se qualcuno portasse in lettura un manoscritto come Amore e Patria, ma anche come I Carbonari della montagna, la reazione probabile e giustificata sarebbe quella di un sano scetticismo, come di fronte a un giovane che sta sbagliando mestiere. Invece lo sconsiderato Antonino Abate spinse il suo allievo ad andare avanti e a dare alle stampe i suoi parti letterari, ed ebbe ragione. La favola dimostra che non bisogna mai sputare sentenze e che i giochi non sono mai fatti e che, chissà, un giorno si potranno fare, a Dio piacendo. Ebbe ragione non nel senso che quei testi meritavano consenso e dignità di pubblicazione, perché anzi Amore e Patria dorme a tutt’oggi inedito, nonostante l’avidità onnivora di ricercatori acchiappafantasmi, e I Carbonari della montagna si presta come terreno fertilissimo per il critico che voglia maramaldeggiare. Ma ebbe ragione inopinatamente e a tempi lunghi, perché trasmise una scintilla: e quel fuoco che ne nacque fu in primo luogo un gran falò di carte da bruciare, un rinnegare se stesso, un ricominciare faticoso da capo, su una strada nuova, che avrebbe potuto anche risultare senza sbocchi.

Verga parte da lontano, da una Sicilia antica e medievale dove, come commenta incuriosito e un po’ snob lo straniero Lawrence, non ci sono strade per veicoli provvisti di ruote e dunque non ci sono nemmeno veicoli per percorrere le strade. L’immobilismo è condizione dell’esistenza. Il motore dell’aspirante scrittore è, con parola oggi impronunciabile, la gloria, più concretamente il successo: nei beni materiali e naturalmente con le donne. Le prime opere verghiane appaiono in questo senso imbarazzanti per trasparenza autobiografica. È il caso di Una peccatrice, pubblicata nel 1866: ne è protagonista Pietro Brusio, controfigura del giovane Verga, autore di due o tre drammi rappresentati al teatro di Siracusa e subito dimenticati, e poi del Gilberto, portato in scena a Napoli, che gli vale un’immediata cooptazione da parte dell’aristocrazia sociale e intellettuale. Gli vale anche l’innamoramento di Narcisa Valderi, moglie del conte di Prato: esattamente lo scopo per cui si è dato la briga di scrivere, indirizzando opportunamente i suoi sforzi al teatro, luogo deputato di notorietà tra letteratura e vita. Verga allora non ha mai visto alcuna contessa di Prato, o simili, di cui si scalda la testa; e Narcisa più che la donna è lui. Quello che importa è che la donna sia settentrionale, e anche contessa. Siamo agli amori da balcone, secondo la definizione di uno che se n’intendeva, Brancati. Difatti Pietro Brusio va a contemplare dal marciapiede il profilo della donna che trapela da dietro la finestra, in chiaroscuro, e si inventa tutto ciò di cui ha bisogno. Già i titoli degli altri romanzi giovanili, Eva, Tigre reale, Eros, raccontano questa ossessione del femminino. La contessa di Prato, come le sue consorelle, è truccatissima, e il dramma è sbarazzarsi degli orpelli, alla lettera denudarla. Per giunta la malattia imperversa, con una concessione morbosa e per gusto kitsch.

Lo schema sottostante si conferma in Eva: il protagonista Enrico Lanti si infiamma per una ballerina sul palcoscenico, ossia si fissa sul simbolo sessuale prescelto da una collettività eccitata. Ma anche questa volta la conquista della donna determina un logoramento e una caduta del mito amoroso; sicché, con una simmetria un po’ meccanica, è la donna a sua volta a trovarsi adoratrice non corrisposta. In ogni caso, ecco la lezione che va ricavata, il delirio amoroso è inversamente proporzionale al grado di conoscenza realistica; e l’amante, per non sciupare il suo ideale e rialimentare le stanche emozioni, si risolve ad arretrare e a recuperare distanza.

