Guida alla lettura

 

 

 

 

Nel capitolo conclusivo della Coscienza di Zeno, «Psico-analisi», ci sono due passi illuminanti su ciò che fu per Svevo la «questione della lingua» e, più latamente, sul nodo costituito per lo scrittore da varie ambiguità: rapporto terapia analitica-invenzione; rapporto memoria-emozione; rapporto creazione-menzogna.

Una problematica, come si vede, assolutamente moderna: un plesso di elementi riflessivi e fantastici che hanno certo contribuito in misura decisiva a far parlare di Svevo, con non poco pressappochismo, di «Proust italiano». Vediamo:

 

Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.

 

E ancora:

 

È così che a forza di correre dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non giù una menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c’erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l’aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato.

 

L’atteggiamento sveviano nei confronti della psicanalisi è, qui e altrove, seccamente ironico. Egli sa che la ricchezza di una psiche è fatta anche dei materiali rischiosi che chiamiamo nevrosi, sa che la distinzione drastica fra malattia e salute è schematica e improduttiva, sa infine che proprio nella gestione attiva delle proprie nevrosi risiede il rapporto più sano possibile con la vita. «Com’era stata più bella la mia vita che non quella dei cosidetti sani», si sorprende a pensare il vecchio Zeno Cosini: ed è proprio l’attributo «cosidetti» che sbalordisce il lettore di oggi, come un’anticipazione, fugace ma convinta, di certe tematiche antipsichiatriche e liberatorie che si sarebbero affermate, tra successi e contraddizioni, solo trent’anni dopo.

La lingua. La coscienza di Zeno è anche la coscienza della precarietà della lingua in cui lo scrittore si esprime, la consapevolezza di trovarsi naturalmente fuori dal corso del fiume umanistico che dal Bembo in poi ha segnato in senso monolinguistico l’italiano della tradizione letteraria. La diversità di Svevo, da linguistica, si rivela immediatamente culturale: la sua posizione di intellettuale di frontiera costituisce il suo più vero privilegio. Ciò che può apparire un handicap agisce al contrario come un’avance che gli permette, ad esempio, di aggredire la problematica psicanalitica senza nessun complesso d’inferiorità, e anzi da un’angolazione ironica tagliente, assolutamente estranea all’ottica che nei confronti della psicanalisi adottano gli scrittori italiani coevi.

Il «silenzio» di Svevo dal 1898 al 1923 non è un vuoto nel quale, improvvisamente e in virtù di un’illuminazione geniale, fiorisce un esito poetico originale e rivoluzionario come La coscienza di Zeno, ma in realtà un periodo di ininterrotta riflessione, di scavo profondo e di tensione verso la maturità umana, culturale ed espressiva, al termine del quale si situa naturalmente l’esperienza della fase più alta della sua trilogia romanzesca, al tempo stesso inveramento e sconvolta dilatazione delle due precedenti. La coscienza di Zeno è così, insieme, una conferma e una smentita. Conferma l’ossessione tematica del triestino centrata sul fallimento e la sconfitta, e ne smentisce sul piano del linguaggio il determinismo, proprio in quanto è capace di sviluppare il suo gioco su due tavoli cambiando continuamente le carte: il tavolo della meccanica sociale mercantile-borghese e il tavolo dell’ambiguità vischiosa della psiche. Ciò che unifica il tutto senza barare è l’ironia, cioè la disincantata (e duramente appresa) «scienza della vita», cioè la coscienza.

La coscienza di Zeno Cosini è, appunto, la sola scienza che egli possieda, e il solo suo disperato e inalienabile bene.

Il capolavoro, quindi, si pone come il momento decisivo e conclusivo di un processo tutt’altro che casuale e caratterizzato da sporadici sprazzi di felicità creativa, vissuto piuttosto dallo scrittore attraverso una ricerca condotta per venticinque anni in coerenza col principio che «scrivere a questo mondo bisogna, ma pubblicare non occorre» (cfr. Livia Veneziani Svevo, Vita di mio marito).