A conti fatti, c’è pochissimo eros, a dispetto delle dichiarazioni verbali, e troppa letteratura. Il protagonista si trova in una posizione sbagliata, cioè letteraria: Pietro Brusio in Una peccatrice scrive drammi teatrali. Enrico Lanti in Eva è un pittore che, per esprimere la sua infatuazione per la donna divina che si è esibita sul palcoscenico, ricorre alla penna invece che al pennello; ed è grazie a quelle pagine, pubblicate da un amico giornalista come appendice teatrale, che gli riesce di accedere ai favori dell’amata. Anche il brillante e fatuo Giorgio La Ferlita di Tigre reale ha, come i confratelli che lo hanno preceduto, peccati letterari: questa volta, un volume di versi da addebitarsi all’esuberanza e all’improntitudine dei vent’anni.

La dialettica è quella tra immaginazione e realtà: costa sacrifici enormi, sul piano storico ed esistenziale, collocarsi nell’ordine del letterario; ma ancor più difficile è liquidare la cortina fumogena, per mirare al nòcciolo. L’opera più interessante del periodo giovanile è a mio giudizio Storia di una capinera, che diede la prima fama a Verga, anche se in una dimensione sentimentale e rosa: qui ancora la protagonista Maria si fa “scrittrice”, sia pure di lettere a un’amica e perciò senza ambizioni artistiche e sociali, secondo gli stereotipi del romanzo epistolare ottocentesco. Ma è creatura ingenua e inerme, che non chiede il massimo ma il minimo. Le sue tenerezze a volte smancerose e i suoi vezzi fiorentineggianti sono quelli di una signorina romantica abituata a tenere il diario; ma nella sua gabbia scattano i simbolismi della repressione e dell’esclusione, dell’isolamento e del sogno d’evasione. Verga si pone dal punto di vista di una donna, e questo lo aiuta a controllare e convogliare i meccanismi di identificazione, a ritrovare solidarietà a un livello più profondo. Gli altri personaggi sono dei prevaricatori, Maria è una monaca costretta, una vittima della società; e Storia di una capinera esce infatti dall’intimismo per sfociare nel documento e nella denuncia sociale.

Ed è un’altra figura femminile che traghetta Verga sui territori prima invisibili della realtà: Nedda, bozzetto rusticano del 1874, racconto di una raccoglitrice di olive votata alla miseria e alla sofferenza, segna questo spartiacque, e la fiamma del camino dinanzi a cui indugia sonnolento lo scrittore borghese nella pagina di preambolo è il fuoco metaforico dove vanno a bruciare le chimere giovanili, le velleità di un apprendistato che a quel punto, sui trentaquattro anni, avrebbe potuto anche essere quello di una carriera già conclusa e trasformata in mestiere.

Così non è stato; e non è agevole spiegare il passaggio da quel primo al secondo tempo della narrativa verghiana. Un tormentone della critica è stato valutare se sia intervenuta una svolta e una conversione, o se invece questa svolta sia apparente. Un interprete sofisticato come Giacomo Debenedetti ha giocato tutto il suo prestigio nel sostenere la tesi di Verga scrittore senza conversione. E sicuramente, chi pensasse a una sorta di illuminazione di uno scrittore che muore e risorge, lasciando alle spalle la zavorra del passato; chi contrapponesse la materia borghese dei romanzi fiorentini-milanesi e quella siciliana e rusticana come un’alternativa di temi e di tempi, rimarrebbe ben lontano dal concreto contraddittorio della scrittura, dalla verità complessa delle ambivalenze. Il passato non è mai una zavorra, e senza quelle tappe introduttive, quelle esperienze e quegli errori, Verga non sarebbe mai diventato una stella di prima grandezza. Il che è persino ovvio. Ma bisogna poi aggiungere che una volta scoperta la nuova strada, Verga non abbandona definitivamente la vecchia, e invece procede – come ha pittorescamente indicato Asor Rosa – «a spina di pesce». Un romanzo in ritardo come Il marito di Elena porta la data del 1882, coevo ai Malavoglia; Nedda è ripresentata in coda a una raccolta quale Primavera e altri racconti; persino una raccolta compatta e innovativa come Vita dei campi si trascina un relitto quale Il come, il quando e il perché. Verga non rinuncia consapevole a certi argomenti e a certi toni, ma li ripropone quando si credeva che l’autore dei Malavoglia non potesse più intrattenere alcun rapporto con essi. Al contrario, con sorprendente incoerenza o coerenza il suo impegno è di tornarvi, valorizzando un metodo, che ormai si illude di possedere.

Il metodo è quello veristico, replica italiana al naturalismo francese dei Goncourt e dell’ammiratissimo Zola, come già prima da Sue e dal romanzo d’appendice francese provenivano in buona parte le suggestioni della produzione borghese e psicologica. È dalla Francia che arrivano le novità per gli intellettuali siciliani, almeno sino a Pirandello, che approderà a Bonn. Si discute quale sia stato l’apporto del naturalismo, se si tratti di collaborazione in positivo o di collaborazione in negativo. Ma Verga, autore non intellettualistico, ha mostrato sempre diffidenza per le formule di scuola, preferendo alla fine parlare di verità piuttosto che di verismo.

Quali che siano le accentuazioni critiche, chiunque sente che è intervenuta una maturazione profonda, senza cui Verga non occuperebbe il posto che occupa nella letteratura italiana dell’Ottocento. La morte della madre, una crisi esistenziale a cui evidentemente era predisposto, una saturazione di se stesso e uno svuotamento che diventa per altro verso una liberazione e una catarsi: Verga, dopo aver immaginato e inseguito ciò che non conosceva, per un vizio sublimante ereditato da una cultura e da una tradizione, scopre ciò che gli sta attorno, scopre che ciò che sta davanti agli occhi è la cosa più difficile da vedere. Impersonalità e impassibilità, teorizzate con maggiore o minore problematismo, costruiscono un argine contro il dilagare dell’Io e la focosità meridionale. È l’affiorare di un sommerso storico, l’agnizione della realtà degli umili, dopo e oltre Manzoni: dei pescatori, dei contadini, dei muratori, della povera gente, degli attori anonimi di un’esistenza sconfitta. È, anche, la rivelazione del Sud, una nuova carta d’identità collettiva, a ridosso del processo di unificazione politica e sulla ribalta nazionale, con una reazione di stupore pari a quella che in Europa si diffonde alla lettura di Tolstoj, di Dostoevskij, di Turgenev, che aprono le porte dell’universo russo e dei servi della gleba.

Ciò che si ha da sempre davanti agli occhi è la cosa più difficile da vedere. Ma per riuscirvi, bisogna andarsene, entrare in una realtà diversa, istituire un raffronto, distillare il senso di colpa, sperimentare il pendolarismo fra tentazioni di tradimento e nostalgia. Verga deve uscire dall’isola, acquisire una prospettiva per capire se stesso e la sua terra. È da Milano che gli sarà possibile scrivere le pagine decisive, mentre a Catania potrà operare una verifica ai ricordi e rinnovare le motivazioni. Per la sua rappresentatività, egli inaugura il viaggio, il viaggio dello scrittore siciliano, dal Sud al Nord: un viaggio che è fuoriuscita dalla placenta e dai confini dell’isola, che è sempre emigrazione e presuppone il tempo e la corsia del ritorno. Di questo processo, sia pure per un segmento isolato, sarà ’Ntoni Malavoglia il giovane l’eroe negativo, tanto più figura portatrice di messaggio in quanto la sua coscienza infelice si formerà come peccato e inattesa emergenza.