Al di là della leggenda del trentennale silenzio, quindi, è ormai chiaro come Svevo, malgrado il peso delle delusioni e l’incomprensione che circondava la sua opera, abbia continuato a lavorare non per vizio arcadicoevasivo o dietro il miraggio di una tardiva affermazione letteraria, ma nella convinzione che la lenta elaborazione della sua arte esigeva un impegno tutt’altro che sporadico, proteso alla ricerca dei significati più interni e segreti, in un certo senso da sempre già oltre la preoccupazione dei riconoscimenti ufficiali. Ne fanno fede diversi passi dell’Epistolario, e in particolare due luoghi del Profilo autobiografico, in cui si legge: 1) «I suoi amici possono testificare ch’egli mai ammise che i suoi romanzi valessero poco. Sapeva chiaramente dei loro difetti ma non si decideva d’attribuire a questi il suo insuccesso. Era perciò vano un altro sforzo ulteriore. Credette sempre che anche a chi ha il talento di fare dei romanzi spetti una vita degna di essere vissuta. E se per ottenerla bisognava rinunziare all’attività per cui si era nati, bisognava rassegnarsi»; 2) «Egli s’era messo a scrivere La coscienza di Zeno. Fu un attimo di forte travolgente ispirazione. Non c’era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo. Certo si poteva fare a meno di pubblicarlo, diceva».

Nel romanzo la dicotomia tra autobiografia e racconto è risolta sul versante di un anti-romanzo avanti lettera. Le vecchie strutture narrative fanno ancora parte di quella perniciosa attività chiamata «letteratura» e quindi non possono più servire. Schopenhauer o Darwin, che avevano in qualche modo sorretto l’impalcatura di Una vita e di Senilità, risultano monete fuori corso per l’operazione di finanza letteraria altra che lo scrittore si è prefisso. Svevo si trova fra le mani un semilavorato che non può diventare prodotto finito se non restando «aperto». La coscienza di Zeno è, così, un’opera aperta» involontaria, un testo insofferente di ficelles ideologiche: tanto che le stesse teorie freudiane, pure così importanti nella genesi del romanzo, vengono utilizzate soltanto a livello di elementi culturali, di dati gnoseologici, di strumenti tecnici insomma, e rifiutate come ideologia. Lo stesso Dottor S., che nel libro funge da portavoce di esse, è un personaggio più ridicolo che rispettabile. La «terapia» personale perseguita da Svevo mediante la scrittura rifiuta la gabbia della scienza assunta come dogma e depositaria della verità una volta per sempre, ideologicamente appunto: la sua prassi terapeutica è qualcosa che egli non riesce ancora a definire. Incerto tra scienza e filosofia, lo scrittore si rivolge allo psicanalista triestino dottor Weiss per chiarire prima di tutto a se stesso se La coscienza fosse o meno un’opera psicanalitica, ricevendone una smentita recisa. La letteratura corrente, tra l’altro, quella che aveva mercato, era innegabimente qualcosa di profondamente diverso: era, per Svevo, la Letteratura: una sirena che per lui non aveva mai cantato, e a cui s’illudeva di aver rinunciato per sempre.

La coscienza di Zeno fonda un modello di letteratura diverso, ma l’autore lo sa fino a un certo punto. È un modello in cui domina il principio di associazione e che esclude ogni nesso di naturalistica causalità; in cui domina il gioco dell’imprevedibilità propria del reale ed esclude ogni preordinata gerarchia fattuale; in cui domina l’ambiguità, e perfino, probabilmente, la falsità, dal momento che la «memoria» stesa da Zeno Cosini è sicuramente parziale e sviluppa una strategia pro domo sua, essendo egli un nevrotico in cura analitica. Cos’è attendibile in questa sorta di meccano associativo? Cos’è inventato da Zeno? Fino a dove giunge la sincerità? Dove comincia la reticenza? Il lettore non può «fidarsi» completamente di lui, né può «fidarsi» del suo psicanalista, dal momento che il Dottor S. agisce in modo scorretto e puerile, decidendo di pubblicare la memoria del paziente per «vendicarsi» dell’interruzione della terapia. È quindi chiaro che l’attendibilità della sua «Prefazione» al racconto di Zeno è assai scarsa.

Ci accorgiamo così che il romanzo è costruito su una rimozione: quella della verità. La verità è, per Svevo, l’equivalente della salute: due «valori» assolutamente privi di valore assoluto, sottoposti alla relatività implacabile e inevitabile della vita. Alla verità lo scrittore contrappone la parodia, cioè il suo contrario. La verità implica l’immobilità, la parodia il movimento. L’unico senso della Coscienza di Zeno è quello del movimento, del rovesciamento costante, dell’instabilità costitutiva del mondo e della scrittura: ed è un senso alla cui costruzione è chiamato interrogativamente il lettore.

La dimensione tragica della vita, così palesemente attiva ed evidenziata nei due primi romanzi, ha virato nella Coscienza, fin dall’inizio, verso la dimensione umoristica, uscendone sicuramente arricchita quanto a forza di convinzione drammatica. Svevo sa perfettamente che l’epoca della riproducibilità tecnica dei sentimenti permette di toccare il tragico solo attraverso il comico: e si comporta di conseguenza, con straordinaria lucidità. Il «Preambolo» pone d’emblée il lettore all’interno del meccanismo: non siamo più ormai di fronte all’espediente del romanzo-pretesto, ma l’aura della finzione romanzesca è dissipata senza ambagi: il tentativo che Zeno Cosini fa di raccontare la propria vita, ora che è giunto in età avanzata, è dato appunto come tentativo di riacquistare la salute e l’equilibrio, e nulla più. Il «Proust italien», come sbrigativamente Svevo è stato definito, persegue una strategia assolutamente originale: Proust si dissipa e si realizza in un inseguimento di nomi di paesi e di persone, di amori e di amicizie irrimediabilmente consumati, in cui il Narratore celebra il suo rito idolatrico, il suo culto dell’effimero e non dell’eterno. Se idolatria è il Tempo Perduto, la verità salvifica è il Tempo Ritrovato, mediante un recupero in cui la memoria involontaria gioca il ruolo centrale. Svevo si serve di altri mezzi: la sua non si pone come una memoria mitica, come passaporto per sfuggire al silenzio e alla morte. Egli realizza un’operazione in cui la volontarietà della memoria è ancora molto forte, e vale come strumento per chiarire il senso della propria e dell’altrui esistenza, praticamente senza sperarne privilegi o risarcimenti. Il «buonsenso» laico e borghese di Svevo, come la sua matrice culturale, non possono essere confusi col turgido e avvolgente decadentismo analitico che circola nelle pagine di Proust. Piuttosto, comune ad entrambi gli scrittori è l’esigenza di apprestarsi nuovi moduli di lavoro fondati sull’autobiografia come momento sintetico rispetto alla frantumazione dell’esperienza; per cui tutt’e due i grandi romanzieri della crisi della coscienza borghese corrodono qualcosa di più che una tecnica letteraria, agiscono in certo senso al di là della letteratura. Assai più «letterato» di loro risulta James Joyce, anche lui abbastanza arbitrariamente affratellato al triestino, in una leggenda nata su coincidenze puramente biografiche, non certo su circostanze culturali o affinità ideologiche di qualche precisione.

Certo è che la particolare forma a episodi «autonomi» della Coscienza di Zeno, ognuno dei quali costituisce una sorta di stazione a ritroso che dal passato si dirige verso il presente di volta in volta incamerando gli elementi di quella che precede, non era pensabile senza il «rifiuto» della letteratura esplicitamente dichiarato dal triestino. La vitalità del romanzo ha origine da questa spallata che lo scrittore dà alle proprie abitudini di impianto e di racconto, per «entrare» nella propria materia non più come descrittore e commentatore, ma come interprete e infine elemento attivo. L’autobiografia diventa a questo punto una via obbligata: e Svevo se ne serve con una libertà pari alla distanza ironica che intromette fra sé e questa materia.