In questa zona ancora incerta, nel guado tra due sponde, è la funzione della novella Fantasticheria, cartone dei futuri Malavoglia, il cui rapporto con il romanzo è stato in anni recenti contestato ma che rimane documento polemico di un travaglio, annuncio di una rivoluzione in atto: ad una nobildonna corteggiata, provvista di cospicua rendita, che visita il paese da turista e da esteta, Verga trova il coraggio di argomentare l’altra verità, in un rovesciamento delle parti, con un’ambiguità che da questo istante lo lascia gelosamente reazionario sul piano privato, ma aperto e scardinante nelle pieghe più interne della sua scrittura.

Nasce così il ciclo dei Vinti, con laboriosa gestazione, risposta alle grandi architetture francesi, in particolare alla Comédie Humaine di Balzac e ai Rougon-Macquart di Zola, ma soprattutto progetto di revisione e visione globale dell’esistenza. Influenzato dal positivismo e dalle teorie di Darwin che erano nell’aria, ma soprattutto affidandosi alla propria intuizione di artista, Verga si accinge a edificare la sua cattedrale, dalle fondamenta sino al vertice, dalla base dei pescatori Malavoglia che tentano l’avventura con un commercio di lupini, al salto di classe di un mastro arricchito, via via ai livelli alti della società, all’élite dell’aristocrazia della politica dell’arte. Verga organizza la strategia dei passaggi, dal paesino di Aci Trezza a Vizzini a Palermo a Roma a Firenze, nella composizione di un ramificato albero genealogico. Non ha il rigore scientifico di un Taine teorico della razza, dell’ambiente, del momento, ma è scrittore convinto di possedere alcune chiavi: l’economicità del reale e le leggi del determinismo, l’unità del mondo e la violenza che lo governa.

Il progetto è palesemente troppo ambizioso e Verga arriva a scrivere soltanto i primi due romanzi della programmata pentalogia, quelli legati alla terra, alla radice, al fondamento: alla Sicilia in quanto luogo di genesi e di epifania. Rimette in piedi ciò che prima era capovolto, costruisce dal basso, racconta i suoi personaggi nella necessità degli istinti di natura. Dalle sue pagine si configura una filosofia del corpo, la relazione tra l’uomo e l’animale, lo scandalo della catena alimentare, la violenza della storia: questa filosofia, empirica ma sostanziale, del pesce grosso che mangia il pesce piccolo, tradotta in un intreccio di situazioni narrative e in un sistema linguistico e simbolico, ho cercato di ripercorrere nel mio volume Anatomie verghiane, a cui rinvio.

Più Verga scava in basso, più risulta profondo. La parabola dei Malavoglia mette in luce che lo sforzo è quello di passare dalla condizione infida del mare a quella solida e stabile della terra; il Mastro-don Gesualdo mostra la successiva acquisizione di porzioni di terra, che il padre di Gesualdo misura infatti a gran passi, per risarcimento e difesa futura. Ma esiste un livello più basso di quello stesso dei Malavoglia, che pure costituisce lo zoccolo: ed è quello di Rosso Malpelo, dove un ragazzo vive un’esperienza eccezionale, sottoterra, in una cava di rena, emarginato ed eliofobico, terminale della gerarchia di potere e proteso alla rivolta. Basterebbe confrontare il bestiario della Capinera con quello di Rosso Malpelo, come del resto con quello della Lupa, per rendersi conto del mutamento di registro avvenuto, della soglia conoscitiva e linguistica valicata. Rosso Malpelo, analfabeta e maestro sapienziale, ha collaudato una regola, che è poi quella del suo autore: guardare e vedere. «Vedi!», dice al suo allievo, il compagno Ranocchio, davanti alla carcassa dell’asino grigio, in un esperimento a cielo aperto, mentre si precipitano dalla campagna i cani e già si nota più famelica e vincente la cagna nera, in un impressionante spettacolo darwiniano di lotta e selezione. Per questa rivelazione Malpelo, giovane vecchio, giudica che sarebbe meglio non essere mai nati; al contrario Mazzarò nella novella La Roba, vecchio che fa dimenticare di essere stato giovane, avendo risolto il problema delle risorse fondamentali vorrebbe non morire mai, mentre la terra conquistata gli ricasca addosso, si confonde col corpo in un abbraccio mortale, all’altro estremo, in una corrispondenza drammatica, che conferma l’indistruttibilità della struttura.