Il terzo capitolo, «Il fumo», cala il lettore in una delle situazioni-chiave del romanzo. Ancora una volta, ci troviamo in presenza di uno dei perenni miti negativi di Svevo: il proposito di riscatto dei protagonisti e la sua mancata realizzazione, che invariabilmente li frustra. Ma ora l’oggetto del proposito e la causa della frustrazione sono assolutamente irrisori e banalizzati: la battaglia si svolge fra Zeno e la propria volontà, e il casus belli è «l’ultima sigaretta». Zeno si abbarbica a continui proponimenti di non fumare più, che d’altronde eluderà sistematicamente rimuovendo poi sempre il «rimorso» e il senso di colpa che gliene derivano.

Il dramma propende al comico, al futilmente umoristico. La materia è degradata rispetto ai romanzi precedenti, ma è subito più decisamente interna, liquida o gassosa a seconda dei casi, dotata ormai in sommo grado di quell’ambiguità e contradditorietà che Svevo attribuisce all’esistenza, e con la quale intende concorrere e misurarsi, operando su un sistema organico di decentramento e di dislocazione ininterrotta:

 

Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?

 

La dialettica tra malattia e salute è un altro dei motivi centrali del romanzo, anch’esso ambivalente e in continuazione slittante dal piano fisiologico a quello psicologico. In realtà, salute, giovinezza e incosciente, naturale equilibrio psichico sono i doni (malcerti) di un’età fortunata a cui si contrappongono i tristi portati della «senilità»: la cagionevolezza, la sensazione di esser fuori dal gioco, la finta rivalsa dell’esercizio della «coscienza», che è in fondo il vizio più malinconicamente vero della parabola esistenziale. La ricca polifonia del romanzo si apre fin dalle prime pagine senza segreti: Svevo lavora ormai non più secondo la scala di una progressione logico-narrativa, ma secondo modi che, come s’è già detto, obbediscono all’analogia e all’aggregazione, all’associazione di idee e al libero fluire della memoria. Lo schema non preesiste, ma sembra crearsi spontaneamente di volta in volta, nel tortuoso e ineguale percorso dell’analisi. Il lettore è introdotto nell’«universo» di Zeno, nel flusso tra reale e fittizio del «suo» tempo: e ciò avviene senza schermi protettivi, dal momento che il personaggio assicura di esporsi intero fin dai movimenti iniziali. L’episodio della tentata disintossicazione in casa di cura è tipico dell’atmosfera autodenigratoria e dell’andamento da commedia degli equivoci che occupano tanta parte del libro: questo blando «punitor di se stesso» che è Zeno non reggerà neanche una notte nella clinica, ma intanto, prima di ubriacare la vecchia infermiera e di tornarsene a casa, fa in tempo a descriversi come una sorta di erotomane benigno, di feticista mancato, e a farsi cordialmente beffe dell’«Esculapio» che lo visita.

Nell’episodio successivo, «la morte di mio padre», Svevo sposta la tonalità sul tragico. Il padre di Zeno gode «della fama di commerciante abile» pur se in realtà i suoi affari sono diretti dall’attivo signor Olivi. Zeno nota che «nell’incapacità al commercio v’era una somiglianza fra di noi, ma non ve ne erano altre; posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza».

Dov’è, in fondo, la vera «forza» di un uomo pigro e distratto come Zeno Cosini? Probabilmente nella caparbietà con cui insiste a difendere dall’altrui intrusione le riserve dei suoi privati egoismi, nella pertinacia con cui rifiuta di rinunciare ai piaceri minuti della vita, della sensualità e dell’orgoglio: ma più ancora, secondo il rimprovero paterno, nella sua «tendenza a ridere delle cose più serie». Ma, si chiede Zeno (e con lui Svevo), cos’è veramente serio a questo mondo? La serietà è dietro le apparenze, e riguarda un sempre più ristretto numero di eventi e di fenomeni.

La malattia e la morte del padre si muovono su un piano che amplifica in chiave tragica la situazione drammatico-umoristica che il narratore-paziente Zeno ha definito come «una analisi storica della mia propensione al fumo», vizioso eccesso al quale egli attribuisce anche l’origine della straripante carica sessuale da cui quasi si sente perseguitato. La sensualità diventa malattia, irrefrenabile erotismo, dissipazione energetica e quindi colpa da espiare (ma in tutti i casi non peccato): secondo comanda l’imperativa etica borghese-mercantile, per la quale il momento ludico e il gioco erotico rappresentano pulsioni e fenomeni pericolosi, alla lunga eversivi di un ordine: e comunque poco seri e indegni di essere esibiti.

Il sognatore Zeno, per tanti versi così alieno dagli interessi concreti e dal pragmatismo della sua classe, ne sconta tuttavia i pregiudizi, confinando la prepotenza dei suoi stimoli in una zona patologica. Guarendo dell’intossicazione da fumo, egli guarirà anche del suo furioso appetito sessuale: la Civiltà avrà avuto ancora una volta la meglio sull’Eros.

L’evento che segna profondamente il futuro di Zeno è il famoso schiaffo che il padre moribondo lascia cadere sul volto del figlio, come una «punizione», al momento del trapasso. Gesto automatico o estremo sforzo di rimanere aggrappato alla vita, esecuzione di una volontà o atto casuale, lo schiaffo subisce nella memoria volontaria di Zeno la metamorfosi cui vanno soggetti tutti i fenomeni sgradevoli della sua esistenza, e in genere con segno positivo: per diventare, già durante il funerale, non più l’ultima prova d’incomprensione e di ostilità di un uomo il cui corpo giaceva ancora «superbo e minaccioso», ma quasi il saluto composto di qualcuno che non si decida a lasciarci.

Il meccanismo della compensazione è scattato, e a vantaggio di Zeno. Quella del padre è una forza che non può più offendere, ma Zeno non lo fa notare. La sua abilità nell’evasione, la capacità impeccabilmente tempestiva di servirsi di uno strumento come la sublimazione, la facoltà di rimuovere sistematicamente gli ostacoli cocciuti che intralciano la sua libertà sentimentale e psicologica, costituiscono in realtà il potenziale più consistente della sua «debolezza». Il fatto è che entro i confini del suo territorio egli risulta il più forte e finisce per essere il vincitore. Nessuno potrà violare le mura della sua «coscienza»: Zeno ha tra l’altro il merito di non elevarsi un piedistallo, di non assumere pose eroiche. Se gli è consentita questa libertà, che è pur sempre un privilegio, egli lascia intuire che si tratta di un patto sociale stretto ben prima di lui, di cui egli fruisce e che gli permette addirittura di presentarsi come un «antieroe».

Paradossalmente, Zeno trasforma i suoi scacchi in affermazioni vantaggiose. Così è negli affari, in cui sovente la sua «inettitudine» si rivela provvidenziale; così è nell’amore e nel matrimonio. Innamorato della bellissima Ada Malfenti, che lo respinge per sposare l’amabile e mondano Guido Speier, egli impalmerà la brutta ma dolcissima sorella di lei, Augusta, quasi per forza d’inerzia e per necessario autoconvincimento che sia la donna giusta. Nella stessa serata Zeno si dichiara a una dopo l’altra delle tre sorelle Malfenti, quasi in preda a una smania di sarcastica autoflagellazione. Due risposte negative: Ada e Alberta. Una risposta affermativa: Augusta. L’ostilità di Ada e della madre, una volta che le cose si sono messe per il verso da loro desiderato, si trasforma in affettuosa considerazione per Zeno. Il capovolgimento della situazione è talmente repentino e talmente pervaso di verità, che l’insistenza della critica sull’atmosfera chapliniana della lunga sequenza, e sull’associazione gestuale e comportamentale Zeno-Charlot in particolare, non è certo infondata.