Come si può desumere da questi pochi esempi, le novelle di Vita dei campi e delle Rusticane disegnano insieme ai due romanzi un campo interattivo, scaturite da una comune fonte d’ispirazione: figure di un coro, voci di un popolo, di cui Verga si fa testimone e storico, per virtù d’arte. Egli narra della sua Sicilia, ma l’isola detemporalizzata si dilata a significazioni simboliche ampie, ritaglia un mondo che è non più solo provincia, ma il Mondo. Di qui la sua statura internazionale, anche se la specificità del radicamento e l’irrepetibilità dell’impasto linguistico e del sostrato dialettale ne hanno reso difficile l’esportazione oltre i confini.

Dopo il Mastro-don Gesualdo, che esce in volume nel 1889, si chiude la stagione aurea della narrativa verghiana. L’autore segue varie sollecitazioni, ha cercato in Per le vie di adattare i principi del verismo al contesto milanese, si concentra e si disperde in raccolte di novelle qua e là interessanti, ma inevitabilmente minori e destinate a rimanere nell’ombra. Il nodo da sciogliere, la prova del nove, resta la prosecuzione del ciclo dei Vinti. Resta cioè la stesura della Duchessa di Leyra, perché L’Onorevole Scipioni e L’Uomo di lusso appartengono al regno di utopia.

Occorre a tal proposito correggere un equivoco. De Roberto afferma di aver pubblicato «quanto egli lasciò del romanzo»; e, dopo aver riprodotto il primo capitolo e il frammento del secondo, ribadisce che a quel punto «la penna cadde di mano al grande artista». Ed è ciò di cui è lecito dubitare. Al grande artista la penna cadde di mano, oppure preferì strappare i fogli scritti? Dalla risposta a questo interrogativo dipende l’interpretazione del silenzio verghiano nell’ultima fase. Verga nella prefazione ai Malavoglia aveva contratto un pubblico impegno. Dopo la definitiva redazione del Mastro, la vena gli si inaridisce, ma non sino a estinguersi: nel 1891 dà alle stampe I ricordi del capitano d’Arce, nel 1894 la raccolta di Don Candeloro e C.i, nel 1902 i bozzetti della Caccia al lupo e della Caccia alla Volpe, dal 1903 al 1906 è impegnato nella duplice stesura scenica e romanzesca di Dal tuo al mio. Verga, insomma, è scrittore ancora attivo: scrittore che in cima ai suoi pensieri letterari ha La Duchessa di Leyra. Una spigolatura dall’epistolario non lascia dubbi in merito: per anni e anni, tra interruzioni e riprese, egli si dedica al terzo romanzo del ciclo. Accumula appunti e consulta materiali anche riservati come il Memorandum redatto da tal nobiluomo napoletano, o inediti al pari del Diario Lobianco; visita Palermo e frequenta le case esclusive dell’aristocrazia locale. E già questi elementi qualificano una differenza: non gli bastano più Aci Trezza o Vizzini, conosciute da sempre a meraviglia, non gli è più sufficiente l’osservazione diretta di contadini e pastori delle sue contrade. Deve invece rimettersi in viaggio, non più giovane, con l’animo dell’intellettuale che va alla ricerca di documenti umani e registra processi verbali. E questo può essere Federico De Roberto, ma non Giovanni Verga, il quale – ormai lo sappiamo – sino ad ora si era trovato attorno a sé ciò di cui aveva bisogno e si era allontanato per mettere a fuoco le immagini già impresse nella memoria.