Con un senso della durata temporale di straordinaria suggestione fluidificante, Svevo gioca questa parte del romanzo su molti piani, mediante rimandi continui e continue rispondenze. Il presente, cioè il tempo dell’intelligenza che assiste e registra, s’insinua nel passato vissuto e sollecita i fermenti del passato ipotetico. Zeno agisce da regista e le fanciulle da attrici, nel momento esatto in cui il giovane parla di cose che gli sono avvenute in un passato imprecisato per interessarle e guadagnarne la simpatia: ma il lettore ne è informato da un vecchio che racconta di se stesso giovane, rivedendosi nell’atteggiamento di narratore orale per un pubblico che vuole coinvolgere nel suo piccolo mito, nella costruzione di sé come individuo di eccezione; tra l’altro, non senza una buona dose di ingenuo velleitarismo.

Marito involontario, Zeno si è lasciato scegliere. Del resto, la sua intera esistenza brilla per l’assenza di scelte precise, eppure egli riesce sempre, stranamente, a imboccare la strada giusta. La sua vera vocazione è quella di un uomo che evita il rischio sotto ogni forma, e si crea un involucro di ipocondria, di malattia immaginaria, di neutralità insomma di fronte ai conflitti esistenziali, dal quale assistere senza bruciarsi al rovente spettacolo della realtà. Questa è la vera «coscienza» del personaggio Zeno Cosini: ricerca apparentemente svagata e casuale della consapevolezza del vivere, e al contempo difesa della propria «mancanza di qualità». La pratica della memoria non come rimpianto ma come ricostruzione attiva può darsi, a questo punto, addirittura come polemica nei confronti dei valori borghesi correnti: intraprendenza, spregiudicatezza, senso pragmatico, attivismo pratico; valori tutti volti in primo luogo all’affermazione economica, allo scopo del lucro e del profitto. La moglie Augusta è la difesa dal rischio, l’amante Carla Gerco l’avventura senza rischio. L’altalena sentimentale di Zeno scivola continuamente dal drammatico al comico, e i poli umani di questa oscillazione sono rappresentati appunto dalla moglie e dall’amante, come già in Senilità Angiolina e Amalia erano state le personificazioni del piacere colpevole e della purezza sacrificata. Zeno ha lasciato da parte il «mondo sano e regolato» organizzatogli attorno da Augusta per avventurarsi nell’incognita del proibito: ha lasciato la «salute» per entrare nella «malattia». Quando avrà superato suo malgrado l’infatuazione per Carla non sarà per questo guarito dalle sue inquietudini e dalle sue nevrosi.

I motivi profondi che hanno spinto lo scrittore a realizzare il suo romanzo-pretesto sono ormai chiari. Nell’ultimo capitolo del libro Zeno-Svevo chiarisce come non gli sia possibile rinunciare alla sua malattia, cioè alla sua identità più autentica, e si libera mediante l’ironia dagli impacci che gli hanno cucito addosso le sovrastrutture terapeutiche:

 

Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui, perché un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzato i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono. Ma ora mi ritrovo squilibrato e malato più che mai e, scrivendo, credo che mi netterò più facilmente del male che la cura m’ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso.

 

La rottura col trattamento psicanalitico determina anche una frattura nelflusso cronologico degli avvenimenti narrati. Di colpo ci troviamo a tu per tu col presente: da memorialista Svevo si fa cronista. E il presente è, ancora una volta, una combinazione di tragedia e di grottesco, di tristezza e di riso. È il primo giorno di guerra tra Austria e Italia, e ora tocca a Zeno di capitarci dentro stupefatto come era già toccato al cognato Guido di trovarsi stupefatto all’altro mondo. La guerra è un orrendo accidente, comunque; non è l’accidente. Che è invece l’«occhialuto uomo» il quale, a differenza degli alberi e delle bestie, ha fatto sì che «la vita attuale» sia «inquinata alle radici». L’uomo diventa così «sempre più furbo e più debole» proprio perché si affida tutto agli «ordigni» che inventa secondo tecniche sempre più raffinate, al punto che «l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto», «la legge del più forte sparì», alla natura si sostituì l’artificio e «perdemmo la selezione salutare».