La Duchessa di Leyra rimane il grande incompiuto dell’opera verghiana. Vi attese però lungamente il suo autore; sicché, se ne sopravvive non più che un primo spezzone, la ragione va vista in una consapevolezza estetica, che sceglie la rinuncia, una rinuncia che culmina nell’autocensura. Verga ormai ritornava alla materia dei romanzi giovanili, ma vi ritornava con una personalità mutata, come uno che ha compiuto un intero giro di pista. Aveva qualcosa in meno nel suo bagaglio: il cerebralismo, la fervorosa sensualità, l’ubriacatura dei romanzi francesi alla Sue. In più, come ho detto, aveva, o si illudeva di avere un metodo. In una lettera del luglio 1899 al suo fedele traduttore Rod faceva un bilancio nei seguenti termini: «Se dovessi fare a voi, amico, e non pel pubblico le mie confessioni letterarie, direi soltanto questo: – che ho cercato di mettermi nella pelle dei miei personaggi, vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle colle loro parole –, ecco tutto. Questo ho cercato di fare nei Malavoglia e questo cerco di fare nella Duchessa in altro tono, con altri colori, in diverso ambiente».

Troppe alternative. La pelle dei personaggi: la pelle di Padron ’Ntoni e di ’Ntoni il giovane, va bene; la pelle di Rosso di Jeli di Mazzarò e di Gesualdo, va bene. Ma la pelle della duchessa? E infatti lo scrittore così continuava quella sua confessione a Rod: «E qui cade acconcio quel che disse Goncourt che le scene e le persone del popolo sono più facili a ritrarsi, perché più caratteristici e semplici – quanto complicati e tutti esprimentesi per sottintesi sono le classi elevate, massime se si deve tener conto di quella specie di maschera e di sordina che l’educazione impone alla manifestazione degli stessi sentimenti, e alla vernice quasi uniforme che gli usi, la moda, il linguaggio quasi uniforme nella stessa società tendono a rendere pressoché internazionale in una data società. E massime nel mio metodo – che Dio m’assista per questa Duchessa!». Dove è sentita come superiore difficoltà quella che nella prefazione ai Malavoglia era asserita come obiettiva diversità:

 

A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee.

 

Ma anche queste difficoltà si appianano e si superano, se l’artista ha l’ispirazione, che non può nascere senza la giusta disposizione di spirito. Anche le classi elevate hanno avuto i loro cantori: Proust ha immortalato l’aristocrazia parigina, Tolstoj ha rappresentato con eguale efficacia il mondo della nobiltà e quello del popolo. Ed è appena il caso di evocare il nome di D’Annunzio, la sua predestinazione a ricoprire un ruolo, sino al divismo. Il giovane Verga si aspettava una cooptazione dall’élite sociale di cui narrava i fatui splendori; mentre lo scrittore maturo, che scopriva il realismo doloroso della vita, aveva uno sguardo di pietà per i reietti che sopportavano con dignità il carico della loro pena, ma già non dissimulava distacco e impazienza per gli esponenti parassitari dei ceti privilegiati. Nel Mastro-don Gesualdo si apre una galleria di segno tendenzialmente espressionistico, una grande ritrattistica a forti colori, a scalpellature sbalzate, che colpisce i fantasimi Trao, il marchese Limòli, la turba delle sorelle Zacco e Margarone, lo stesso sfinito duca di Leyra...

Verga si trova in sostanza riavviluppato nei ceppi di cui aveva fatto tanta fatica a liberarsi; mentre ormai ha più gli interessi dell’ortolano che dell’uomo di lettere. Si occupa della trasposizione teatrale delle sue opere, che portano profitto, della controversia giudiziaria contro Mascagni e l’editore Sonzogno per la tutela dei diritti di Cavalleria rusticana, si occupa dei nipoti e della famiglia, lui che non ha voluto mai sposarsi. Il suo materialismo gli si avvolge attorno, proteggendolo e chiudendolo. Il silenzio di Verga, che vivrà una vecchiaia robusta sino al 1922, cronologicamente coetaneo di Freud, di Proust, di Joyce, dei nuovi maestri dell’avanguardia, ma irrimediabilmente consegnato all’Ottocento, si carica di significati inquietanti e suona come una sfiducia per i valori della letteratura, che tanto entusiasmo avevano acceso all’origine.

 

SERGIO CAMPAILLA

Questo ebook appartiene a martina rotta - 91344 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 9/12/2014 7:44:43 AM con numero d'ordine 925062
I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana
cover.xhtml
logo.xhtml
colophon.xhtml
frontespizio.xhtml
nota.xhtml
tit1.xhtml
intro1a.xhtml
intro1b.xhtml
intro1c.xhtml
Section0001.xhtml
Section0099.xhtml
Section0002.xhtml
Section0003.xhtml
tit2.xhtml
intro2a.xhtml
intro2b.xhtml
Section0004.xhtml
Section0005.xhtml
Section0006.xhtml
Section0007.xhtml
Section0008.xhtml
Section0009.xhtml
Section0010.xhtml
Section0011.xhtml
Section0012.xhtml
Section0013.xhtml
Section0014.xhtml
Section0015.xhtml
Section0016.xhtml
Section0017.xhtml
Section0018.xhtml
Section0019.xhtml
Section0020.xhtml
Section0021.xhtml
Section0022.xhtml
Section0023.xhtml
Section0024.xhtml
Section0025.xhtml
Section0026.xhtml
Section0027.xhtml
Section0028.xhtml
Section0029.xhtml
Section0030.xhtml
Section0031.xhtml
Section0032.xhtml
Section0033.xhtml
Section0034.xhtml
Section0035.xhtml
Section0036.xhtml
Section0037.xhtml
Section0038.xhtml
Section0039.xhtml
Section0040.xhtml
Section0041.xhtml
Section0042.xhtml
Section0043.xhtml
tit3.xhtml
intro3a.xhtml
intro3b.xhtml
Section0044.xhtml
Section0045.xhtml
Section0046.xhtml
Section0047.xhtml
Section0048.xhtml
Section0049.xhtml
Section0050.xhtml
Section0051.xhtml
Section0052.xhtml
Section0053.xhtml
Section0054.xhtml
Section0055.xhtml
Section0056.xhtml
Section0057.xhtml
Section0058.xhtml
Section0059.xhtml
Section0060.xhtml
tit4.xhtml
intro4a.xhtml
intro4b.xhtml
intro4c.xhtml
Section0061.xhtml
Section0062.xhtml
Section0063.xhtml
Section0064.xhtml
Section0065.xhtml
tit5.xhtml
intro5a.xhtml
ded5.xhtml
Section0066.xhtml
Section0067.xhtml
Section0101.xhtml
Section0068.xhtml
Section0069.xhtml
tit6.xhtml
intro6a.xhtml
intro6b.xhtml
Section0070.xhtml
Section0071.xhtml
Section0072.xhtml
Section0073.xhtml
Section0074.xhtml
Section0075.xhtml
Section0076.xhtml
Section0077.xhtml
Section0078.xhtml
Section0079.xhtml
Section0080.xhtml
Section0081.xhtml
Section0082.xhtml
Section0083.xhtml
Section0084.xhtml
Section0085.xhtml
Section0086.xhtml
Section0087.xhtml
Section0088.xhtml
Section0089.xhtml
tit7.xhtml
intro7a.xhtml
intro7b.xhtml
Section0090.xhtml
Section0091.xhtml
Section0092.xhtml
Section0093.xhtml
Section0094.xhtml
Section0095.xhtml
Section0096.xhtml
Section0100.xhtml
Section0097.xhtml
Section0098.xhtml
indice.xhtml