Ecco perché tutte le terapie (e la psicanalisi in primis) non sono radicali ma semplicemente restauratorie. La liberazione non potrà realizzarsi, probabilmente, che attraverso l’utopia, raffigurata nelle battute finali del romanzo con l’immagine apocalittica (ma anche ludica, e a suo modo più serena che terrificante) della distruzione del mondo, di «questo mondo» in cui si è perduta la misura dell’uomo: e la liberazione, nella dimensione esistenziale sveviana, non può che chiamarsi, metaforicamente, «salute»:

 

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

 

MARIO LUNETTA

Questo ebook appartiene a martina rotta - 91344 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 9/12/2014 7:44:43 AM con numero d'ordine 925062
I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana
cover.xhtml
logo.xhtml
colophon.xhtml
frontespizio.xhtml
nota.xhtml
tit1.xhtml
intro1a.xhtml
intro1b.xhtml
intro1c.xhtml
Section0001.xhtml
Section0099.xhtml
Section0002.xhtml
Section0003.xhtml
tit2.xhtml
intro2a.xhtml
intro2b.xhtml
Section0004.xhtml
Section0005.xhtml
Section0006.xhtml
Section0007.xhtml
Section0008.xhtml
Section0009.xhtml
Section0010.xhtml
Section0011.xhtml
Section0012.xhtml
Section0013.xhtml
Section0014.xhtml
Section0015.xhtml
Section0016.xhtml
Section0017.xhtml
Section0018.xhtml
Section0019.xhtml
Section0020.xhtml
Section0021.xhtml
Section0022.xhtml
Section0023.xhtml
Section0024.xhtml
Section0025.xhtml
Section0026.xhtml
Section0027.xhtml
Section0028.xhtml
Section0029.xhtml
Section0030.xhtml
Section0031.xhtml
Section0032.xhtml
Section0033.xhtml
Section0034.xhtml
Section0035.xhtml
Section0036.xhtml
Section0037.xhtml
Section0038.xhtml
Section0039.xhtml
Section0040.xhtml
Section0041.xhtml
Section0042.xhtml
Section0043.xhtml
tit3.xhtml
intro3a.xhtml
intro3b.xhtml
Section0044.xhtml
Section0045.xhtml
Section0046.xhtml
Section0047.xhtml
Section0048.xhtml
Section0049.xhtml
Section0050.xhtml
Section0051.xhtml
Section0052.xhtml
Section0053.xhtml
Section0054.xhtml
Section0055.xhtml
Section0056.xhtml
Section0057.xhtml
Section0058.xhtml
Section0059.xhtml
Section0060.xhtml
tit4.xhtml
intro4a.xhtml
intro4b.xhtml
intro4c.xhtml
Section0061.xhtml
Section0062.xhtml
Section0063.xhtml
Section0064.xhtml
Section0065.xhtml
tit5.xhtml
intro5a.xhtml
ded5.xhtml
Section0066.xhtml
Section0067.xhtml
Section0101.xhtml
Section0068.xhtml
Section0069.xhtml
tit6.xhtml
intro6a.xhtml
intro6b.xhtml
Section0070.xhtml
Section0071.xhtml
Section0072.xhtml
Section0073.xhtml
Section0074.xhtml
Section0075.xhtml
Section0076.xhtml
Section0077.xhtml
Section0078.xhtml
Section0079.xhtml
Section0080.xhtml
Section0081.xhtml
Section0082.xhtml
Section0083.xhtml
Section0084.xhtml
Section0085.xhtml
Section0086.xhtml
Section0087.xhtml
Section0088.xhtml
Section0089.xhtml
tit7.xhtml
intro7a.xhtml
intro7b.xhtml
Section0090.xhtml
Section0091.xhtml
Section0092.xhtml
Section0093.xhtml
Section0094.xhtml
Section0095.xhtml
Section0096.xhtml
Section0100.xhtml
Section0097.xhtml
Section0098.xhtml
indice.xhtml